Prosegue il nostro viaggio nel mondo apocalittico e dispotico del suprematismo bianco. In questo secondo articolo cerchiamo di sviluppare un ragionamento sulle sue radici storiche, partendo dal colonialismo e dalla nascita del capitalismo europeo. Sviluppiamo poi un’analisi su pregiudizio bianco insito nella Costituzione e nelle politiche dell’immigrazione degli Stati Uniti. Chiudiamo con un ragionamento su diritti civili e welfare state sempre negli Stati Uniti.
Il primo articolo sul tema del suprematismo bianco si trova qui.
Le radici storiche del suprematismo bianco: colonialismo e capitalismo
L’attuale suprematismo bianco, nelle sue modalità terroristiche o “rispettabili”, è l’erede storico diretto di un’ideologia razzista che è stata costruita a partire dal 1492 in stretta interconnessione con il processo di espansione coloniale e poi, a partire dal XVIII secolo, con lo sviluppo del capitalismo europeo.
I commerci di schiavi neri e merci delle colonie sono stati la linfa vitale del colonialismo e del primo capitalismo europeo. La giustificazione standard di questo processo di espropriazione di diritti e risorse risale a John Locke (1632-1704) che nel suo Secondo Trattato sul Governo (1689) ha formalizzato una falsa narrazione storica del capitalismo, affermando che “all’inizio tutto il mondo era l’America“, una tabula rasa senza persone la cui ricchezza era semplicemente ammassata lì, pronta per essere presa da chi se la voleva prendere.
Noi oggi sappiamo che il continente americano, a cominciare dalle isole dei Caraibi, era abitato quando venne “scoperto” da Cristoforo Colombo nel 1492 – come erano abitate le terre “scoperte” in Asia, Africa e Oceania dagli altri grandi viaggiatori/esploratori europei, da Vasco De Gama a Ferdinando Magellano, da Bartolomeu Dias ad Amerigo Vespucci e a James Cook – e che gli indigeni dovevano essere uccisi o ridotti in schiavitù per creare una terra nullius1.
Quando Cristoforo Colombo “scoprì” una rotta per un ponte marittimo tra il regno di Spagna e quelle che divennero le “Americhe“, inaugurò una nuova epoca storica che avrebbe visto livelli di degrado umano, violenza, e depravazione diversi da qualsiasi altra era dell’esperienza umana su questo pianeta. Al centro della cosmologia di questi “esploratori”, “colonizzatori” e “civilizzatori” provenienti dalla Spagna e poi da altre parti di quella che divenne l’Europa, c’era un ideale di differenza umana, inizialmente informata dalla religione, ma molto presto intersecata con un processo di razzializzazione che ha gerarchizzato le relazioni razziali con i cosiddetti bianchi e la civiltà bianca al vertice. Quella gerarchia razziale, razionalizzata da alcuni dei più grandi filosofi europei, da John Locke e Immanuel Kant a Georg Wilhelm Friedrich Hegel, metteva in discussione o addirittura escludeva gli “altri” non europei come esseri umani a pieno titolo.
Come sosteneva Cedric Robinson, la coscienza razziale europea non è emersa come una subdola invenzione dei capitalisti per dividere la classe operaia. Invece, ha rappresentato una coscienza storicamente precondizionata di un’incipiente razzializzazione in Europa che poi, a seguito dell’incontro coloniale, si è cristallizzata in una situazione pienamente sviluppata di relazioni e gerarchie razziali gobali.
Quando Bartolomé de Las Casas (1884-1566) fece la sua famosa argomentazione secondo cui i popoli indigeni che venivano sistematicamente distrutti dalle razzie, dalle malattie portate dagli europei e dalla schiavitù erano in realtà esseri umani con un’anima e non dovevano essere sottoposti a un trattamento disumano (“Tutta questa gente di ogni genere fu creata da Dio senza malvagità e senza doppiezze […].”), questo ragionamento non venne esteso agli africani che venivano ridotti in schiavitù. Seppure gli indigeni del continente americano venivano considerati come una forma umana di tipo inferiore, potevano essere convertiti poiché avevano un’anima in quanto esseri visti come almeno parzialmente umani, ma questa considerazione non venne estesa agli africani considerati alla stregua di “bestie” senz’anima.
La conquista militare delle terre delle Americhe e la riduzione in schiavitù degli indigeni e poi l’importazione di manodopera schiava dall’Africa, crearono un’enorme ricchezza per l’Europa. Samir Amin, Immanuel Wallerstein, ma in particolare Walter Rodney nel suo capolavoro, How Europe Underdeveloped Africa (1972), ha dimostrato come la sottomissione e il saccheggio coloniale abbiano creato un vasto abisso materiale tra i popoli conquistati, schiavizzati e colonizzati e l’Europa che ha ulteriormente rafforzato e normalizzato l’idea razzializzata di supremazia bianca europea.
