Al momento di scrivere l’Associated Press, che negli Stati Uniti in assenza di una struttura elettorale centrale normalmente affidata ai Ministeri dell’Interno, sancisce di fatto il vincitore delle elezioni presidenziali, non ha ancora proclamato la vittoria di Trump. Gli vengono comunque assegnati 267 dei 270 grandi elettori necessari ed è in vantaggio nei quattro stati non ancora attribuiti (Michigan, Wisconsin, Nevada e Arizona). Tutti gli ormai famosi “swing states” sui quali si appuntava l’attenzione sembrano destinati ad alimentare il successo dell’ex Presidente.
La lunga attesa e le infinite schermaglie legali messe in atto da legioni di avvocati, che erano considerate l’esito ineluttabile di un voto giocato sul filo del rasoio, sono rimandate ad altra occasione. Il successo di Trump è netto e indiscutibile e, a differenza del 2016, sembra confermato dal voto popolare e non solo dal meccanismo dei grandi elettori che tende a favorirlo. Sempre al momento di scrivere può contare sul 51,1% dei voti con 5 milioni di vantaggio su Kamala Harris. Uno scarto che molto probabilmente si ridurrà nel conteggio finale dato che, tra gli altri, mancano ancora metà dei voti della California, dove il vantaggio della candidata democratica ammonterà a diversi milioni di suffragi.
Il successo di Trump è particolarmente significativo perché si accompagna certamente alla maggioranza strappata ai democratici al Senato e, probabilmente dalla conferma del predominio alla Camera dei Rappresentanti. Se a questo si aggiunge la salda maggioranza trumpiana alla Corte Suprema, il futuro Presidente disporrà di un potere enorme. Ci si aspetta quindi una presidenza diversa dalla prima, nella quale Trump era ancora fortemente isolato all’interno del Partito Repubblicano e non disponeva di una schiera di personaggi affini sufficiente ad occupare tutti i posti garantiti dallo spoil system.
L’analisi del voto come sempre richiederà approfondimenti che dovranno fondarsi sui dati definitivi e sull’analisi accurata delle tendenze sociologiche e delle motivazioni del voto, considerato che gli exit poll diffusi a ridosso del voto non sono considerati particolarmente affidabili. È possibile però provare a definire alcune indicazioni di fondo che emergono da questa scadenza elettorale.
Innanzitutto si conferma come anche negli Stati Uniti, come già in altri paesi, si stia consolidando un “blocco sociale reazionario” che ha capacità espansive e una importante base di massa. Ad alimentare questa coalizione, che non ha una dimensione puramente elettorale, ci sono spinte diverse collocate sia sul piano ideologico che su quello dei più diretti interessi materiali. Influisce una ripresa in atto da tempo di correnti religiose fondamentaliste oltre alla presa dei due temi tradizionalmente favorevoli alla destra, soprattutto estrema: la retorica anti-migranti e l’ostilità all’interventismo statale soprattutto quando questo assume la forma del fisco.
Il fatto che questo blocco sia tenuto insieme da una retorica populista anti-élite non esclude affatto che alla sua direzione vi sia una parte significativa della grande borghesia economica e finanziaria che per convinzione e per interesse ha deciso di puntare decisamente su uno spostamento a destra dell’assetto politico del paese. Se inizialmente vi era diffidenza nei confronti di Trump (di cui vi è ancora traccia nella presa di posizione dell’Economist in favore di Kamala Harris), questa era ed è legata soprattutto al pericolo di instabilità collegato alla sua seconda presidenza piuttosto che al contenuto delle sue politiche economiche, tutte rigorosamente pro-business e pro-ricchi.
Il cuore e collante ideologico del blocco sociale reazionario trumpiano sono l’individualismo proprietario (che convince anche parte di quei settori popolari o sottoproletari che pure non hanno nessuna proprietà da difendere) e il nazionalismo esasperato. La traduzione politica di questo sottofondo ideologico si condenza in una concezione gerarchica della società (“i ricchi sono ricchi perché sono migliori”) da cui deriva una legittimazione della forza come strumento di regolazione dei rapporti sociali. Questo significa che chi ha il potere deve poterlo utilizzare per i propri fini a prescindere dall’esistenza di un sistema di pesi e contrappesi derivante dalla teoria liberale dello Stato.
Concezione gerarchica della società e nazionalismo esasperato hanno un altro corollario, la trasformazione dei movimenti collettivi in nemico da perseguire anche attraverso l’uso della forza. Nel caso dei sindacati perché violano la presunta “libertà assoluta” dell’individuo proprietario, nel caso di forme di dissenso politico perché identificate come nemico interno che rompe l’unità della nazione.
