editoriali

Il calendario della nazione

di Stefano
Galieni

Sarà pure la ripetizione di una tragedia in farsa di marxiana memoria, ma quanto sta avvenendo in questi mesi in Italia, tanto nella sfera del simbolico, quanto e soprattutto negli atti concreti, assume sempre più la forma di una ridefinizione del presente ad uso e consumo di un nuovo pensiero collettivo dominante. Ci riferiamo ad un epifenomeno, quello dell’utilizzo di un “calendario riformato”, cui sottace un’idea del Paese – o meglio della “nazione” come ama dire la Presidente Giorgia Meloni – che prova a saltare a piè pari quasi ottanta anni di storia repubblicana. Le modalità sono di duplice impostazione: da una parte si istituiscono o si reintroducono, giornate – di festa o di ricordo – dal sapore acido di “ventennio 2.0”, dall’altra si prendono date fondamentali del calendario laico e le si rovescia, attraverso iniziative apertamente provocatorie, per dar loro altro senso, persino introducendo in tali giorni norme legislative che ne negano il valore fondativo. A dire il vero il lavoro è iniziato svariati anni fa ma mai, in poco tempo, aveva assunto forma così organica.
Qualche esempio.
Nel marzo 2004 è stata istituita la “giornata del ricordo”, in memoria degli eccidi compiuti durante la seconda guerra mondiale, lungo il confine “giuliano dalmata”. Una storia complessa, che la storiografia di spessore cerca di ricostruire senza negazionismi ma senza neanche indulgere in una equazione bipolare: italiani = vittime, partigiani di Tito = carnefici. La data è divenuta comunque un caposaldo di vulgata anticomunista di cui si è fregiata non solo la destra. Quasi un tentativo osceno di proporre il riequilibrio con la “giornata della memoria” per i genocidi commessi dai nazifascisti.
Nel maggio 2007 si è poi, giustamente deciso di dedicare una giornata “alle vittime del terrorismo e delle stragi”. La storia tragica di questo Paese poteva scegliere fra tante date ma ha prevalso la volontà di ricordare un evento tragico e criminale, come l’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro (9 maggio 1978), di un uomo delle istituzioni quindi, piuttosto che fissare nella memoria una delle tante stragi in cui hanno perso la vita persone comuni, capitate nel luogo sbagliato nel momento sbagliato, uccise da manovalanza fascista rimasta quasi sempre impunita, con la convivenza di apparati dello Stato, di massoneria deviata e di servizi NATO. Ma anche attraverso queste scelte si operano rimozioni.
Nell’aprile del 2022 si pensava di aver toccato il fondo con l’istituzione della “Giornata nazionale dell’alpino”. Nulla da dire se non fosse che con voto unanime del Senato si è scelto di farla celebrare il 26 gennaio, non solo alla vigilia della giornata della memoria, ma per ricordare la battaglia di Nikolajewka, combattuta nella guerra di aggressione fascista all’allora URSS.