Il nocciolo della questione, infatti, è stato il massiccio e secolare commercio transatlantico di africani schiavizzati che venivano messi a lavorare per coltivare tabacco, cotone, caffè, cacao, indaco, riso, soprattutto zucchero, e altre colture da reddito nelle piantagioni del Nuovo Mondo2. Senza i popoli africani trafficati dalle coste dell’Africa (almeno 12 milioni di persone), le Americhe avrebbero contato poco nell’ascesa dell’Europa e del capitalismo industriale europeo. Il lavoro africano, sotto forma di schiavi, fu ciò che rese possibile lo sviluppo delle Americhe. Senza di esso, i progetti coloniali dell’Europa nel Nuovo Mondo sarebbero stati inimmaginabili. Attraverso lo sviluppo dell’agricoltura delle piantagioni per la produzione di monocolture commerciali, i legami profondi e spesso brutali dell’Europa con l’Africa hanno guidato la nascita di un’economia capitalista veramente globale. Lo zucchero coltivato dagli schiavi africani ha accelerato l’unione dei processi che chiamiamo “prima rivoluzione industriale”, ossia del capitalismo propriamente considerato. Ha trasformato radicalmente le diete, rendendo possibile una produttività dei lavoratori europei molto più elevata. E così facendo, lo zucchero ha rivoluzionato la società europea3.
Sulla scia dello zucchero, il cotone coltivato da persone schiavizzate nel sud dell’America del nord ha contribuito a lanciare la prima rivoluzione industriale, insieme a una seconda ondata di consumismo. L’abbigliamento abbondante e vario per le masse (europee) è diventato una realtà per la prima volta nella storia umana. La portata del boom del cotone americano prima della guerra civile (1861-1865), che ha reso possibile tutto ciò, è stata a dir poco sorprendente se si considera che il valore derivato dal commercio e dalla proprietà delle persone schiavizzate nei soli Stati Uniti – non considerando il cotone e gli altri prodotti che producevano – era maggiore di quello di tutte le fabbriche, le ferrovie e i canali del Paese messi insieme.
In ogni caso, il diritto al possesso del mondo, sosteneva Locke, si è instaurato con il duro lavoro: quando un “uomo” ha “mescolato il suo lavoro” con le ricchezze naturali e “con ciò ne ha fatto sua proprietà”: i frutti raccolti, i minerali estratti e la terra coltivata sono diventati sua proprietà esclusiva, perché ci ha messo il lavoro.
Secondo Locke, il “suo” lavoro includeva anche il lavoro di coloro che lavoravano per lui. Ma perché le persone che effettivamente facevano il lavoro non avrebbero dovuto essere quelle che acquisivano i diritti di proprietà?
Questo è comprensibile solo quando si considera che per “uomo“, Locke non intendeva tutta l’umanità, ma solo gli uomini bianchi europei possidenti. Coloro che lavoravano per loro non avevano tali diritti. L’idea di progresso, in cui Locke credeva fermamente, era un modo per ordinare il mondo secondo una gerarchia razziale e dei tipi umani: gli africani e i nativi americani in fondo come selvaggi, gli asiatici un gradino più in alto, solo le borghesie e le aristocrazie europee raggiungevano il livello civilizzato.
Per cui, gli uomini europei che hanno rivendicato grandi quantità di ricchezze naturali fuori dall’Europa non vi hanno mescolato il proprio lavoro, ma quello dei loro schiavi. Ciò che questo significava, alla fine del XVII secolo, era che i diritti fondiari su larga scala potevano essere giustificati, secondo il sistema di Locke, solo dalla proprietà degli schiavi. Daniel Defoe (1660-1731), l’autore inglese di Robinson Crusoe (1719), ma anche un commerciante di schiavi, uno scrittore di pamphlet e una spia, ha scritto: “No commercio africano, no negri; no negri, no zucchero, ginger, indaco etc.; niente zucchero etc., niente isole, niente continente; nessun continente, nessun commercio”.
Ciò nonostante, la narrazione di Locke è diventata la favola giustificativa che il capitalismo racconta di sé – si diventa ricchi attraverso il duro lavoro (l’etica del lavoro protestante), l’individualismo e la spinta imprenditoriale, aggiungendo valore alla ricchezza naturale – e questa narrazione può essere considerata il più grande colpo propagandistico di successo della storia umana. Quasi un secolo fa, il pioniere e studioso dei diritti civili W.E.B. Du Bois aveva già affermato molto di ciò che avevamo bisogno di sapere su questo argomento. “È stato il lavoro dei neri a stabilire il moderno commercio mondiale, che è iniziato prima come commercio nei corpi degli schiavi stessi“, ha scritto.
Tutto l’argomento di Locke è stato poi sviluppato e sistematizzato dal giurista William Blackstone nel XVIII secolo, i cui libri sono stati immensamente influenti in Inghilterra, America e altrove. Sosteneva che il diritto di un uomo al “dominio unico e dispotico” sulla terra fosse stabilito dalla persona che per prima l’ha occupata per produrre cibo. Questo diritto avrebbe potuto essere scambiato per denaro. Il colonizzatore europeo poteva non solo cancellare tutti i diritti precedenti, ma poteva anche cancellare tutti i diritti futuri. Una volta che ha mescolato il suo lavoro con la terra, l’uomo europeo e i suoi discendenti hanno acquisito il diritto su di essa in perpetuo, fino a quando non decidono di venderla. In tal modo, questo ha impedito a tutti i futuri richiedenti di acquisire la ricchezza naturale con gli stessi mezzi.
