Esercito, mercenari e interessi economici dell’era al-Bashir hanno preso il controllo del Sudan e venderanno le risorse del Paese al miglior offerente. Dietro il colpo di Stato c’è l’appoggio di Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita in lotta con l’alleanza Turchia-Qatar per il controllo della regione del Corno d’Africa.
Gli eventi
Il 25 ottobre c’è stato un colpo di Stato in Sudan che ha messo fine, almeno temporaneamente, al percorso di transizione politica verso un regime democratico, inaugurato dopo la caduta del regime autoritario dell’ex presidente Omar al-Bashir, deposto l’11 aprile 2019 dopo manifestazioni imponenti durate 8 mesi e coronate da un accordo (un difficile compromesso) senza precedenti tra una componente dell’esercito e forze politiche di opposizione e componenti della società civile. Questo colpo di Stato dei militari è venuto dopo un fallito golpe di fine settembre, attribuito ai sostenitori al-Bashir1. Una pratica, quella dei colpi di Stato militari, che considerati i recenti interventi in Mali, Chad e Guinea, è purtroppo tornata di moda nell’Africa subsahariana.
Nel giro di poche ore sono stati arrestati diversi ministri del governo e politici civili del Consiglio Sovrano, l’organismo che supervisionava la transizione nel Paese, ma anche funzionari pubblici, giornalisti e attivisti. Tra le persone arrestate c’era il primo ministro Abdallah Hamdok, che ha invitato i sudanesi a scendere in piazza per “difendere la rivoluzione in modo pacifico“. Hamdok sui era rifiutato di rilasciare una dichiarazione a sostegno del golpe. E’ stato poi messo agli arresti domiciliari il giorno successivo.
E’ stato dichiarato lo stato di emergenza. L’esercito e le forze paramilitari di Supporto Rapido sono state schierate nelle strade della capitale, Khartoum, e della città gemella Omdurman, che è collegata alla capitale da un ponte sul Nilo. I ponti sul Nilo sono stati bloccati, l’aeroporto è stato chiuso e i voli internazionali sospesi. I militari hanno preso d’assalto la stazione radiotelevisiva statale e hanno bloccato la connessione internet.
Molti sudanesi, coordinati dai comitati di resistenza di quartiere, sono affluiti nelle strade principali della due maggiori città del Paese per contestare fischiando quello che l’Associazione Professionale, punta di diamante della rivolta del 2019, ha denunciato come un “colpo di stato militare” e ha incitato allo sciopero generale, invitando i potenti sindacati sudanesi a tornare a svolgere un ruolo chiave nelle proteste, come era stato nel 2019. Anche i partiti Umma e Congresso Sudanese, i più grandi del Paese, hanno invitato a protestare nelle strade. I manifestanti hanno bloccato le strade, dato fuoco a pneumatici e cantato: “Le persone sono più forti, più forti” e “La ritirata non è un’opzione!“, mentre nei primi giorni le forze di sicurezza che non si sono limitate ad usare gas lacrimogeni per disperderli, ma hanno sparato proiettili veri uccidendo oltre una decina di persone e ferendone centinaia. Grandi manifestazioni contro il golpe, con centinaia di migliaia di partecipanti, si sono tenute il 30 ottobre a Khartoum e Omdurman e nel resto del Paese da El-Obeid a Atbara e Port Sudan. Le forze di sicurezza hanno ucciso altre tre persone, ferendone una quarantina durante le proteste.
Gli Stati Uniti hanno comunicato di essere “profondamente preoccupati” per gli arresti dei ministri e altri politici. Quanto accaduto è “in contrasto con la dichiarazione costituzionale [che regola la transizione del paese] e le aspirazioni democratiche del popolo sudanese“, ha twittato l’inviato degli Stati Uniti per il Corno d’Africa, Jeffrey Feltman, arrivato il 23 ottobre per incontrare i dirigenti sudanesi e cercare di trovare una mediazione tra le parti. Gli USA hanno di sospeso l’assistenza economica da 700 milioni di dollari. Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale USA ha affermato: “Dovrebbero prima di tutto cessare ogni violenza contro civili innocenti e… dovrebbero rilasciare coloro che sono stati detenuti e dovrebbero tornare su un percorso democratico“2. Questo anche se Washington non vuole che l’isolamento spinga il generale al-Burhan tra le braccia di Pechino.
Il responsabile della diplomazia europea, Josep Borrell, ha espresso su Twitter “grande preoccupazione” per l’evoluzione della situazione in Sudan e ha chiesto di far ripartire il processo politico di transizione, annunciando “gravi conseguenze per l’impegno dell’UE, compreso il suo sostegno finanziario al Sudan”.
Anche Lega Araba e Unione Africana hanno chiesto il ritorno al processo di transizione e l‘Unione Africana ha sospeso il Sudan dall’organizzazione il 27 ottobre.
Per la Russia, invece, questo golpe è “il logico risultato di una politica fallimentare portata avanti negli ultimi due anni”. “Le autorità di transizione e i loro padrini stranieri in pratica hanno deriso la disperazione e la situazione pietosa della maggior parte della popolazione“, ha aggiunto il ministero degli Esteri russo in una nota. “La vasta ingerenza straniera negli affari interni della repubblica ha portato alla perdita di fiducia dei cittadini del Sudan nelle autorità di transizione (…), causando instabilità generale nel Paese“.
La situazione dell’Africa subsahariana sta mutando in fretta, basti pensare all’instabilità attuale dell’Etiopia impegnata in un conflitto armato con i “ribelli” del Tigray, i colpi di Stato in Mali, Chad e Guinea (dove i militari si nascondono sotto cosiddette transizioni civili) ed il peso crescente di Russia e Cina3, anche in Sudan.
Le ragioni del colpo di Stato
Il generale Abdel Fattah al-Burhan, ex capo delle forze armate sudanesi, a capo del Consiglio Sovrano per la condivisione del potere, ha giustificato la presa del potere da parte dei militari, affermando che le lotte intestine tra le parti militari e civili minacciavano la stabilità del Paese ed era necessario “correggere il corso della rivoluzione”. “L’intero paese era in stallo a causa delle rivalità politiche”, ha detto al-Burhan in una conferenza stampa televisiva. “L’esperienza degli ultimi due anni ha dimostrato che la partecipazione delle forze politiche nel periodo di transizione è imperfetta e suscita conflitti”.
Al-Burhan ha tentato di attribuire la colpa della crisi a Hamdok per aver rifiutato di scendere a compromessi con i generali durante i colloqui del fine settimana che hanno coinvolto le parti e mediati dall’inviato americano Feltman. Al-Burhan ha affermato che l’esercito ha agito perché era preoccupato per il rischio di una guerra civile, accusando le forze politiche di istigazione contro le forze armate4.
Il fatto è che entro la fine di novembre l’esercito avrebbe dovuto trasferire la leadership del Consiglio Sovrano congiunto a una figura civile per i 18 mesi in cui si sarebbero dovute organizzare le elezioni. Invece di cedere il potere, al-Burham ha scelto il colpo di Stato. Al centro dello scontro c’è la volontà delle forze armate e dei loro alleati di mantenere i loro privilegi in un sistema economico predatorio dove i militati hanno il controllo assoluto delle casse pubbliche e delle risorse. I profitti dei militari stanno avendo la precedenza sulla democrazia.
Il compromesso raggiunto tra forze militari e organizzazioni politiche civili nel 2019 aveva apparentemente messo a tacere la realtà di molti conflitti per il potere, tra partiti politici, tra esercito, milizie e gruppi ribelli locali, e tra coloro che erano a favore di una visione più islamista dello Stato. Ma, i conflitti tra i vari attori sono hanno continuato a covare e la tensione si era intensificata da diverse settimane tra i civili e i militari, che si dividevano il potere all’interno delle autorità di transizione. Dopo il tentativo fallito di golpe del 21 settembre scorso, i generali hanno intensificato i loro attacchi diretti alla “cattiva gestione” dei politici civili.
Centinaia di manifestanti convocati da una fazione che sostiene l’esercito hanno organizzato, dal 16 ottobre, un sit-in alle porte del palazzo presidenziale per chiedere la fine del “governo della fame” e un “governo militare“.