Nelle ultime settimane negli Stati Uniti è ripreso un dibattito sulla natura fascista o meno del fenomeno Trump e del movimento MAGA, a partire dalle dichiarazioni di un suo ex collaboratore politico della precedente amministrazione e da un’intervista dello storico Robert Paxton diventato famoso per il suo libro sulla Francia di Vichy, nel quale denunciava le diffuse complicità col regime reazionario e collaborazionista di Pétain per molto tempo occultate nel dibattito politico e storiografico francese. Paxton ha dichiarato di aver cambiato opinione su Trump e di essere giunto alla conclusione che effettivamente si possa parlare di un fenomeno fascista.
Se si assumono le varie analisi che il movimento comunista e socialista produsse negli anni ’30 a proposito dell’emergere del fenomeno fascista (e poi quelle successive del dopoguerra fino alle ricerche di Nicos Poulantzas) si può arrivare a conclusioni diverse. Certamente non siamo in presenza (per ora) di “dittature terroristiche aperte” così come le configurava il Comintern. Si possono però intravedere elementi che portano a nuovi “regimi reazionari di massa” contenenti elementi di continuità assieme ad altri di rottura e innovazione con il fascismo storico. Ma questi sono elementi di riflessione che non è possibile approfondire in queste brevi note.
Certamente la denuncia del pericolo fascista e in generale il pericolo di messa in discussione del sistema politico democratico da parte di Trump, avanzata dalla Harris nelle ultime settimane, non sembra aver avuto un impatto significativo sull’elettorato. Questo fenomeno lo si è già visto anche in diverse elezioni europee. A volte l’agitare il pericolo del fascismo alle porte, slegato da altri temi più mobilitanti, può essere percepito come un trucco elettorale per ottenere consenso a poco prezzo.
Le ragioni della sconfitta della Harris sono diverse e richiederanno analisi approfondite ma anche qui è possibile anticipare qualche segnalazione di possibili percorsi di riflessione. E’ stata segnalata negativamente la tendenza accentuata nelle ultime settimane da parte della Harris a convergere al centro per cercare di intercettare voti nell’elettorato repubblicano moderato. Un ambito che probabilmente esiste solo in ristretti settori dell’establishment. Alcune analisi indicano che semmai accentuando elementi di critica al potere economico, sia con argomentazioni di tipo populista sia con proposte economiche progressiste, si sarebbe potuto avere maggior successo.
L’establishment democratico ha seguito il copione abbastanza noto di puntare (oltre che sull’elettorato di centro) sulla dimensione dei valori e sulla mobilitazione delle appartenenze identitarie. I diritti riproduttivi sono stati certamente un tema importante ma si è visto come l’elettorato potesse contemporaneamente votare per la difesa dell’accesso all’aborto e a favore di Trump.
Il “blocco elettorale progressista” tende a puntare, oltre che alle tematiche relative ai diritti e ai valori, alla valorizzazione delle identità. Si punta al voto delle donne, dei neri, dei latinos, ecc. in quanto donne, neri, latinos e così via. Il voto femminile ha quasi certamente favorito la Harris, come in generale si orienta verso i democratici, ma non in misura tale da essere determinante per la vittoria elettorale. E anche tra le minoranze non bianche il richiamo identitario sembra fare meno preso a favore di altre tematiche, in particolare quelle economiche (come l’inflazione che ha eroso i redditi e i salari pur in un contesto di crescita economica).
Il punto di debolezza del “blocco elettorale progressista” è di non rappresentare una reale alternativa a nessuno dei due capisaldi ideologici fondanti dell’altro blocco e sopra richiamati: individualismo proprietario e nazionalismo esasperato. Il richiamo all’uguaglianza e ad una politica “per tutti” si scontra con l’identificazione e gli stretti rapporti con ampi settori della grande borghesia e della finanza. Il ricorso ai numerosi testimonial del mondo dello spettacolo che si muovono nel mondo dei valori piuttosto che su quello degli interessi sociali, si è rivelato del tutto insoddisfacente anche nella conquista del mondo giovanile. La difesa del ruolo imperiale degli Stati Uniti nel mondo attraverso il predominio militare e il ricorso alla guerra, nonché l’ampia legittimazione al ricorso alla violenza come strumento regolativo dei rapporti tra Stati (si veda l’attivo sostegno ai crimini di Israele) non consente evidentemente di contrastare l’”America First” trumpiana. Mentre sul piano della retorica si rappresenta un ruolo americano tutto orientato alla difesa della democrazia contro l’autoritarismo e dello stato di diritto contro la “giungla”, la realtà dimostra tutta l’ipocrisia contenuta in questa narrazione.