Ci si potrebbe domandare cosa c’era nel lavoro degli uomini bianchi che trasformava magicamente tutto ciò con cui entrava in contatto in proprietà privata. In realtà, l’intera struttura era fondata sul saccheggio: saccheggio di altre persone, saccheggio di altre nazioni, saccheggio di altre specie e saccheggio del futuro dell’umanità stessa. Dai coloni che hanno sparato e ucciso le popolazioni indigene presenti nelle terre incorporate negli Stati Uniti coloniali, alla brutalità, agli stupri e al terrore della schiavitù nelle piantagioni, al linciaggio e al rogo delle comunità nere, la negazione del valore della vita nera e in effetti di tutta la vita non europea, è stata una caratteristica duratura del progetto coloniale europeo.
In Europa, a partire dalla fine del XVIII secolo nacque il capitalismo industriale, un nuovo modo di produzione e di ordinare le relazioni globali – passando dal colonialismo all’imperialismo – alimentato da un razzismo “scientifico” che ha permesso di considerare gran parte del pianeta come risorse – umane, alimentari e minerali – che hanno valore solo nella misura in cui possono essere trasformate in merci e profitti. Questi profitti sono finiti in pochissime mani. Il pianeta e tutta la vita su di esso, una volta considerati sacri, sono stati trasformati in valore monetario. Ciò ha portato al dominio dell’uomo bianco sugli uomini diversamente “colorati”, alla massiccia distruzione dell’habitat, all’estinzione di specie e a pompare l’atmosfera con anidride carbonica sufficiente per alterare il clima.
È impossibile valutare l’attuale modo di produzione capitalistico globale, con la sua organizzazione in catene di produzione e rifornimento di merci (supply and value chains) e i suoi flussi finanziari, senza tenere conto della lunga storia della colonizzazione e dell’imperialismo, dove le potenze e le imprese euro-americane sono state in grado di diventare ricche e potenti grazie ai processi plurisecolari di sistematico saccheggio, sfruttamento ed espropriazione delle loro colonie, distruggendo, destrutturando e ristrutturando le configurazioni economiche, sociali, culturali e politiche del resto del mondo.
Il modo di produzione capitalistico è variato nei suoi requisiti in tempi differenti e anche nelle pressioni che ha esercitato, a partire dall’Europa, su differenti aree geografiche del mondo attraverso il dipanarsi del processo di globalizzazione. Ogni fase di avanzamento e ogni sforzo per arginare la marea della depressione ha avuto i suoi effetti sulle popolazioni non bianche di tutto il mondo – “i popoli senza storia” organizzati sulla base di modi di produzione non capitalistici (modi tributari e modi basati sui sistemi di discendenza e parentela), i miliardi di cacciatori-raccoglitori, pastori nomadi, pescatori, contadini e lavoratori rurali – che via via sono rimaste intrappolate nel processo di “sviluppo del sottosviluppo” di cui ha scritto André Gunder Frank e nella rete delle interconnessioni capitalistiche (le catene del valore), costrette al lavoro schiavistico (ancora oggi l’Organizzazione Internazionale del Lavoro stima che nel mondo oltre 40 milioni di persone – soprattutto bambini, donne e giovani – vivano in una qualche forma di moderna schiavitù relativa al lavoro o al matrimonio forzati) o ad avere la libertà di vendere la loro abilità di lavorare.
I colonizzatori europei hanno incontrato enormi difficoltà a convincere “i popoli senza storia” a lavorare nelle loro miniere e piantagioni. Queste popolazioni tendevano a preferire il loro stile di vita di sussistenza e autoconsumo, mentre i salari offerti non erano abbastanza alti da indurli al lavoro. Pertanto, i colonizzatori europei si sono caricati del “fardello dell’uomo bianco” (come lo definiva Rudyard Kipling nella sua poesia del 1899) per guidarli verso una “civiltà superiore” e hanno dovuto costringere queste popolazioni, “per metà demoni e per metà fanciulli”, ad entrare nel mercato del lavoro con la “violenza civilizzatrice”: hanno imposto tasse, privatizzato i beni comuni, sottratto terre, e limitato l’accesso al cibo, o semplicemente con la violenza (uccisioni indiscriminate, mutilazioni punitive, stupri e torture) hanno forzato le persone non bianche a lasciare le loro terre e divenire schiavi. Non a caso le avanguardie organizzate del capitalismo globale – come l’inglese East India Company – operavano combinando la motivazione del profitto propria delle imprese con i poteri governativi propri degli Stati sovrani.