Centinaia di migliaia di manifestanti pro-democrazia, sostenitori del trasferimento completo del potere ai civili, hanno tentato una prova di forza il 21 ottobre, scendendo nelle strade di Khartoum e di altre grandi città. La coalizione a sostegno dei civili aveva messo in guarda dal rischio di un “colpo di stato strisciante” durante una conferenza stampa. “Rinnoviamo la nostra fiducia al governo e al primo ministro“, aveva insistito Yasser Arman, uno dei dirigenti delle Fronte per la Libertà e il Cambiamento (FFC), punta di diamante della rivolta che aveva destituito al-Bashir nel 20195.
A due anni dalla caduta di al-Bashir, la rabbia è ancora grande e la frustrazione crescente tra i giovani attivisti pro-democrazia soprattutto perché non c’è stata giustizia per i crimini commessi contro i manifestanti, contro i leader studenteschi, gli attivisti (almeno 246 morti e oltre 1.350 feriti a metà luglio 2019), compresi quelli commessi nel Darfur e nei Monti Nuba negli ultimi 30 anni. Riformare la giustizia era una delle promesse del governo civile, ma questo si è rivelato difficile da mantenere. Uno dei problemi è stato che molti leader (soprattutto alcuni comandanti militari ancora in carica) che avrebbero dovuto spingere per una riforma della giustizia erano a loro volta accusati dai manifestanti di essere autori di crimini. Non è stato possibile indagare sulla corruzione all’interno del vecchio regime di al-Bashir e sui crimini commessi anche durante la fase di transizione (come l’uccisione di 120 manifestanti che partecipavano ad un sit-in pacifico davanti al quartier generale dell’esercito a Khartoum il 3 giugno 2019). Quello che è certo è che fino a quando questo problema dell’impunità non sarà risolto, non potranno esserci pace e stabilità politica.
In teoria, la presidenza del Consiglio Sovrano, in mano al generale al-Burhan, avrebbe presto dovuto passare a un civile. Ma, dopo il fallimento del tentato golpe di fine settembre, si è spacciato “guardiano” della rivoluzione e ha imposto lo scioglimento del governo in carica, affermando che l’esercito è l’unico in grado di portare il Paese alle elezioni promesse per il luglio 2023. Esercito, mercenari e interessi economici dell’era al-Bashir hanno preso il controllo e venderanno le risorse del Paese al miglior offerente.
Al-Burhan e i militari golpisti sono apertamente appoggiati da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Bahrain, il “quartetto arabo” in aperto contrasto con l’alleanza Turchia-Qatar per il controllo della regione del Corno d’Africa. I flussi finanziari segreti degli Emirati hanno rappresentato una leva senza precedenti in ampi segmenti dello spettro politico, che ha aiutato i generali a consolidare il loro potere. Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita si volevano garantire che un governo civile democratico non diventasse mai una realtà in un Paese alla loro porta. Non a caso, sul colpo di Stato, dal Cairo, Doha, Abu Dhabi e Riad non è arrivato alcun commento di condanna per 10 giorni.
La componente civile della transizione è stata veloce a contrattaccare. All’inizio di ottobre, il primo ministro, Abdallah Hamdok, aveva criticato pubblicamente la presenza di ufficiali islamisti tra le file dell’esercito sudanese, che il generale al-Bourhan rifiuta di epurare per mantenere l’unità e la coesione dell’istituzione militare. Il primo ministro aveva chiesto che le forze di sicurezza fossero riformate profondamente e che le imprese gestite dai militari fossero poste sotto la supervisione del governo 6 .
Oltre a svolgere un ruolo politico dominante, l’esercito mantiene il controllo su molti settori dell’economia sudanese e il settore della difesa da solo rappresenta il 12% del bilancio statale. L’esercito, come nel vicino Egitto, possiede molte attività chiave, tra cui la vendita di gas da cucina e l’estrazione mineraria. La totale assenza di trasparenza, inclusa la mancata dichiarazione dei propri profitti nel bilancio dello stato, hanno alimentato le speculazioni sui reali interessi dei vertici militari sudanesi nella transizione democratica. Hamdock aveva proposto una distinzione tra gli investimenti nell’industria della difesa, ai suoi occhi accettabili, e quelli negli altri settori. “È impensabile che l’esercito e i servizi di sicurezza investano nei settori produttivi, entrando così in concorrenza con il settore privato”, aveva dichiarato a dicembre del 2020. A marzo, il ministero dell’Informazione aveva indicato che la più grande compagnie militare del Sudan, il Defense Industrial Systems, avrebbe gradualmente dovuto cedere le sue operazioni civili al ministero delle Finanze.
Questa ennesima tempesta politica sta avvenendo sullo sfondo di una crisi economica senza fine. “Abbiamo stabilizzato la moneta, dopo fluttuazioni violente, l’inflazione sta cominciando a calare e man mano che apriamo la nostra economia, arriveranno investimenti dall’estero. Crediamo che il peggio sia passato”. Così il premier Hamdok, economista navigato e già vice segretario della Commissione Economica dell’ONU per l’Africa, descriveva un mese fa le condizioni del Sudan in un’intervista alla CNN. In effetti, a metà settembre erano stati fatti passi avanti per stilare un accordo con l’Arabia Saudita teso a favorire un flusso di investimenti miliardari nei settori dell’energia, delle infrastrutture, dell’agricoltura e delle telecomunicazioni.
Il Paese sta affrontando una crisi economica catastrofica che aveva già minato il regime di al-Bashir. Un debito estero enorme (50 miliardi di dollari), la vita quotidiana dei sudanesi è costellata da un’inflazione galoppante (oltre il 380%) e da carenze di gas, elettricità, carburante e beni di prima necessità. Questa situazione si è aggravata da metà settembre, quando i dimostranti della tribù Beja hanno orchestrato ripetuti blocchi del principale porto del Paese, Port Sudan, rimossi subito dopo il golpe, in segno di protesta contro accordi politici che li escludevano.
Ma, ad aggravare la situazione è stato un tentativo impopolare da parte del governo di riformare l’economia del Paese al fine di qualificarsi per la riduzione del debito da parte del Fondo Monetario Internazionale, compreso un taglio ai sussidi e un aumento del costo della vita. La Banca Mondiale aveva annunciato a marzo che il Paese aveva saldato i suoi arretrati7 e che la banca avrebbe nuovamente lavorato con il Sudan dopo una pausa di quasi 30 anni. La Banca Mondiale, attraverso il suo braccio operativo, l’International Development Agency (IDA), aveva offerto l’accesso a 2 miliardi di dollari in sovvenzioni per la riduzione della povertà e investimenti per la ripresa economica. Il Sudan era stato incluso anche tra i Paesi beneficiari dell’alleggerimento del debito estero nell’ambito dell’Iniziativa per i Paesi poveri fortemente indebitati (HIPC). Subito dopo il golpe, la Banca Mondiale ha interrotto gli esborsi per aiuti e altre operazioni in Sudan.
Ora, al-Burhan ha annunciato che presto nominerà un governo di tecnocrati (di “persone competenti”) per affrontare la crisi economica del Paese. Nel frattempo, il Paese è stato colpito da una grave carenza di contanti poiché la maggior parte delle banche e dei bancomat rimangono chiusi per lo sciopero nazionale da parte dei bancari. Circa il 90% dei bancari sta prendendo parte a una campagna di disobbedienza civile, con l’obiettivo di paralizzare un’economia ancora dominata dagli scambi in contante. Se i militari hanno dalla loro parte il monopolio della violenza, il popolo sudanese ha dalla sua una forte determinazione e negli ultimi anni ha dimostrato di non avere paura.
Fattori geopolitici
Il Sudan riveste anche un ruolo geopolitico rilevante nell’area come luogo di transito dei flussi migratori diretti verso la Libia e il Mediterraneo. Inoltre, affacciandosi sul Mar Rosso entra in contatto con le principali rotte commerciali a livello globale. Nella partita sul futuro del Sudan entrano quindi anche interessi e pressioni che vengono dall’esterno e non solo a livello regionale.
