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Il 17 novembre degli Studenti

di Arianna
Petrosino

di Arianna Petrosino* –

17 novembre 1939, Praga, le truppe naziste sedano nel sangue una mobilitazione studentesca.
17 novembre 1973, Atene, i carriarmati dei Colonnelli sfondano i cancelli del Politecnico dove da giorni gli studenti erano in rivolta contro la dittatura.

Assunto nel 1941 per la prima volta dal Consiglio internazionale degli studenti come giornata internazionale dello studente, solo dopo più di 60 anni, nel 2004, grazie alla spinta delle organizzazioni studentesche presenti al Mumbai World Social Forum il 17 novembre verrà lanciato come giornata mondiale di commemorazione e mobilitazione.

La storia del 17 novembre come Giornata internazionale degli Studenti è una storia di lotta, in cui si intrecciano la memoria, le battaglie quotidiane, la necessità per il movimento studentesco di guardare al di là dei confini nazionali, di incontrarsi, di rispondere collettivamente ad un attacco generale al mondo della conoscenza e della formazione.

Ad oggi, per quanto i legami tra i movimenti studenteschi dei diversi paesi appaiano senza ombra di dubbio indeboliti, è ancora possibile rintracciare il filo rosso che, a livello transnazionale, connette le mobilitazioni che attraversano il globo. Le parole d’ordine, dall’America Latina agli Stati Uniti all’Europa, sono le stesse: istruzione gratuita, libera, accessibile a tutti, trasformazione, protagonismo degli studenti, democrazia. Parole d’ordine che nascono come risposta alla ristrutturazione in ottica neoliberista del sistema formativo a livello globale, laddove già dalla seconda metà del secolo scorso, proprio nell’America Latina delle dittature scuole e università venivano private del loro fondamentale ruolo di trasformazione della società e costruzione di coscienza critica, attraverso l’eliminazione di spazi decisionali democratici, l’aziendalizzazione, l’elitarizzazione dei luoghi della formazione, la frammentazione e la monetarizzazione delle conoscenze, lo schiacciamento dell’istruzione alle necessità del libero mercato.

L’attacco trasversale al mondo della formazione non è, infatti, un incidente di percorso nell’evoluzione del capitalismo, né è casuale il suo carattere sovranazionale: il processo di espulsione delle masse dai luoghi della formazione, portato avanti in primis attraverso l’innalzamento di barriere economiche sempre più invalicabili, è funzionale all’inasprimento delle diseguaglianze, le quali rappresentano non un effetto collaterale ma una necessità per la sopravvivenza dell’attuale sistema economico, per il quale la funzione emancipatoria della conoscenza rappresenta, al contrario, un ostacolo.

Il tentativo delle elite economico-finanziarie e dei governi che ne rappresentano gli interessi di controllare i luoghi e le forme di diffusione dei saperi e privatizzare la conoscenza limitandone l’accessibilità e  mettendola a valore nell’interesse del profitto non conosce bandiere. Così come non ne conosce il ruolo che gli studenti hanno rivestito e continuano a rivestire nel rappresentare spesso l’unica opposizione a governi di diversi colori ma con la medesima vocazione. Se nel Brasile di Bolsonaro il movimento studentesco è stato già messo pesantemente sotto attacco, se in Gran Bretagna così come negli USA i giovani e gli studenti schiacciati dal peso della bolla dei prestiti si fanno portatori delle istanze più progressiste e trasformative, se nel nostro Paese il movimento studentesco è stata ed è la spina nel fianco di governi che da trent’anni portano avanti politiche di smantellamento e distruzione del sistema di istruzione pubblico, ad accomunare queste lotte non è solo una questione generazionale o di appartenenza ad una condizione particolare, ma la consapevolezza che la battaglia per l’istruzione gratuita e di qualità è una battaglia generale, che non riguarda esclusivamente coloro i quali sono direttamente coinvolti nel sistema formativo, ma la società tutta.

“Gratuidad sin transformar no es avanzar” dicevano pochi anni fa gli studenti cileni in mobilitazione, e da qui è utile ripartire, per comprendere come oggi sia necessario mettere al centro non solo la questione di accesso a livello economico, ma anche una necessaria trasformazione profonda dei luoghi della formazione, a partire dalla questione fondamentale del ruolo sociale dei saperi.