Per circa quattro secoli, il Regno Unito – in competizione con Spagna, Portogallo, Olanda, Francia, Belgio, Germania e altre potenze europee – ha sistematicamente saccheggiato altre parti del mondo: sequestrando persone dall’Africa e costringendole a lavorare come schiavi nei Caraibi e nel Nord America, prosciugando incredibili ricchezze dall’India, imponendo il consumo di oppio alla Cina con le Guerre dell’Oppio (1839-42 e 1856-60)4 ed estraendo i materiali necessari per alimentare la sua rivoluzione industriale attraverso un sistema di lavoro a contratto spesso difficilmente distinguibile dalla schiavitù totale.
Il processo di integrazione forzata dei popoli non bianchi colonizzati nel sistema capitalista del lavoro ha causato diffuse distruzioni, dislocazioni, espropriazioni, immiserimenti, carestie e milioni di morti. Le popolazioni indigene sono state spogliate delle terre comuni e degli altri beni collettivi, rendendo impossibile la sussistenza comunitaria e introducendo la proprietà privata per garantire “ricchezza e progresso”. “Per ironia della sorte, il contributo iniziale dell’uomo bianco al mondo dell’uomo nero è consistito principalmente nell’introdurlo agli usi del flagello della fame” – ha notato Karl Polanyi nel suo capolavoro La Grande Trasformazione (1944:164). “Così i coloni potevano decidere di abbattere gli alberi del pane per creare una scarsità artificiale di cibo o di imporre al nativo una tassa sulla capanna per costringerlo a barattare il suo lavoro. In entrambi i casi l’effetto è stato simile a quello delle recinzioni Tudor con la loro scia di orde vagabonde.”
Prima della rivoluzione industriale capitalistica in Europa e nel resto del mondo, sosteneva Polanyi, la società era mediata dalla produzione domestico-familiare, dalla reciprocità e dalla ridistribuzione. La maggior parte delle persone coltivava il proprio cibo e produceva i beni di cui aveva bisogno, non c’erano mercati universali. Fiere settimanali erano eventi occasionali dove prodotti eccedenti, di lusso e di lunga distanza (come le spezie) venivano scambiati o venduti, mentre il grosso della produzione era per il consumo domestico o locale. Le persone si sostenevano a vicenda senza un calcolo esatto, i beni venivano spesso condivisi (reciprocità). La povertà, la disoccupazione e la fame di alcuni in un villaggio, mentre altri acquisivano una grande ricchezza, erano pressoché sconosciute o comunque tenute sotto controllo attraverso i meccanismi della ridistribuzione.
Nel libro “Las venas abiertas de America Latina” (1971), Eduardo Galeano ha scritto: “la nostra ricchezza ha sempre generato la nostra povertà nutrendo la prosperità degli altri“. Galeano ha descritto la lunga tragica storia dell’America Latina, dalla sua colonizzazione all’era dei colpi di Stato militari degli anni ’70, evidenziando come in questo lungo periodo, la ricchezza del continente è stata depredata a beneficio delle potenze imperiali (in Europa e nel Nord America) e anche degli oligarchi locali. La popolazioni indigene e la terra sono state spogliate della loro ricchezza. Le terre comuni sono state privatizzate per inserire monocolture intensive, piantagioni di caffé, zucchero, cacao e altre commodities per il mercato globale, coltivate da popolazioni indigene trasformate in proletari retribuiti con miseri salari o da schiavi africani. Foreste, fiumi, terra e sottosuolo – tutti sono stati convertiti dal loro stato naturale in materia prima per l’accumulazione capitalista. Maggiori erano le risorse, tanto maggiore è stato il saccheggio e tanto più le persone sono diventate povere. Un processo che è stato basato sia sull’“accumulazione per sfruttamento” del lavoro vivo nella produzione, come evidenziato da Karl Marx e da Rosa Luxemburg5, sia su quella che il geografo David Harvey ha definito “accumulazione per spoliazione” (accumulation by dispossession), un meccanismo che ha continuato ad operare fino ai giorni nostri attraverso la creazione e la successiva gestione di grandi e piccole crisi finanziarie che consentono a capitalisti e alle organizzazioni che essi controllano di appropriarsi e centralizzare beni e risorse a prezzi da saldo.
In alcuni momenti gli effetti del capitalismo sono stati diretti, il risultato dell’investimento o del disinvestimento nei sistemi di sfruttamento e rifornimento di materie prime o in piantagioni e imprese di produzione di derrate alimentari o in impianti industriali in varie regioni del globo. In altri momenti i suoi effetti sono stati trasmessi attraverso il meccanismo del mercato, intensificando o diminuendo l’impatto trasformativo del modo di produzione capitalistico sui modi di vita delle popolazioni locali in giro per il mondo. Ogni avanzamento ha comportato cambiamenti nel modo in cui il lavoro sociale è stato organizzato a livello locale. Quando l’avanzamento è stato seguito da una ritirata, però, non è stato più possibile ritornare ai precedenti adattamenti e modi di produzione e si sono determinate situazioni critiche – miseria, disoccupazione, dislocazione, razzismo, sfruttamento e degradazione – per la sopravvivenza fisica e culturale delle popolazioni coinvolte. Lo sviluppo e il sottosviluppo di differenti aree geografiche del mondo, le relazioni tra aree centrali e periferie, a livello internazionale, nazionale e locale, è dunque il risultato storico del dispiegarsi del processo di accumulazione del capitale a livello globale che ha via via modificato e distrutto sistemi di vita, assetti sociali e politici, sistemi economici e configurazioni culturali, deprivando “i popoli vinti” dell’identità culturale e del diritto di autodeterminazione6.