Pertanto, la crisi sudanese avrà sicuramente importanti ripercussioni a livello geopolitico. Il Sudan è il terzo Paese più grande dell’Africa e ha oltre 40 milioni di abitanti. E’ stato sempre molto povero e sin dalla sua indipendenza dal Regno Unito nel 1956 è stato dilaniato da forze centrifughe che lo tirano in direzioni opposte. Gode di una posizione strategica, al confine con sette Paesi (con 3 mila km di confini, permeabili ai traffici illegali, tra cui quello di esseri umani), e nasce collocato lungo la direttrice coloniale britannica che attraversa l’Africa in verticale da nord a sud – al contrario di quella francese che va invece in orizzontale da ovest verso est – partendo dal sovrastante Egitto sino al Sudafrica. Tanto che per oltre quaranta anni è stato praticamente sempre in uno stato di guerra civile tra il nord arabo e musulmano e il sud cristiano e animista – a cui si sono aggiunti nella parte occidentale i conflitti interetnici tra arabi e africani nel Darfur che degenerano dal 2003 in genocidio – fino al riconoscimento da parte di Khartoum dell’indipendenza del Sudan del Sud nel 2011. Come non bastassero queste ragioni di instabilità strutturale, il Sudan è anche dentro fino al collo nel conflitto regionale che oppone l’Egitto all’Etiopia per la sua costruzione della “Diga del Rinascimento” sul Nilo azzurro, le cui convulsioni rischiano sempre di degenerare in una crisi armata regionale8. E’ infatti proprio a Khartoum, capitale del Sudan, che il più consistente – fino alla costruzione della nuova diga – ramo del Nilo detto “azzurro” si incontra con il Nilo detto “bianco” che nasce dal lago Vittoria e attraversa il Sudan venendo dall’Uganda per dirigersi verso l’Egitto e sfociare nel Mediterraneo.
Da quasi un anno, in corso la guerra civile in Etiopia, tra le forze armate federali e i combattenti del Tigray, un territorio montano confinante con Sudan ed Eritrea, con circa 6-7 milioni di abitanti. Il Sudan ha accolto decine di migliaia di rifugiati etiopi (molti bambini). Sono stati alloggiati in campi profughi gestiti dall’UNHCR. Con l’Etiopia, il Sudan ha una seconda controversia aperta (oltre a quella dell’acqua del Nilo) relativa al controllo della fertile regione agricola di pianura di al-Fashqa (al confine con lo Stato Amhara) che il Sudan rivendica in virtù di un accordo firmato nel 1902 tra il Regno Unito e l’Etiopia sotto l’imperatore Menelik II. Nel febbraio 2021, si sono verificati dei primi scontri tra soldati etiopici e sudanesi, con almeno 50 morti etiopi
A partire dal 2016, a seguito delle pressioni e risorse finanziarie europee, i governi e l’esercito sudanese hanno cominciato a contrastare i flussi migratori che dal Corno d’Africa percorrono la “rotta” del Mediterraneo centrale verso la Libia (l’alternativa è la rotta che passa per lo Yemen, Paese dilaniato dalla guerra civile)9. Hanno arrestato e deportato migranti eritrei per “ingresso illegale” in Sudan. Questo anche se restituire una persona ad un Paese in cui subisce gravi danni – che in Eritrea includono carcerazione e tortura (un Paese che dall’instaurazione della brutale dittatura di Isaias Afwerki nel 1993 ha visto fuggire all’estero oltre il 12% della popolazione) – è una violazione della norma internazionale nota come “non-refoulement“.
E’ bene ricordare che si stima che al-Gheddafi avesse reclutato fino a 10 mila combattenti da Sudan, Mali, Niger e Chad per combattere per suo conto prima di essere estromesso e ucciso nel 2011. Successivamente, il governo di Tobruk che faceva capo al generale Khalīfa Belqāsim Haftar – un ex sodale della prima ora di Gheddafi, poi sconfitto disastrosamente in Chad e diventato un dissidente legato alla CIA con anche cittadinanza americana), che comanda l’autoproclamato Esercito Nazionale Libico nel quale hanno combattuto anche mercenari sudanesi provenienti dal Darfur, chadiani e siriani.
La competizione tra il cosiddetto “quartetto arabo” – costituito da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrain (e, in aggiunta, da Israele in funzione anti-iraniana) – e l’asse Qatar-Turchia e l’Iran, ha portato ad un’iniezione impressionante di capitali e investimenti, civili e militari nella regione del Corno d’Africa, da parte dei Paesi mediorientali (circa 13 miliardi di dollari tra il 2000 e il 2017 secondo uno studio del Clingendael Institute), principalmente in Etiopia e Sudan, nei settori agricolo, manifatturiero e delle costruzioni, anche nel tentativo di espandere le proprie strutture economiche al di là dei settori del petrolio e del gas. Gli investimenti portuali da parte degli EAU a Berbera (Somaliland), Doraleh (Gibuti), Bosaso (Puntland, Somalia) e Assab (Eritrea); la costruzione di avamposti militari sauditi e turchi a Gibuti, in Eritrea e Somalia; il riorientamento diplomatico di Eritrea, Gibuti e Sudan – dietro promesse di ingenti aiuti allo sviluppo e militari – in favore di una posizione pro-saudita; il ruolo di mediazione di Arabia Saudita ed EAU nell’accordo di pace tra Eritrea ed Etiopia dopo 20 anni di “guerra fredda”; l’impegno arabo nella protezione dei flussi commerciali ed energetici marittimi nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano occidentale; i progetti di land grabbing delle monarchie del Golfo per assicurarsi la sicurezza alimentare sempre in Etiopia e Sudan (gli animali vivi sono una delle esportazioni più importanti del Sudan, per un valore di circa 500 milioni dollari nel 2018 e l’Arabia Saudita acquista dal Sudan più del 70% del bestiame che consuma), sono tutti elementi che fanno parte di una strategia mirata sia a espandere e/o consolidare la loro influenza sia a portare avanti la strategia araba di contenimento all’Iran, nel quadro delle crescenti rivalità tra conservatori (il “quartetto arabo”) e Islam politico moderato (l’asse Turchia-Qatar). Al tempo stesso, la Turchia ha ottenuto dal Sudan la cessione del porto dell’isola di Suakin nel Mar Rosso per 99 anni, mentre a Mogadiscio, dove imprese turche hanno ricostruito porto ed aeroporto, c’è da tempo un’importante base militare turca.
La caduta del regime di al-Bashir
D’altra parte, l’ex presidente del Sudan, Omar al-Bashir, al potere fino all’aprile 2019 grazie a un colpo di Stato nel 1989, era stato incriminato dalla Corte Penale Internazionale dell’Aia dal 2009 per crimini contro l’umanità e genocidio commessi da milizie arabe armate (janjāwīd, “diavoli a cavallo”) durante la ribellione nel Darfur (oltre 300 mila persone delle comunità non arabe – Fur, Masalit e Zaghawa – uccise e 2,7 milioni fuggite dalle loro case tra il 2003 e il 2005) e nel Sud Kordofan, per i quali deve ancora essere pocessato. Nonostante questo, al-Bashir si era mosso liberamente al di fuori del Paese per anni sancendo accordi politici ed economici con Russia, Turchia e Siria. Al-Bashir aveva avuto anche la responsabilità dell’inasprimento della lunga guerra civile tra il nord e il sud del Sudan, che si è conclusa con un accordo di pace nel 2005 e che alla fine ha portato alla disgregazione del Paese con l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011.
Alla fine del 2018 al-Bashir aveva già annunciato la sua candidatura per un terzo mandato alle elezioni previste per il 2020, incurante del limite di due mandati sancito dalla Costituzione. A partire dalla seconda metà di dicembre, con il supporto delle forze militari e paramilitari, al-Bashir ha represso con la forza la protesta popolare (oltre 70 i morti, centinaia i feriti e migliaia gli arrestati), inizialmente definita “rivolta del pane” dopo la decisione di triplicarne il prezzo da un giorno all’altro in seguito alla soppressione di sussidi governativi nel quadro di misure di austerità.
La rivolta era scoppiata nella città di Atbara, ma nel giro di pochi giorni migliaia di sudanesi erano scesi in strada in tutte le città per protestare contro la drammatica crisi economica e al-Bashir aveva dichiarato lo Stato di emergenza per un anno, arrestando anche decine di giornalisti. Si sono mobilitati i partiti di opposizione, i sindacati e l’associazioni dei professionisti (medici, avvocati, ingegneri), degli studenti universitari e delle donne.