Il governo Meloni si è trovato la strada già tracciata e ha cominciato a percorrerla fino in fondo. Si determina, per il mancato soccorso delle forze militari preposte, la strage di Steccato di Cutro (94 vittime finora recuperate), in un naufragio di persone, soprattutto minori, che cercavano asilo nella ricca Europa? Ecco che l’occasione diviene buona per andare nel paesino calabrese, tenere il Consiglio dei ministri ed elaborare un piano tanto enorme quanto criminale e lesivo dei diritti umani, per dimostrare che si vuole e si può fermare una inesistente invasione. Il “decreto Cutro” approvato in poco tempo e col voto di fiducia, istituzionalizza una strage e di fatto la impone come elemento simbolico e concreto nel nuovo calendario. Una mossa utile a dimenticare il 3 ottobre (in ricordo del naufragio a largo di Lampedusa nel 2013) dedicata alle vittime del mare. Anche lì vale la pena di rimarcare. Non del mare, quelle e tante altre sono state vittime, ma delle leggi infami che impediscono alle persone di navigare sicure e di attraccare nei porti.
Ma prima ancora, a governo appena insediato, è stata presentata la proposta, apparentemente neutrale, dell’istituzione della “giornata dei figli d’Italia”. La proposta di legge è scaturita dal senatore di Forza Italia Andrea Di Priamo che l’ha motivata dicendo: “Si tratta della giornata dei figli che può essere celebrata al pari della festa della mamma e del papà, anche a scuola. Penso ad un premio annuale per riconoscere i dieci figli che si sono distinti per meriti culturali, sociali e creativi. Perché ‘figli d’Italia? Perché riteniamo che l’identità nazionale non possa prescindere da una politica che promuova la natalità e che dia attenzione alla famiglia e ai figli”.
In un Paese che demarca sempre più la vita fra chi gode dei diritti di cittadinanza e chi ne è escluso grazie ad una legge (91/1992) dal carattere altamente discriminatorio, far sì che il 15 giugno (questa la data scelta) si celebri un’italianità artificiale e razzializzante che rimanda ai fasti del ventennio, rappresenta un altro colpo al tentativo di adeguare le norme vigenti alla reale composizione sociale del Paese.
Il tasto dell’incremento della natalità (cosa importa se poi chi vuole avere figli non ha alcun sostegno concreto e duraturo dallo Stato né può difendere il diritto al lavoro), è una delle due leve della tenaglia con cui alimentare il peggior tradizionalismo reazionario. L’altra, quella sollevata da numerosi esponenti della maggioranza che trovano blanda opposizione fra i banchi è la minaccia del pericolo della “sostituzione etnica” e di un declino italico. C’è da attendersi, dalle dichiarazioni di alcuni esponenti dei partiti di governo, la giornata del “cibo italiano”, il sano pane prodotto con grano autoctono, ma venduto a prezzi legati alla carenza di grano ucraino, la giornata della “lingua italiana” (dichiarano di voler bandire l’utilizzo di vocaboli stranieri nella pubblica amministrazione), mentre già si propone che lingua e “inno di Mameli” entrino nella Costituzione.

Lo stravolgimento del calendario è contiguo a quello concettuale, mentre si richiama alla purezza della lingua di Dante (già evocato come prototipo dell’intellettuale di destra), il governo si rifiuta di togliere il termine “razza” (italianissimo), dai documenti della PA. E questo avviene con metodica scientificità nella rozzezza delle modalità protofasciste. Date e fatti debbono essere invertiti simbolicamente ma anche semanticamente.

Due parole le merita il povero “ghibellin fuggiasco” che difficilmente prevedeva i Salvini e i La Russa quando scriveva “fatti non foste per viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza”.
La battuta era facile, il resto un po’ meno. Si utilizza il 25 aprile per rivangare gli “eccessi dei partigiani”, la “pacificazione” a cui prima alludeva Luciano Violante e su cui oggi torna, più coerentemente Franco Cardini, e si scardina il senso del primo maggio, già ridotto, in gran parte del Paese a simulacro da concertone, in cui accapigliarsi sulle frasi di cantanti e conduttori, convocando per lo stesso giorno un Consiglio dei ministri per dare un altro colpo ferale a chi di lavoro vive o chi il lavoro non lo trova.