“We, the people” e il suprematismo bianco negli USA: costituzione e immigrazione
Nonostante gli Stati Uniti siano in gran parte un Paese di immigrati e nonostante quanto si legge ai piedi della Statua della Libertà posta nella baia di New York sia “datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare libere”, la storia degli Stati Uniti è stata caratterizzata da periodiche esplosioni di ostilità verso l’immigrazione, xenofobia e “nativismo” che la politica ha sempre cavalcato7. Dal primo ‘800, tutte le successive ondate di immigrazione sono state trattate in modo pregiudizievole come una minaccia al predominio della popolazione di origine anglosassone, bianca e protestante – nota con l’acronimo WASP – e dell’élite politica ed economica da essa espressa: i tedeschi, i cattolici, i cinesi, gli ebrei, gli irlandesi, gli italiani e altri europei del sud e dell’est, i messicani, i giapponesi, i musulmani, i centroamericani, gli africani. Il divieto effettivo di immigrazione omosessuale è stato abrogato solo nel 1990. Inoltre, l’atteggiamento verso la popolazione immigrata è sempre stato assimilazionistico, ossia esplicitamente teso ad una loro rapida americanizzazione (secondo l’ideale mono-culturale del “melting pot”), per farla adattare alla cultura WASP.
Fin dall’inizio gli Stati Uniti sono sempre stati impegnati nella conservazione del potere bianco WASP, a partire dal momento in cui i proprietari di schiavi e gli apologeti della schiavitù hanno scritto il documento di fondazione dell’America, dando per scontata l’idea che gli uomini bianchi avrebbero avuto il possesso perpetuo delle redini dell’America. Quando nel Preambolo della Costituzione (1787) dicevano “Noi, il popolo” (“We, the People”), intendevano “i bianchi” e questa pregiudiziale razzista è stata mantenuta fino ad oggi in tanti settori della vita pubblica, politica e sociale americana, a cominciare dal diritto ad accedere alla cittadinanza, dal diritto di voto e dal diritto di immigrazione.
Il primo Congresso degli Stati Uniti iniziò il suo lavoro nel 1790 limitando l’ammissibilità per la naturalizzazione alle persone libere e bianche. Il suffragio era un diritto solo per gli uomini bianchi detentori di una proprietà. D’altra parte, la contrapposizione fra due padri fondatori come Thomas Jefferson e Alexander Hamilton esprimeva il sogno di una repubblica di piccoli proprietari WASP individualisti e gelosi della propria libertà di fronte al crescente potere della potenza finanziaria e presto industriale rappresentata da New York e dietro di cui si celava l’incombente capitalismo del vecchio padrone coloniale inglese.
La Convenzione Costituzionale aveva stabilito di contare le persone tenute schiave in ragione di tre quinti di una persona libera. Solo con il XIV emendamento della Costituzione, ratificato nel 1868 (dopo la sconfitta degli Stati schiavisti del sud da parte di quelli abolizionisti del nord), fu stabilito che la cittadinanza per diritto di nascita si applicava anche ai neri, questo quando i primi schiavi africani erano stati fatti sbarcare nell’agosto 1619, un anno prima dell’arrivo dei “Padri Pellegrini” della Mayflower a Cape Cod, e la schiavitù venne abolita solo nel 1865 con il XIII emendamento, approvato dopo la conclusione di una Guerra Civile che ha causato 620-750 mila morti tra i soldati sui campi di battaglia e per malattie, con un numero imprecisato morti di civili. Ma, le leggi Jim Crow, emanate a livello statale e locale nel sud, egemonizzato dal Partito Democratico, tra il 1877 e il 1964, hanno di fatto privato la popolazione nera dei diritti civili e politici, istituzionalizzando e leggittimando la segregazione razzista.
Altri 30 anni passarono prima che la Corte Suprema decidesse che la cittadinanza per diritto di nascita si applicasse a una persona di origine asiatica, mentre solo con l’Indian Citizenship Act del 1924 venne stabilito che tutti gli indigeni nati negli Stati Uniti sono cittadini.
Il sistema segregazionista razzista Jim Crow non ha avuto solo un peso decisivo sul piano politico e dei diritti civili, ma anche su quello economico. Basti pensare che le riforme economiche del New Deal rooseveltiano sono state centrate sul lavoro effettivamente più stabile che era solo per i white e blue collars workers bianchi maschi, poiché i settori economici – come l’agricoltura e il lavoro domestico – in cui i lavoratori afro-americani e le donne erano prevalenti, sono rimasti in gran parte esclusi dalle protezioni del lavoro del New Deal, come il Social Security Act del 1935. Un prezzo imposto dai legislatori democratici del “Jim Crow South” per il loro sostegno alla legge.