Oltre un milione di manifestanti pacifici davanti al quartier generale delle forze armate hanno scandito slogan come “Libertà, pace e giustizia” e “Un popolo, un esercito” il 6 aprile 2019, invocando un intervento delle forze armate contro al-Bashir. Le manifestazioni sono proseguite per altri sei giorni con diversi tentativi da parte delle forze di sicurezza di disperderle. Sono state uccise 26 persone, tra cui 5 soldati che difendevano i manifestanti, mentre oltre 150 sono state ferite.
Col passare dei giorni è diventata evidente la divisione all’interno delle forze di sicurezza, con alcuni elementi all’interno dell’esercito che si sono schierati con i dimostranti contro la milizia armata fedele ad al-Bashir e i temuti servizi segreti sotto il controllo del ministro degli Interni. L’11 aprile al-Bashir è stato deposto e arrestato dall’esercito, che aveva circondato il palazzo presidenziale (nella sua residenza sono stati trovati circa 7 milioni di dollari in contanti). Sono stati arrestati anche una parte dei politici e funzionari di governo, i prigionieri politici sono stati liberati.
Nel 1985 un colpo di Stato militare rovesciò il presidente Jaafar Nimeiri dopo una rivolta popolare, per poi rapidamente riconsegnare il potere ad un governo eletto guidato da Sadiq al-Mahdi che il 30 giugno 1989 venne rovesciato da al-Bashir – allora un ufficiale paracadutista – che si era alleato con Hassan al-Turabi, fondatore del National Islamic Front (NIF) e rappresentante della Fratellanza Musulmana. Al-Bashir impose un sistema monopartitico, impedendo ogni forma di opposizione, censurando gli organi di stampa e avviando un processo di istituzionalizzazione della legge islamica che condusse all’adozione della sharia nel 1991.
La mobilitazione popolare e l’avvio del processo di transizione
L’esercito ha formato un Consiglio militare di transizione, guidato inizialmente dal generale Ahmed Awad Ibn Auf, il primo vicepresidente (da febbraio) e ministro della Difesa del governo di al-Bashir dal 2015, che voleva governare il Paese per due anni prima di far svolgere nuove elezioni (probabilmente il tempo necessario per distruggere le prove e accumulare il denaro per la loro pensione con fondi statali rubati prima di andarsene in esilio). Contestualmente, era stato adottato lo Stato di emergenza, proclamando il coprifuoco e la sospensione della Costituzione per tre mesi.
Ma, i manifestanti hanno deciso di restare in piazza. L’Associazione dei professionisti sudanesi e la coalizione Sudan Call che raggruppava 22 partiti di opposizione, che hanno guidato le proteste, hanno affermato che avrebbero accettato solo il passaggio di potere a un governo di transizione civile in grado di assicurare l’adozione di riforme democratiche e condurre i negoziati di pace con i gruppi ribelli nel sud ed ovest del Paese.
La durata considerevole della transizione e il ruolo preponderante che i militari erano chiamati a esercitare, in assenza di una reale trasformazione dello Stato su basi democratiche, rendeva reale il rischio che l’intervento dell’esercito potesse trasformare la spinta rivoluzionaria in uno strumento di accesso al potere per nuove élites militari di orientamento islamista sostenute anche da potenze regionali e attori esterni (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Egitto, con i quali il Sudan è alleato nella guerra in Yemen, da un lato, e Qatar, Turchia e Iran, dall’altro).
Il ruolo centrale giocato da Auf, figura di spicco del regime di al-Bashir e sotto sanzioni USA per presunte atrocità in Darfur, è sembrato non fornire indicazioni confortanti circa le prospettive di una reale discontinuità politica. Ma, solo poche ore dopo l’insediamento del consiglio militare di transizione, Auf si è dimesso (ed è poi stato arrestato), sostiuito dal generale Abdel Fattah al-Burhan (che ha supervisionato lo sforzo bellico sudanese – circa 10 mila soldati – nella guerra in Yemen10 ) come nuovo capo del Consiglio, mentre anche il capo di stato maggiore Kamal Abdelmarouf al-Mahi è stato sollevato dalla carica di vice capo del Consiglio, così come il generale Salih Ghosh, il potente capo dell’apparato di sicurezza ed intelligence di al-Bashir, che aveva diretto la repressione contro opposizione e manifestanti. Via anche il coprifuoco notturno.
Cambiamenti che sono stati considerati dei passi nella giusta direzione ed un inchino alla volontà delle masse da parte dei leader del movimento di protesta riunito nell’unico “Fronte per la Libertà e il Cambiamento” (FFC), comprendente associazioni dei professionisti e dei lavoratori, partiti politici di sinistra come il Partito Comunista (uscito poi nel novembre 2020), i musulmani progressisti, movimenti armati che combattono l’oppressione etnica, così come gruppi femministi.
Questo anche se nel Consiglio rimaneva come vice-presidente ad interim Mohamed Hamdan Dagolo (conosciuto come “Hemeti”), un ex commerciante d’oro e di cammelli di origini chadiane che in passato aveva comandato le brutali milizie janjāwīd in Darfur e che controlla le Forze di Supporto Rapido (circa 15-20 mila guarde pretoriane di al-Bashir, con molti arabo-chadiani, che combattono anche nello Yemen) e che Arabia Saudita ed Emirati miravano a trasformare nell’al-Sisi sudanese.
Dopo alcune settimane di trattative e una notte di violenze, la giunta militare aveva raggiunto un accordo parziale con l’opposizione FFC per formare un’autorità civile che accompagnasse la transizione fino a nuove libere elezioni. Tre anni di transizione per passare da un’amministrazione militare a una civile, ma l’alleanza di opposizione avrebbe avuto i due terzi dei seggi in un Consiglio legislativo e in una cabina ministeriale, mentre il nodo da sciogliere riguardava la composizione del “Consiglio Sovrano”, ossia l’organo di governo.
Le trattative sono diventate difficili e migliaia di persone hanno aderito ad uno sciopero generale (28-29 maggio) per spingere il Consiglio militare di transizione a cedere il potere ai civili. Negozi, ospedali, banche e uffici pubblici sono rimasti chiusi. Ma, nei giorni successivi le Forze di Supporto Rapido hanno sparato sulla folla nel centro di Khartoum (ma anche in altre città) – causando oltre 120 morti, centinaia di feriti e arresti, decine di stupri e altre violenze brutali – per sgomberare il sit-in pacifico degli attivisti delle forze di opposizione che durava da due mesi. I paramilitari hanno gettato dozzine di cadaveri nel Nilo per cercare di nascondere il numero di vittime inflitte durante un attacco all’alba sui manifestanti pro-democrazia il 3 giugno.
Al-Burhan ha annunciato che la giunta militare aveva interrotto i negoziati e che tutto quello che era stato concordato veniva cancellato, mentre elezioni generali si sarebbero tenute entro 9 mesi. I leader ell’opposizione pro-riforma hanno detto che avrebbero boicottato le elezioni e intensificato la campagna di disobbedienza civile per arrivare ad una vera democrazia nel Paese. “Questo è un punto critico della nostra rivoluzione: il Consiglio militare ha scelto l’escalation e lo scontro”, ha affermato il portavoce dell’Associazione dei professionisti sudanesi, Mohammed Yousef al-Mustafa. “Questi sono criminali che avrebbero dovuto essere trattati come al-Bashir. Ora la situazione è: o loro o noi, non c’è altro modo.” Come hanno dimostrato gli esiti drammatici delle “Primavere Arabe”, le chances del movimento democratico di riuscire a costringere i militari a cedere a leader civili un potere politico significativo dipendeva dalla sua capacità di rimanere unito e di continuare a mobilitare la protesta nelle strade e nelle piazze delle città.
Il Sudan è stato sospeso dall’Unione Africana, con una decisione drammatica tesa ad aumentare significativamente la pressione sul regime militare, dal momento che la sospensione sarebbe durata fino a quando non sarebbe stata istituita un’autorità di transizione guidata da civili in grado di traghettare il Paese fuori dalla crisi.
Il premier etiope Abiy Ahmed ha avviato una mediazione, ma tre dei leader delle FFC che l’avevano incontrato sono stati prontamente arrestati senza spiegazioni e successivamente deportati con la forza in Sud Sudan.