Se si può assumere una tendenza generale è che il “blocco elettorale progressista” non è in grado di arginare l’affermazione del “blocco sociale reazionario”.
Questo pone alla sinistra alternativa un compito importante e complesso. Non può né deve sottrarsi allo scontro sociale, politico, ideologico col blocco reazionario anche provando a intervenire sulle contraddizioni esistenti al suo interno e quindi non può accontentarsi di un ruolo passivo e attendista (per le classi popolari non ci sono i renziani popcorn per vedere dal divano come butta la storia). La natura profondamente anticomunista del trumpismo (dove il “comunismo” si identifica con un’ampia gamma di idee e interessi) può essere occultato solo a proprie spese, come la storia ha dimostrato più volte. Non arretrare su nessun punto di attacco del blocco reazionario e contemporaneamente operare per una radicale trasformazione del “blocco elettorale progressista” in “blocco sociale alternativo” potenzialmente maggioritario questa sembra l’unica strategia adeguata.
La differenza fondamentale tra il primo e il secondo è che il secondo reintroduce il conflitto di classe, nelle forme e nei modi adeguati ai tempi, nella costruzione di una ampia coalizione maggioritaria, senza contrapporlo all’insieme dei valori progressisti semmai, come si sarebbe detto un tempo, “inverandoli” nell’unico modo possibile: la separazione conflittuale dal liberismo.
L’esito del voto negli Stati Uniti porrà problemi non da poco alle classi dominanti europee. Tutta una serie di elementi retorici rischiano di andare in pezzi. L’Occidente come blocco compatto portatore di civiltà, guidato dalla grande potenza americana, ad esempio. Oppure l’identificazione dell’unica mela marcia europea nell’ungherese Orban che è considerato esempio e modello per la nuova amministrazione di Washington.
La prima grana importante riguarderà evidentemente l’Ucraina. Senza voler prendere per oro colato le dichiarazioni pacifiste di Trump, che pure rappresenta tendenze isolazioniste che sono presenti in tutta la storia degli Stati Uniti centrate sui propri interessi a discapito dell’aspirazione ad essere gendarmi nel mondo, è probabile che si avvii un più o meno rapido disimpegno militare. Questo lascia la Commissione europea e la parte europea della Nato con un grosso cerino in mano.
L’Europa, dopo aver in un primo momento seguito con una qualche riluttanza gli Stati Uniti sulla strada della contrapposizione economico-militare con la Russia, ha poi scelto di diventare protagonista di questa strategia. Pagandone per altro consistenti prezzi economici e politici. Il calcolo dell’establishment europeo era di utilizzare il nemico alle porte (la Russia di Putin) come collante per rilanciare un progetto europeo in crisi e l’incremento delle spese militari come occasione per avviare un processo di reindustrializzazione senza mettere in discussione il mantra liberista della concorrenza, del libero mercato e l’austerità.
Tutta questa impostazione rischia di crollare come un castello di carte di fronte alle scelte della nuova amministrazione trumpiana. In teoria a questo potrebbe reagire una ripresa di autonomia europea e un cambio deciso di orientamento nel ruolo svolto sullo scenario globale: attenuazione del conflitto con la Russia, previa fine contrattata della guerra in Ucraina, ammorbidimento dello scontro commerciale con la Cina, una presenza più attiva e meno subalterna a Israele in Medio oriente, rapporti diversi con il cosiddetto Sud globale. Il guaio è che oggi non si vede una leadership nazionale e comunitaria in grado di gestire questa correzione di rotta (il classico tandem franco-tedesco). Dopo la virata verso l’estrema destra di Macron, l’accelerazione della crisi della coalizione semaforo in Germania con il possibile ritorno al potere di una CDU che ha ripudiato la Merkel, il rafforzarsi dell’alleanza della Von der Leyen con l’estrema destra al Parlamento europeo, si profilano piuttosto nuove contraddizione che si aggiungono alle vecchie.
In ogni caso, ed è forse l’unico tenue barlume che possiamo concederci, la situazione è tutt’altro che stabile. E questo può offrire nuove opportunità di ripresa alla sinistra alternativa. Purché sappia cogliere le nuove possibilità di iniziativa e rifiutare le accomodanti sirene del ripiegamento nella propria sempre più misera nicchia identitaria. E’ il tempo, semmai, di una nuova “grande ambizione”.
Franco Ferrari