Il “sacro” e remunerativo furore bellicista porta a rinvigorire il valore del 4 novembre come “giornata delle Forze Armate (in ricordo della fine della prima guerra mondiale), al punto che l’ineffabile senatore Maurizio Gasparri (Alighieri pensava anche a lui?), chiede che venga reintrodotta come festa nazionale. Ciò è coerente con la metodicità con cui, in ogni parte del Paese questo governo organizza parate, esposizioni di strumenti militari, esercitazioni, incontri pubblici con i vertici delle forze armate, persino momenti di alternanza scuola lavoro in accordo con l’esercito, mostra la velleità di ridefinire sull’orgoglio delle divise e degli armamenti la nuova forma che dovrebbe avere l’identità nazionale. E c’è da aspettarsi altro.
Non è casuale che, mentre si frantuma la coesione sociale con l’autonomia regionale differenziata, fatta propria anche da settori del centro sinistra, la Presidente del Consiglio preme perché entro giugno si raggiunga un punto di intesa sul presidenzialismo. La ricerca di accentrare una parte consistente dei poteri esecutivi nelle mani di una persona, nel mese in cui si ricorda il passaggio di origine resistenziale dalla monarchia alla repubblica, rappresenta un altro punto di congiunzione con una nostalgia che si ammanta di efficientismo del futuro ma ha l’odore nauseabondo del passato più buio.

Difficile credere alle coincidenze.
Occhio al calendario quindi, possiamo aspettarci di tutto. Il 25 luglio o l’8 settembre come “giornata della vergogna?”, il 28 aprile come giornata di lutto nazionale? Probabilmente, per giungere a questo passeranno anni, per ora l’importante è dequalificare le giornate che rimandano ai valori fondanti della Costituzione antifascista e torcerne il senso anche con provvedimenti legislativi che le rendano più facilmente memorabili per ragioni antitetiche, come appunto già avvenuto col primo maggio. Intanto anche il Presidente della Repubblica si accoda al nuovo cerimoniale. Tornando al 9 maggio, al giorno della memoria delle vittime del terrorismo, possibile che a Sergio Mattarella venga in mente di ricordare unicamente i tragici morti del rogo di Primavalle e l’uccisione di un esponente del Fronte della Gioventù, (organizzazione giovanile del MSI)? Neanche la capacità di nominare le stragi impunite o le vittime dello squadrismo dal 1945 ad oggi. Intanto però sono in netta crescita le manifestazioni neofasciste quando non neonaziste, per commemorare caduti del regime o dei protagonisti dello stragismo, iniziative che richiamano ad esponenti del ventennio con tanto di saluti romani, croci celtiche e armamentario reducista. Solo folklore? Forse ma il patrocinio offerto dai Comuni, l’accondiscendenza dei prefetti, spesso con scarsa o nulla opposizione delle forze politiche di centro sinistra, fanno pensare ad un lasciapassare che arriva dall’alto. Del resto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha recentemente affermato che “sciogliere le organizzazioni neofasciste è un problema complesso”, come a dire “io questa responsabilità non intendo assumermela”. A poco serve che un tribunale consideri, finalmente, il “saluto romano”, un reato anche se in memoria dei morti, quando lo sdoganamento ha ricevuto basi condivise. E ancor più ipocrite risultano le voci apparentemente democratiche che chiedono di eliminare dalla visibilità tutte le ideologie totalitariste. Forse quella maledetta risoluzione del Parlamento Europeo del 19 settembre 2019, che equiparava nei fatti e in maniera assolutamente priva di adeguata contestualizzazione storica, nazifascismo e comunismo, sta riuscendo a produrre in Italia i suoi frutti avvelenati.

E mentre si cerca di realizzare tempi migliori, in cui ridare senso alla storia non confinandola in quella del potere dominante ma ristabilendo la speranza che il periodo di democrazia vissuto non risulti una parentesi fra due regimi, vale la pena anche controbattere. Che ne pensa la signora Meloni di celebrare il 19 febbraio (nel 1937, fu il momento più crudele dell’eccidio di Addis Abeba), in cui morirono quasi 20 mila civili, la giornata delle vittime del colonialismo italiano? Non sono stati in grado di pensarci democristiani, socialisti, comunisti, liberali, tecnici e maggioranze di ogni tipo, ci provi lei che dice di guardare al futuro e non al passato.

Stefano Galieni

democrazia, Destra, governo Meloni
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