Sul piano internazionale, una risoluzione proposta da Gran Bretagna e Germania in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che condannava l’uso eccessivo della forza da parte dei militari nei confronti dei civili e invitava, al contempo, militari e civili a riprendere le fila del dialogo per assicurare una soluzione consensuale alla crisi, è stata bloccata per il veto della Cina, supportata dalla Russia: mentre Pechino opponeva il rifiuto di intervenire negli affari interni a uno Stato sovrano, Mosca suggeriva cautela ed equilibrio in una situazione ritenuta complicata.
In conseguenza dell’impossibilità di adottare una posizione condivisa in sede ONU, alcuni Paesi europei – Belgio, Francia, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Paesi Bassi, Svezia – hanno emesso una dichiarazione comune di condanna delle violenze, esprimendo preoccupazione per la decisione del governo di porre fine ai negoziati e convocare elezioni unilateralmente.
Probabilmente, non è stata una coincidenza che l’improvvisa e violenta repressione dei manifestanti sia seguita ad una serie di incontri tra i leader della giunta militare sudanese e i regimi arabi autocratici – Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – che stanno attivamente tentando di plasmare il futuro del Paese e cospirano per fomentare una controrivoluzione.
Le principali democrazie del mondo occidentale (USA e UK, l’ex potenza coloniale), invece, hanno mostrato a lungo uno scarso interesse nel sostenere attivamente la rinascita democratica del Paese. Trump è sembrato contento di lasciare che i suoi autocratici alleati sauditi ed emiratini assumessero un ruolo guida. D’altra parte, considerazioni simili hanno influenzato l’atteggiamento degli americani nei confronti del conflitto in Libia, dove Trump ha favorito la scelta delle petromonarchie del Golfo di un leader “forte” come Haftar rispetto al governo di al-Serraj appoggiato dall’ONU.
In queste condizioni, la transizione sudanese verso la democrazia è rimasta del tutto incerta, piena di insidie e con il pericolo concreto che l’esito fosse una nuova dittatura militare o una saldatura tra potere militare (appoggiato da Arabia Saudita e Emirati) e i partiti islamisti (appoggiati da Turchia e Qatar) fautori del mantenimento della sharia. L’ex partito islamico al governo, l’Umma Nazionale, era l’unico partito politico organizzato con risorse significative e sarebbe stato in grado di dominare eventuali nuove elezioni, considerando anche che vi erano diffusi timori che qualsiasi elezione sarebbe stata truccata.
Milioni di persone hanno partecipato ad uno sciopero generale il 9 e 10 giugno indetto dai gruppi pro-democrazia guidati dall’Associazione dei professionisti sudanesi e dal FFC. I centri delle città sono rimasti deserti in tutto il Paese, nonostante l’ondata di arresti e intimidazioni. I negozi sono rimasti chiusi e le strade vuote in tutta Khartoum e nella vicina Omdurman, dove quattro manifestanti sono stati uccisi dai miliziani delle Forze di Supporto Rapido. Allo sciopero hanno aderito i lavoratori di tutte le categorie professionali, dai bancari ai medici, dal personale del controllo del traffico aereo ai piloti, dagli ingegneri elettrici agli insegnanti e molti sono stati presi di mira dai servizi di intelligence nel tentativo di rompere lo sciopero. Migliaia di persone sono tornate in piazza a Khartoum il 30 giugno e almeno 11 persone sono rimaste uccise negli scontri con le forze di sicurezza.
Una prima intesa di massima tra i civili e i militari è arrivata il 4 luglio, dopo sette mesi di lotte, sangue e negoziati turbolenti, grazie alla mediazione dell’Unione Africana e dell’Etiopia. Governo di transizione a guida alternata, poi il voto. Un Consiglio sovrano composto da cinque membri del Consiglio di Transizione Militare e cinque dell’FFC, più un’undicesima figura di garanzia. Per i primi 21 mesi sarebbero stati i generali a dare le carte, esprimendo un loro presidente. Viceversa, il governo di transizione a maggioranza civile sarebbe iniziato solo a quel punto, per condurre il Paese alle elezioni nel corso dei successivi 18 mesi. In tutto facevano tre anni e tre mesi di transizione. Punto chiave dell’accordo aveva riguardato l’inchiesta sugli ultimi massacri: era stato dato il via libera a una commissione d’inchiesta indipendente, sotto l’egida dell’Unione Africana, sul comportamento delle forze di sicurezza a partire dall’11 aprile 2019, data d’insediamento della giunta.
L’accordo ha rischiato di essere messo in discussione allorquando miliziani delle Forze di Supporto Rapido hanno aperto il fuoco durante una manifestazione di studenti delle scuole medie ad Al Obeid, capoluogo del Nord Korfan, uccidendo 4 ragazzi di 14-16 anni che marciavano pacificamente assieme a tanti altri contro il caro-pane e il caro-diesel. L’arresto di 9 paramilitari responsabili per le uccisioni ha finalmente consentito il raggiungimento di un pieno accordo tra i militari e i leader delle forze democratiche su una dichiarazione costituzionale (firmato il 17 agosto, lo stesso giorno in cui è iniziato il processo contro al-Bashir per corruzione e riciclaggio, accusato tra l’altro di aver ricevuto 25 milioni di dollari dal principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed Bin Salman e 65 milioni di dollari dall’ex re saudita Abdullah), nonché sull’inserimento dei miliziani delle Forze di Supporto Rapido sotto il comando delle Forze armate, mentre i servizi di intelligence avrebbero dovuto rendere conto al Consiglio Sovrano.
A questo punto, si trattava di vedere se l’accordo per la transizione politica avrebbe retto nel tempo anche alla luce delle problematiche politiche (pacificare Darfur, Sud Kordofan, Nilo Azzurro) ed economiche che le istituzioni provvisorie avrebbero dovuto affrontare.
Il premierato di Hamdok
Abdalla Hamdok, nominato dal FFC, è stato scelto come primo ministro. Cittadino sudanese e inglese, laureato in economia all’Università di Manchester, con oltre 30 anni di esperienza come analista politico senior ed economista in istituzioni internazionali, tra cui ONU, ILO e FMI. Hamdok ha formato un governo i cui ministri sono stati candidati dalla FFC, ad eccezione dei ministri della Difesa e degli Interni che sono stati scelti dai membri militari del Consiglio Sovrano.
Tra le prime decisioni del governo di transizione ci sono state lo scioglimento dell’ex partito al potere (l’Umma Nazionale) e l’abrogazione di una legge di ordine pubblico utilizzata per regolare il comportamento delle donne ed imporre codici sociali islamici conservatori (limitando la libertà delle donne di vestire, movimento, associazione, lavoro e studio) sotto l’ex presidente al-Bashir. Due misure che rispondevano alle richieste chiave degli attivisti per la democrazia e che rappresentavano un passo importante nel cammino verso la costruzione di uno Stato civile democratico.
Infine, Omar al-Bashir è stato condannato a due anni da trascorrere in un centro di recupero in un primo processo per corruzione e riciclaggio. Poche settimane dopo il consiglio militare ha annunciato che l’ex dittatore sarebbe consegnato alla Corte Penale Internazionale dell’Aia per essere processato per i crimini di guerra, contro l’umanità e genocidio commessi in Darfur. Una decisione presa per venire incontro alle richieste dei movimenti armati del Darfur nell’ambito delle trattative di pace.
Al-Bashir aveva lasciato il Paese in una drammatica crisi economica. Il tasso di inflazione ha raggiunto il 70% rendendo il costo della vita proibitivo. Mentre i prezzi del pane, delle medicine e del trasporto pubblico sono schizzati verso l’alto, il carburante e i contanti sono venuti a mancare. Per alleviare l’impatto dell’inflazione il governo di transizione ha raddoppiato gli stipendi del settore pubblico, aumentato il salario minimo a mille sterline sudanesi (22 dollari), un aumento da 425 sterline, e rimosso gradualmente i sussidi per il carburante, mentre sussidi per grano e gas da cucina sono stati mantenuti. Inoltre, ha aperto un negoziato con gli Stati Uniti per la rimozione del Sudan dall’elenco di Paesi considerati sponsor del terrorismo, che lo rendeva tecnicamente non ammissibile ai programmi per la riduzione del debito e i finanziamenti da parte del FMI e della Banca Mondiale.