Persistente è rimasta nel tempo l’idea che solo alcuni abitanti degli Stati Uniti meritassero di viverci e prosperare, mentre altri dovessero andarsene – i nativi americani attraverso lo sterminio, i neri attraverso l’esilio, i cinesi e i giapponesi attraverso l’espulsione, i messicani attraverso la deportazione – o non dovessero entrare, come italiani, ebrei e altri europei del sud e dell’est, o dovessero essere messi in discussione come cittadini, come i cattolici irlandesi. I gruppi discriminati sono variati nel tempo, ma la convinzione che solo alcune persone – cioè i bianchi (comunque definiti) – meritassero la cittadinanza statunitense e che gli Stati Uniti dovessero essere “un Paese per l’uomo bianco” ha resistito a lungo. In particolare, per decenni ha prevalso il “nordicismo“, una convinzione razzista che riteneva che le persone dell’Europa settentrionale fossero biologicamente superiori a tutti gli altri8.
Dall’inizio del XIX secolo in poi, un tema costante nella storia americana è stato il timore che un’America bianca-protestante-anglosassone fosse minacciata sia dall’interno sia dall’esterno: dall’interno dalle richieste di liberazione e diritti da parte degli afro-americani, e dall’esterno da parte di immigrati non anglosassoni, non protestanti, dall’Irlanda, dal Giappone, dalla Cina, dall’Europa meridionale, orientale e centrale, e successivamente dall’America Latina e dal Medio Oriente.
Ci sono stati i pregiudizi contro gli irlandesi e la continua violenza e ostilità contro i coolies cinesi (per lo più lavoratori di lingua cantonese provenienti dalla provincia del Guangdong), che erano stati portati in California tra il 1852 e il 1875 per costruire la parte occidentale della rete ferroviaria transcontinentale e arrivarono a costituire il 25% della forza lavoro, che portò all’approvazione del Chinese Exclusion Act nel 1882 (che ha contribuito a promuovere il clima politico che ha portato al massacro dei lavoratori cinesi che costruivano la linea ferroviaria a Rock Springs, Wyoming, nel 1885), che vietava l’immigrazione dalla Cina e consentiva la deportazione dei cinesi presenti sul territorio americano (abrogato dal Magnuson Act il 17 dicembre 1943 dopo che la Cina divenne un alleato degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale).
La manodopera cinese venne da allora sostituita dai migranti di origine europea, giapponese e messicana. Nel 1907, allarmato dall’arrivo di oltre un milione di immigrati all’anno, il Congresso ha imposto una limitazione all’immigrazione giapponese e ha costituito una commissione per determinare esattamente da dove venissero le persone e quali fossero le loro capacità. Nei quattro anni successivi, sotto la guida del senatore repubblicano William Dillingham dello Stato WASP del Vermont, la commissione ha preparato un rapporto in 42 volumi che intendeva distinguere le etnie più e meno desiderabili. Il “Dizionario di Razze o Popoli” della commissione ha esposto i suoi risultati principali: gli slavi dimostravano “il fanatismo nella religione, l’incuria nelle virtù commerciali della puntualità e spesso dell’onestà“; gli italiani del Sud si rivelavano “eccitabili, impulsivi, altamente fantasiosi, intrattabili“; gli scandinavi, concludeva la commissione, rappresentavano “il tipo più puro“.
Il lavoro della commissione ha portato al restrittivo Immigration Act del 1924 (preceduto da quello del 1918 – il Dillingham-Hardwick Act – che ha consentito al governo di deportare gli “alieni indesiderati”, specificatamente gli anarchici, i comunisti, gli attivisti sindacali e politici), il cosiddetto Johnson–Reed Act che ha definito un sistema di quote etno-nazionali rimasto in vigore fino al 1952, basato sull’ostilità verso gli immigrati provenienti dall’Europa orientale e meridionale, dall’Africa, dalla Cina e da altri Paesi asiatici. Il sistema delle quote di origine nazionale emanato nel 1924 rifletteva il pregiudizio etnico e razziale dei suoi progettisti. Più di 50 mila visti per immigrati sono stati riservati ogni anno per la Germania. Il Regno Unito ha ottenuto la seconda assegnazione più grande, con 34 mila. L’Irlanda, con circa 28 mila, e la Norvegia, con 6.400, avevano le quote più alte in rapporto alle loro popolazioni nazionali. Ogni Paese in Asia (compresa la Cina) aveva una quota di solo 100 visti, mentre gli africani che desideravano immigrare in America hanno dovuto competere per uno dei circa 1.000 visti messi a disposizione per l’intero continente.