Chi oggi va a scuola o all’università è cresciuto negli anni della crisi, la nostra generazione è, in Italia, la prima dal Dopoguerra ad essere più povera di quella dei propri genitori: siamo nati sotto il there is no alternative di tatcheriana memoria che ha ispirato le riforme degli ultimi decenni nel mondo della formazione così come in quello del lavoro, e continuiamo a frequentare scuole o università che su quel dogma si articolano oggi più che mai. Per un ragazzo di 18 anni, più che dall’incertezza il futuro è segnato da una serie di certezze che pesano come macigni: la precarietà esistenziale, la consapevolezza che il luogo da cui provieni e le condizioni della tua famiglia determineranno le possibilità che avrai, la necessità di dover competere e di dover essere pronti ad accettare qualsiasi condizione, il senso di impotenza nel poter decidere sulla propria vita. In questo contesto, le scuole e le università diventano luoghi di passaggio nei quali le diseguaglianze si amplificano, luoghi privi di qualsiasi tensione trasformativa nei confronti dell’esistente, ma piuttosto tappe necessarie prima dell’immissione in un mercato del lavoro precario, senza tutele, distruttivo.

Per questo è una necessità collettiva rivoluzionare i luoghi della formazione, partendo dall’assunto che solo a partire da lì è possibile immaginare una trasformazione del modello economico e produttivo, e di conseguenza dei rapporti sociali; una trasformazione sempre più urgente e ormai non più rimandabile, se vogliamo continuare a vivere su questo pianeta. “Il sapere non è fatto per comprendere, ma per prendere posizione”: re-immaginare il modello produttivo mettendo al centro la tutela dell’ambiente e delle persone e non l’accumulazione di profitto è pressoché impossibile se le nuove generazioni continuano ad essere formate nell’unica ottica di mantenimento della situazione attuale, se la ricerca continua ad essere vincolata a finanziamenti privati, se le dinamiche competitive del mercato continuano a permeare la didattica e la valutazione.

Lo hanno affermato con forza gli oltre centomila studenti scesi in piazza tra venerdì e sabato in tutto il Paese contro le politiche di un governo che con una mano taglia su scuola e università e con l’altra cancella diritti per donne e migranti, che mentre interi territori subiscono le conseguenze del disastro ambientale spaccia la repressione per sicurezza e che maschera da “cambiamento” quello che è in realtà il perseguimento delle stesse politiche che hanno distrutto il mondo della formazione e non solo. Al centro della piattaforma con cui la Rete della Conoscenza, l’Unione degli Studenti e Link-Coordinamento Universitario hanno lanciato la mobilitazione del 16 e del 17 novembre si trovano, infatti la rivendicazione di investimenti immediati in diritto allo studio, didattica, edilizia, con il ripristino dei finanziamenti pre Gelmini attraverso lo stanziamento di fondi provenienti dai SAD, dalle imposte finanziarie e sulle transazioni digitali, dalle detrazioni per le scuole private e dal progetto Scuole Sicure, ma anche il superamento del numero chiuso, l’approvazione di un codice etico per l’alternanza scuola-lavoro, la messa in discussione di una didattica cattedratica, etnocentrica, maschilista. Costruire scuole e università davvero accessibili a tutti, a partire dalle quali condurre un’operazione contro-egemonica, che punti a mettere in discussione e ribaltare la narrazione dominante per costruirne una radicalmente alternativa, che alla sicurezza come repressione e controllo sostituisca la sicurezza sociale intesa come garanzia di diritti e dignità, che alla competitività sostituisca la cooperazione, che all’esclusione e alla paura risponda con la solidarietà. Come studentesse e studenti abbiamo deciso di andare controcorrente, di invertire la rotta di un Paese in cui razzismo e discriminazioni crescono, ma sappiamo che la nostra battaglia non si limita ai confini nazionali, che è e sarà sempre più necessario non solo uno sguardo ma la capacità di costruire relazioni a livello transnazionale, per determinare il cambiamento del nostro Paese ma anche dell’Europa e del mondo.

*Responsabile dell’Organizzazione Rete della Conoscenza