L’economia sudanese vacillava dal 2011 quando, in seguito alla scissione di quello che all’epoca era il più esteso Stato africano, la maggior parte delle riserve petrolifere sono diventate proprietà del neonato Sud Sudan (anche se in Sudan passa l’oleodotto diretto al porto per l’esportazione e, quindi, incassa una royalty). Con la perdita delle entrate petrolifere, il governo ha monetizzato il deficit, per cui l’inflazione è aumentata a spirale e le riserve sono diminuite, mentre la banca centrale ha mantenuto un tasso di cambio sopravvalutato. Quando la banca centrale ha svalutato la sterlina sudanese di circa il 40%, ha innescato un’impennata dell’inflazione (arrivata al 60%) che è diventato un fattore importante nelle proteste che hanno abbattuto al-Bashir dopo tre decenni al potere. Nell’ottobre 2017, la tanto attesa eliminazione – seppure parziale – delle sanzioni economiche introdotte nel 1997 e nel 2006 non ha dato i frutti sperati. Il Sudan e i sudanesi sono rimasti isolati dal punto di vista economico – ad esempio, è era impossibile fare transazioni in valuta estera – ed il Paese rimaneva nella lista USA degli Stati sponsor del terrorismo (designazione che risaliva al 1993, quando aveva accolto Osama bin Laden). Hamdok ha richiesto al FMI 8 miliardi di dollari in prestiti e chiesto agli USA di togliere il Sudan dalla lista nera dei Paesi terroristi.
Per restare a galla il regime di al-Bashir aveva venduto vaste distese di terreni coltivabili a società saudite e qatariote. Fin dagli anni ’70, Qatar, Arabia Saudita e EAU hanno considerato il Sudan come una sorta di granaio e di riserva di carne (acquistando milioni di pecore, mucche, cammelli e dromedari) dal quale attingere per colmare il proprio fabbisogno alimentare e quindi hanno investito nel settore agricolo sudanese. Nel 2009, un’azienda del Qatar ha comprato per un miliardo di dollari 20 mila ettari di terre coltivabili nel fertile bacino del Nilo, da cui proviene gran parte della produzione agricola del Sudan che però viene destinata all’export. Altri 500 milioni di dollari di investimenti qatarioti nel settore agricolo e alimentare sudanese sono stati fatti nel 2018. Inoltre, nel marzo 2018, Qatar e Sudan avevano firmato un accordo dal valore di 4 miliardi di dollari per la gestione congiunta del porto sudanese di Suakin, sul Mar Rosso, mentre l’ambasciatore saudita a Khartoum aveva dichiarato nell’ottobre 2018 che Riyadh stava investendo in Sudan più di 12 miliardi di dollari.
Alle dichiarazioni di entrambi i Paesi del Golfo però non sembra aver fatto seguito alcun pacchetto economico di aiuti. Nella nuova fase di incertezza, mentre il Qatar non ha preso posizione, Arabia Saudita ed Emirati avevano guardato alla nuova leadership militare sudanese come un interlocutore a cui offrire sostegno, tramite aiuti economici (sono stati offerti 3 miliardi di dollari di aiuti per stabilizzare la crisi valutaria), nella gestione della fase post-rivoluzionaria, in cambio di continuità nell’appartenenza al campo saudita-emiratino (tanto nella guerra in Yemen quanto nel contenimento dell’Iran), e nell’arginare la possibile affermazione della Fratellanza Musulmana. Il caso egiziano ha mostrato che nell’ascesa al potere del generale al-Sisi e nella cementificazione della sua leadership gli ingenti aiuti economici provenienti dall’Arabia Saudita sono stati cruciali. In tutta la regione, Arabia Saudita ed Emirati hanno guidato l’asse “contro-rivoluzionario” post-“primavere arabe” allo scopo di scongiurare l’ascesa al potere nella regione di movimenti vicini alla Fratellanza Musulmana.
Il Sovrano Consiglio ha cercato di riaprire i giochi, ribaltando la politica estera dell’era al-Bashir e potenzialmente di stabilire nuove relazioni positive con il resto del mondo. Ha deciso di cooperare con la Corte Penale Internazionale nel perseguire al-Bashir e quattro dei suoi luogotenenti.
Al-Burhan si è incontrato segretamente con Netanyahu in Uganda, un primo tentativo di normalizzare le relazioni tra Sudan e Israele. Aperture di dialogo sono state fatte con l’ONU, con una richiesta di espandere le sue operazioni. La questione fondamentale per il nuovo regime era quella di riuscire a far rimuovere il Sudan dall’elenco degli Stati Uniti degli Stati che sponsorizzano il terrorismo. Una rimozione che avrebbe aperto la strada alla fine delle sanzioni e alla riduzione del debito.
La proposta del segretario di Stato USA, Mike Pompeo, per la rimozione è stata la richiesta di un risarcimento di 335 milioni di dollari alle vittime americane di al-Qaeda e ha causato rabbia nel Paese. Tribunali americani hanno giudicato il Sudan colpevole di aver fornito supporto essenziale ad al-Qaeda quando Bin Laden era residente nel Paese tra il 1991 e il 1996 e in relazione al suo presunto ruolo nel bombardamento di due ambasciate statunitensi in Tanzania e Kenya da parte di al-Qaeda nel 1998 (224 morti e oltre 4 mila feriti).
Nell’ottobre 2020 il Sudan ha accettato di pagare i 335 milioni. Pochi giorni dopo, sotto la pressione e con la mediazione degli USA, il Sudan (terzo Paese del mondo arabo dopo EAU e Baharain) ha accettato di lavorare per la normalizzazione delle relazioni con Israele. Nel 1948 e nel 1967, il Sudan aveva inviato forze militari a combattere nelle guerre contro Israele, mentre negli anni ’70 Israele aveva appoggiato gli insorti sudanesi che combattevano contro il governo di Khartoum.
La transizione politica interna rimaneva comunque assai fragile. Il primo ministro Hamdok è sopravvissuto a un tentativo di omicidio (9 marzo 2020) che nessuno ha rivendicato. L’esplosione è avvenuta meno di due mesi dopo che una rivolta armata all’interno delle forze di sicurezza aveva portato alla chiusura dell’aeroporto della capitale e causato almeno due morti.
Il governo Hamdok è riuscito comunque a siglare il 31 agosto un accordo di pace con una parte significativa dei rappresentanti dei gruppi armati attivi in Darfur (appartenenti prevalentemente ad etnie Zaghawa, Fur e Masalit), Sud Kordofan e Nilo Azzurro (appartenenti prevalentemente ad etnie Nuba e Dinka) – il Sudanese Revolutionary Front (SRF), coalizione di gruppi ribelli nelle due aree meridionali e in Darfur, e la fazione del Sudan Liberation Movement guidata da Arko Minni Minnawi (SLM-MM) – una svolta storica per il Sudan che potrebbe assicurare la stabilità politica necessaria a garantire un futuro di prosperità al Paese.
Nell’ambito dell’accordo sono stati firmati otto protocolli per regolare aspetti cruciali delle relazioni tra lo Stato centrale e i territori periferici legati, in particolare, ai criteri di power sharing, alla professionalizzazione dell’esercito e alla riforma della governance istituzionale, nel quadro di un rinnovato sistema di governo federale. L’accordo attribuisce ampia autonomia ai governi di Nilo Azzurro e Sud Kordofan, prevede l’istituzione di una Commissione nazionale per la libertà religiosa che garantisca la tutela dei diritti delle comunità cristiane nel sud del Paese, e disciplina l’integrazione dei combattenti del Sudan People’s Liberation Movement nei ranghi dell’esercito sudanese entro un periodo di 39 mesi.
Secondo quanto stabilito, il 40% della ricchezza prodotta in Sud Kordofan e Nilo Azzurro resterà alle due aree per un periodo di 10 anni. Ai rappresentanti dei gruppi firmatari sono stati attribuiti tre seggi nel Consiglio Sovrano e cinque ministeri governativi, oltre a una rappresentanza nel Consiglio legislativo di transizione pari al 25% dei seggi (75 su 300). Al governo spettava l’adozione delle misure legali necessarie a dare implementazione alle disposizioni, in termini di riorganizzazione degli assetti regionali e di redistribuzione delle competenze politico-amministrative tra i diversi livelli di governo.