I messicani sono stati esentati perché i politicamente influenti grandi proprietari terrieri hanno sostenuto con successo che senza gli immigrati del sud l’economia agricola americana sarebbe crollata. Ma, durante la Grande Depressione, campagne pubbliche hanno sostenuto massicce azioni di rimpatrio nel corso delle quali oltre un milione di residenti negli Stati Uniti di origine messicana sono stati costretti a lasciare il Paese e il confine meridionale è stato chiuso.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, dalla fine del 1941, all’indomani di Pearl Harbor (quando 350 aerei giapponesi distrussero una larga parte della flotta americana di stanza nel Pacifico), i giapponesi-americani (120 mila uomini, donne e bambini, dei quali 70 mila erano cittadini americani) che vivevano nella costa occidentale sono stati internati in campi di concentramento per oltre tre anni.
Nel 1942, Stati Uniti e Messico hanno concordato il Bracero Program che ha fornito lavoratori (bracero = lavoratore) per l’economia di guerra e poi fino al 1964. Nel 1952, il McCarran-Walter Act ha reso leggermente più facile per gli asiatici immigrare negli Stati Uniti, ma ha mantenuto il sistema delle quote nazionali. In un messaggio che spiegava il suo veto alla legge, il presidente Truman ha osservato che la politica delle quote “discrimina, deliberatamente e intenzionalmente, contro molti popoli del mondo“. Tuttavia il Congresso ha respinto la sua critica e annullato il suo veto.
Il sistema delle quote nazionali è stato abolito solo nel settembre 1965 con l’Immigration and Nationality Act (Hart-Celler Act) che però ha stabilito che fosse data priorità ai candidati immigrati con parenti già negli Stati Uniti, rispetto a quelli con istruzione e competenze “vantaggiose“, come inizialmente proposto dall’amministrazione Johnson. Una modifica che ha alimentato il fenomeno delle “catene di migrazione” che all’epoca era visto come un modo per preservare il profilo etnico a maggioranza bianca esistente della popolazione americana e scoraggiare l’immigrazione di asiatici e africani che avevano meno legami familiari nel Paese.
Nel 1986 il Congresso ha approvato l’Immigration Reform and Control Act (IRCA) che includeva un’amnistia (la cosiddetta “Reagan Amnesty“) e una soluzione permanente per coloro che erano entrati senza autorizzazione. I funzionari hanno ricevuto circa 2,3 milioni di domande di green cards, di cui il 70% provenienti da messicani. Nei primi anni ’90, la lobby anti-immigrazione ha acquisito forza e il presidente Clinton ha risposto con una campagna per “riprendere il controllo” del confine con il Messico. Nel 1993 ha lanciato una serie di iniziative – Operation Blockade (in seguito ribattezzata Operation Hold-the-Line), Operation Safeguard, Operation Gatekeeper (con la quale si dette inizio alla costruzione del muro lungo il confine) e Operation Rio Grande – mirate apparentemente a contenere movimenti irregolari. Tuttavia, la migrazione irregolare è aumentata. Nel 1995 più di 1,3 milioni di persone sono state arrestate (sebbene non necessariamente detenute) per aver attraversato il Messico “senza ispezione“. Questa era una frazione del totale dei flussi irregolari perché, secondo uno studio congiunto delle autorità statunitensi e messicane, per ogni immigrato irregolare che era stato arrestato due o tre avevano attraversato il confine senza incontrare le pattuglie americane.
Nel 1996 è stata introdotta una nuova legge sull’immigrazione (IIRAIRA) per contrastare l’immigrazione illegale e accelerare l’espulsione degli stranieri e dei “falsi richiedenti asilo“. Le statistiche della US Customs and Border Protection (CBP) mostrano che gli attraversamenti illegali delle frontiere sono diminuiti significativamente dai massimi storici nei primi anni del secolo, ma è aumentato il numero delle famiglie (genitori con bambini) provenienti dal Centro America (Honduras, El Salvador e Guatemala) per fuggire da povertà e violenza e che cercano di entrare facendo richiesta di asilo. Quasi 133 mila persone sono state fermate dagli agenti di frontiera al confine con il Messico nel solo maggio 2019, mandando nel caos il sistema di prima accoglienza/identificazione, con il Messico che ospita temporaneamente larga parte dei richiedenti asilo in attesa di ottenere un permesso dagli USA (circa 60 mila persone). Comunque, nel 2018 erano state arrestate 396.579 persone prive di documenti, accusate di essere entrate illegalmente negli Stati Uniti, mentre nel 2000 erano state più di 1,6 milioni di persone.
Attualmente, gli immigrati più recenti negli USA sono circa 43 milioni (4 milioni sono di origine asiatica, in prevalenza cinese), pari al 13% della popolazione, che diventano il 26% se si considerano i figli nati in terra americana. L’agricoltura, l’edilizia e il variegato enorme settore dei servizi dipendono in gran parte da immigrati recenti, molti dei quali privi di documenti, circa 12 milioni di persone, provenienti soprattutto da Messico e Centro America. Gli immigrati illegali sono molto importanti sul piano economico dato che contribuiscono annualmente con 11,6 miliardi in tasse statali e locali e aiutano a mantenere a galla il sistema del Social Security anche se hanno scarse o nulle possibilità di poter attingere al fondo stesso.