Intanto, però, durante la pandemia da coronavirus e una stagione dei monsoni particolarmente violenta (con alluvioni che hanno causato oltre 120 morti), i prezzi di alcuni alimenti di base sono aumentati del 50%, portando l’inflazione al livello record del 167%. Milioni di persone hanno dovuto affrontare enormi difficoltà per gli aumenti vertiginosi dei costi di cibo e trasporti. Il governo ha aumentato il salario minimo e dichiarato lo stato di emergenza economica ad inizio settembre dopo una forte svalutazione della sterlina sudanese (da 140 a 234 contro il dollaro). Il governo stava aspettando il pacchetto finanziario promesso dai donatori di 400 milioni di dollari amministrato dalla Banca Mondiale.
Finalmente, dal 15 dicembre il Sudan è stato ufficialmente tolto dalla lista americana dei Paesi sponsor del terrorismo, realizzando la promessa che l’amministrazione USA aveva fatto in occasione del riconoscimento da parte del Paese africano dello Stato di Israele il 23 ottobre. Il Sudan era stato inserito nella lista nel 1993 e nel 1997 era divenuto oggetto di sanzioni. Il Sudan, la cui economia era strangolata da sanzioni e isolamento internazionale, ha ottenuto in cambio aiuti alimentari, i fondi necessari a sostenere l’economia in crisi (gli USA hanno fatto un prestito ponte da 1,2 miliardi di dollari) e finanziamenti ai progetti di sviluppo. Il Paese africano che aveva teorizzato “i tre no” allo Stato di Israele (no alla pace, no al riconoscimento, no ai negoziati) durante il vertice della Lega Araba a Khartoum nel 1967, ha barattato la normalizzazione con la possibilità di uscire dalla black list che gli impediva qualsiasi accordo con organizzazioni internazionali e quindi di accedere ai programmi di sostegno alla riduzione del debito e a nuovi finanziamenti esteri.
Il 14 febbraio 2021, sette Stati della federazione sudanese – comprendenti alcune tra le regioni più povere del Paese – hanno proclamato lo stato d’emergenza dopo una serie di proteste, a tratti violente, contro l’inflazione, la scarsità di beni di prima necessità e il deterioramento delle condizioni di vita. Il coprifuoco è stato imposto e le scuole sono state costrette a chiudere in 10 città in Darfur, NordKordofan, West Kordofan e Sennar. Gli edifici sono stati saccheggiati e bruciati e il cibo è stato rubato da supermercati e negozi. A gennaio l’inflazione, trainata dai rincari dei prodotti alimentari, ha superato il 300% e la valuta sudanese ha perso valore rispetto al dollaro sul mercato nero. Le autorità hanno arrestato alcuni collaboratori dell’ex dittatore Omar al-Bashir accusandoli di aver incitato le proteste. Il 21 febbraio, la banca centrale ha svalutato drasticamente la valuta sudanese – fissando il tasso indicativo ufficiale a 375 sterline sudanesi per dollaro, mentre prima era di 55 -, annunciando un nuovo regime di gestione flessibile per “unificare” i tassi di cambio ufficiali e quelli del mercato nero nel tentativo accedere ada una parziale cancellazione del debito. Una mossa richiesta dai principali donatori stranieri e dal FMI, che era stata ritardata per mesi per la carenza di beni di base e l’inflazione galoppante che avrebbero reso complicata la fragile transizione politica.
A primi di aprile sono iniziati nuovamente gli scontri armati nello Stato del Darfur Occidentale11. Il Consiglio di sicurezza e difesa del Sudan ha dichiarato lo stato di emergenza nello Stato dopo che sono state uccise 40 persone e altre 60 sono state ferite. L’Onu ha sospeso l’invio di aiuti umanitari, con conseguenze drammatiche: la città di El-Geneina, capitale dello Stato, le cui vie di accesso sono bloccate, è lo snodo per la distribuzione alimentare di tutta l’area. Un’area che interessa circa 700 mila persone. Il governo sudanese, da parte sua, ha dato incarico alle forze regolari di adottare tutte le misure necessarie per porre fine ai conflitti. La miccia si è accesa a gennaio, con gli scontri tra le tribù Masalit (prevalentemente contadini) e Al-Arab (prevalentemente pastori nomadi) per questioni legate al controllo della terra che hanno causato la morte di due persone. Si è così innescata una faida intertribale in cui 163 persone sono morte e 217 sono state ferite.
Soprattutto, nei mesi successivi sono aumentati i conflitti tra militari e forze politiche civili (ma anche le divisioni e contrapposizioni all’interno di queste ultime). L’attuale crisi, con il golpe militare, è stata provocata principalmente dall’architettura profondamente viziata delle istituzioni di transizione, nonché dagli orientamenti dei suoi principali protagonisti, tutti posseduti da insicurezze che si autoalimentavano. I radicali del FFC, la coalizione che ha giocato un ruolo cruciale nella destituzione di al-Bashir nel 2019, hanno dato la priorità all’intensa polarizzazione politica rispetto alla costruzione del consenso, una posizione che ha portato contemporaneamente a una maggiore dipendenza dai militari e dalle milizie e alla frammentazione all’interno della coalizione di governo. Dall’altra parte, l’esercito era insicuro perché i suoi partner lo minacciavano a intermittenza di persecuzione per le atrocità passate e spesso gli chiedevano di reprimere i loro oppositori politici.
Il futuro è ora tutto da disegnare e dipenderà molto, oltre che dalla capacità di mobilitazione politica delle forze di opposizione, da quanto la comunità internazionale non lascerà mani libere alle grandi e medie potenze regionali, e sarà invece coesa nel guardare al destino sia degli oppositori, attualmente agli arresti e perseguitati, sia dei 44 milioni di abitanti ancora soggiogati dalla fame e dallo stato di guerra permanente.
Alessandro Scassellati
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L’esercito sudanese ha arrestato 21 ufficiali e un certo numero di soldati del corpo corazzato in relazione a un tentativo di colpo di Stato. In un discorso alle truppe, il potente comandante paramilitare Mohamed Hamdan Daglo, noto come Hemeti, aveva dichiarato: “Non permetteremo che si verifichi un colpo di Stato. Vogliamo una vera transizione democratica attraverso elezioni libere ed eque, non come in passato”. Il primo ministro, Abdalla Hamdok, aveva affermato che i golpisti avevano coinvolto personale militare e civili. Le autorità avevano affermato che il fallito golpe era stato tentato “dai resti” del regime di al-Bashir, un’alleanza disparata tra gli islamisti più conservatori che vogliono un governo militare, i signori della guerra, militari, capi di milizia ed ex lealisti di al-Bashir. Lo stesso al-Bashir è detenuto nella prigione di massima sicurezza Kober di Khartoum e sta affrontando un processo per il colpo di stato che lo ha portato al potere nel 1989. È anche ricercato dal tribunale penale internazionale con l’accusa di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio per aver perseguito una campagna mortale da terra bruciata contro i ribelli della minoranza etnica nel Darfur. L’11 agosto “il Consiglio dei ministri ha deciso di consegnare i ricercati alla Corte penale internazionale“, aveva detto il ministro degli Esteri sudanese Mariam al-Mahdi, figura di spicco del Partito Umma e figlia di Sadiq al-Mahdi, l’ultimo leader eletto democraticamente ed estromesso da al-Bashir nel 1989, durante un incontro con il nuovo procuratore generale della tribunale istituito a L’Aia, Karim Khan, in visita a Khartoum.[↩]
- Il colpo di Stato è un grande smacco per gli Stati Uniti, che del processo di transizione erano i maggiori protagonisti e che hanno tentato di far tornare il Paese – già durante l’amministrazione Trump – nella propria sfera di influenza a suon di dollari: 377 milioni di aiuti umanitari per il 2021. Dopo avere cancellato il Sudan, a fine anno scorso, dalla “lista nera” dei Paesi che “sostengono il terrorismo”, gli USA gli avevano fatto firmare gli “Accordi di Abramo” per arrivare alla normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele; di fatto, in cambio del finanziamento di un miliardo di dollari da parte della Banca Mondiale, facendone così – insieme al Marocco – l’unico Stato “arabo-musulmano” africano ad avere sottoscritto l’accordo. L’ultimo atto in questo senso è stata l’acquisizione da parte del governo sudanese di almeno una dozzina di società a fine settembre che secondo i funzionari erano collegate al movimento militante palestinese Hamas.[↩]
- La Russia aveva raggiunto un accordo per avere una base navale a Port Sudan, nel Mar Rosso, con l’intenzione di farne un importante hub, ma il parlamento sudanese non ha mai approvato l’accordo. La Cina aveva notevolmente implementato la collaborazione economica con Khartoum (agro-alimentare,infrastrutture, minerali), ottenendo di fatto il suo appoggio su una serie di dossier internazionali che premevano a Pechino. Ma, Xinmin, ambasciatore cinese nel Paese, in un articolo pubblicato sul Global Times il 16 settembre aveva fatto il quadro di questa fruttuosa cooperazione – rafforzata dall’aiuto sanitario di Pechino riguardo all’affrontare l’emergenza Covid-19 – e ricorda la configurazione dei rapporti inaugurata con le “Otto Principali Iniziative” del Summit FOCAC (il Forum della Cooperazione sino-africana) del 2018 e le opportunità del Secondo CAETE, l’expo economico e commerciale sino-africano che si terrà a breve. La Cina è stata uno dei partner più importanti di al-Bashir e quando il Sudan ha accumulato 10 miliardi di dollari di debito, Pechino nel 2018 l’ha cancellato.[↩]
- Secondo informazioni non ufficiali l’esercito sudanese parteciperebbe alle operazioni per l’estrazione dell’oro, alla produzione di caucciù e all’esportazione di carne, farina e sesamo. Le aziende militari non pagano imposte e possono contare su agevolazioni negate al settore privato, e questo crea una forma di concorrenza sleale. Il capo dell’esercito, il generale Abdel Fattah al Burhan, autore del colpo di stato del 25 ottobre, si era opposto all’idea di costringere l’esercito ad abbandonare i propri investimenti, ma aveva accettato la possibilità che i militari pagassero alcune imposte. Oggi Al Burhan è il capo assoluto del paese, dunque la minaccia per gli interessi dell’esercito è svanita.[↩]
- Il Fronte per la Libertà e il Cambiamento è una coalizione di partiti politici e associazioni, che è stata fondata il 1° gennaio 2019, all’inizio della rivolta popolare che qualche mese dopo ha rovesciato il regime del presidente Omar al-Bashir.[↩]
- All’inizio di quest’anno, il leader della milizia, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, o “Hemeti“, si è opposto alle proposte di integrare nell’esercito le famigerate forze paramilitari di Supporto Rapido – che i gruppi per i diritti umani hanno accusato di atrocità nel Darfur. Si stima che le Rapid Support Forces stiano controllando indirettamente l’80% dell’economia del mercato nero. La Reuters ha scoperto nel 2019 che “Hemeti” si era arricchito con il commercio dell’oro.[↩]
- La liquidazione degli arretrati del Sudan alla Banca era stata facilitata da un prestito ponte di 1,15 miliardi di dollari dagli Stati Uniti, che la Banca Mondiale ha rimborsato.[↩]
- L’Etiopia ha costruito tra l’aprile 2011 e il luglio 2020 anche la mega diga idroelettrica “Grande Rinascimento” sul Nilo Azzurro vicino al confine Etiopia-Sudan (un’opera da 5 miliardi di dollari), ma l’Egitto, come il Sudan, ha a lungo considerato la diga una minaccia incombente per la sua stessa sopravvivenza (il Nilo fornisce il 90% della sua acqua dolce). L’Etiopia ritiene quest’opera essenziale per il suo sviluppo (produrrà 6 mila megawatt, in un Paese in cui il 65% della popolazione non è ancora connesso alla rete elettrica) e ha continuato il progetto indipendentemente dalle conseguenze. L’Egitto ha accusato l’Etiopia di respingere le sue preoccupazioni circa la minaccia alla sua sicurezza idrica, mentre l’Etiopia ha insistito sul fatto che tutte le problematiche sarebbero state risolte prima del completamento della diga. La questione ha riguardato essenzialmente il tempo di riempimento della diga da 74 miliardi di metri cubi (6 o 10 anni) e il suo impatto sulla portata dell’acqua a valle, soprattutto durante i periodi di siccità. Etiopia ed Egitto sono due dei Paesi più popolosi e potenti dell’Africa; qualsiasi resa dei conti tra loro può rappresentare una grave minaccia per la pace. Con la mediazione americana e della Banca Mondiale, prima, e successivamente dell’Unione Africana, si è cercato di raggiungere un accordo tra le parti. Intanto, il conflitto tra Egitto ed Etiopia è stato avviato nel cyberspazio con post sui social media e attacchi a decine di siti Internet del governo etiope da parte di hackers egiziani. Entrambi i governi utilizzano la questione della diga per fomentare il nazionalismo interno, rendendo più difficile il raggiungimento di un compromesso tra le parti. Le migliaia di rifugiati, richiedenti asilo e migranti etiopi che vivono in Egitto hanno cominciato a subire maggiori pressioni e molestie da parte dei cittadini e delle autorità egiziane da quando le tensioni sulla diga hanno iniziato a surriscaldarsi. Questo, mentre in Etiopia, ha significato che qualsiasi critica alla diga da un punto di vista ambientalista – che potrebbe distruggere gli ecosistemi e la biodiversità, anche all’interno dell’Etiopia – viene accolta con derisione.[↩]
- E’ bene ricordare che in Puglia, migliaia di lavoratori africani – principalmente del Sudan, Gambia, Nigeria e Somalia -, ammassati nella baraccopoli di Borgo Mezzanone in provincia di Foggia (realizzata su una ex pista dell’aeronatica militare italiana accanto ad un centro per richiedenti asilo del quale l’ex ministro degli Interni Salvini aveva decretato lo sgombero), lavorano per 10 euro al giorno (ciò che resta pagando cibo e trasporto ai caporali) alla coltura degli asparagi e dei pomodori “di massa” “migliorati” dai genetisti.[↩]
- Nella guerra in Yemen, gli Emirati hanno potuto contare su tre tipi di forze militari: le truppe emiratine (almeno 1.500 soldati delle Forze Speciali), le truppe mercenarie yemenite (circa 35 mila unità reclutate attraverso gli sceicchi tribali) sotto il comando delle forze emiratine, e alcune decine di migliaia di soldati e mercenari provenienti da diversi Paesi (Australia, Sud Africa, El Salvador, Cile, Panama, Colombia, Sudan, Somalia, Senegal, Uganda, Chad, Kenya, Eritrea, Filippine, Bangladesh, Afghanistan, Cecenia e Pakistan) che gli Emirati hanno ingaggiato per combattere (circa 14 mila solo i sudanesi, molti dei quali “bambini-soldato”). Dei tre corridoi marittimi del Medio Oriente – il Canale di Suez, lo stretto di Hormuz e quello di Bab al-Mandeb (tra Mar Rosso e Oceano Indiano) – gli egiziani (sostenuti dagli emiratini e dai sauditi) e gli iraniani ne controllano uno ciascuno. Gli Emirati, insieme all’Arabia Saudita, vogliono controllare il terzo.[↩]
- Già tra il 15 e il 17 gennaio, centinaia di persone hanno perso la vitae e gli sfollati sono stati più di 150 mila, dopo che le milizie arabe hanno attaccato il campo di Geneina noto come Krinding e abitato per lo più da persone della comunità Masalit. All’inizio di aprile nuovi scontri e attacchi ai campi della città hanno provocato almeno altre cento vittime e hanno fatto fuggire migliaia di persone, alcune delle quali si sono rifugiate nel vicino Chad. Nonostante le nuove libertà di cui si poteva godere, le stesse milizie – come le Forze di Sostegno Rapido che terrorizzavano il Darfur ai tempi di al-Bashir hanno continuato a muoversi liberamente, solo che ora non ci sono più le forze di pace della missione ONU Unamid a contenerle. Sentendosi rafforzati dalla transizione, i leader Masalit in città hanno intensificato gli appelli per ottenere risarcimenti, giustizia e la restituzione di ampie porzioni di terra che gli erano state sottratte dalle milizie durante i conflitti del passato. Le comunità arabe, alcune delle quali occupano quei terreni, si sono di conseguenza sentite minacciate.[↩]