Ufficialmente, i lavoratori immigrati, sia legali sia illegali, contribuiscono per un 11% all’economia statunitense. Ma, l’ex presidente Trump riteneva che “l’immigrazione è un privilegio e non un diritto” e, in prospettiva, si batteva per imporre una riforma del sistema di immigrazione tesa a ridurre del 50% il numero degli immigrati regolari che possono entrare ogni anno negli USA (1,1 milioni di cittadini nel 2016), giustificandola con l’obiettivo di produrre un innalzamento dei salari dei lavoratori americani. Trump e la sua amministrazione volevano imporre un sistema di accoglienza molto più selettivo: le persone avrebbero dovuto essere selezionate in base alle competenze, ai redditi, ai titoli di studio, all’età, alla conoscenza della lingua inglese, etc., tagliando fuori i soggetti più deboli ed escludendo i ricongiungimenti familiari. L’amministrazione Trump (ispirata dal suprematista Stephen Miller) ha prima imposto il divieto di immigrazione da parte di persone provenienti da alcuni Paesi islamici e poi ha bypassato il Congresso, introducendo un regolamento (12 agosto 2019) che ha riguardato le centinaia di migliaia di immigrati che entrano legalmente nel Paese ogni anno e fanno domanda per diventare residenti permanenti, stabilendo che devono dimostrare di avere i mezzi economici necessari per sostenersi e non divenire un “onere per le finanze pubbliche”. Un regolamento che, secondo le associazioni di advocacy dei migranti, ha tagliato metà dell’immigrazione legale, negando i visti e la residenza permanente a centinaia di migliaia di persone perché troppo povere. I visti temporanei o permanenti (green cards) potevano essere rifiutati se i richiedenti non soddisfano standard di reddito sufficientemente elevati o se ricevono assistenza pubblica come welfare, buoni alimentari, alloggi pubblici o Medicaid.
La questione dell’immigrazione, legale ed illegale, e dei richiedenti asilo alimenta un acceso conflitto politico negli Stati Uniti da decenni (come, d’altra parte, nell’Unione Europea) e investe direttamente il rapporto che questo Paese intrattiene con i Paesi dell’America Latina, a cominciare da Messico, Guatemala, Honduras e El Salvador. A seguito delle scelte di lunga durata della politica estera americana verso questi Paesi si è creato un circolo vizioso che si autoalimenta. Gli Stati Uniti appoggiano regimi dittatoriali o di democrazia autoritaria che bloccano qualsiasi cambiamento in senso genuinamente democratico, imponendo alla maggioranza delle popolazioni – in gran parte contadini delle etnie Maya – una vita caratterizzata da esclusione sociale, ignoranza, disoccupazione, povertà e violenza. Queste popolazioni rispondono dando vita a movimenti di resistenza e lotta (anche armata), ma anche con un esodo di massa verso gli Stati Uniti.
L’amministrazione Biden ha da subito affermato di voler affrontare i “problemi strutturali” che causano questo esodo, ma finora alle dichiarazioni non sono seguiti i fatti. La politica estera americana non ha certo appoggiato le forze progressive che nei Paesi del Centro America si battono per democrazia, giustizia sociale e sicurezza alimentare, personale e collettiva, né ha allentato la presa sulle restrizioni dei flussi (introdotte da Trump all’inizio della pandemia da CoVid-19) dei richiedenti asilo e dei migranti economici provenienti dalla sponda meridionale del Rio Grande (Su questo tema si veda il nostro articolo qui).
I suprematisti bianchi – terroristi o “rispettabili” che siano – si sono appropriati della questione dell’immigrazione, facendo leva sulla xenofobia e sul razzismo anche per cercare di ottenere il sostegno degli strati sociali e culturali più vulnerabili, emarginati e poveri della popolazione bianca. Nel 2016, Donald J. Trump era riuscito a diventare il campione di quella parte dell’America che negli anni ’30 veniva chiamata white working class, che negli anni ’50-’60 veniva catalogata come white lower middle class e che negli anni della globalizzazione neoliberista dispiegata è andata ad ingrossare le file della cosiddetta white trash (“spazzatura bianca”). Elettori pro-Trump che Hillary Clinton ha definito “deplorables”. Americani bianchi poveri (hillbillies e rednecks; “bifolchi”) del Kentucky, dei monti Appalachi, del West Virginia, dell’Ohio, del Midwest e del Sud, che formano un proletariato rurale e industriale di “forgotten men” che ha sempre vissuto ai margini dell’American dream (un mito reso inizialmente popolare durante la Grande Depressione dallo storico James Truslow Adams con il libro Epic of America e da John Steinbeck con il libro The grapes of wrath), ma anche quegli americani della lower middle class bianca dei lavori tradizionali, spesso noiosi, ripetitivi e rigidamente supervisionati, e della ex “aristocrazia operaia” delle ex grandi fabbriche Fordiste che in parte Ronald Reagan, enfatizzando i valori tradizionali della famiglia e della comunità, costruendo anche una “moral majority” centrata sui movimenti evangelici guidati dal telepredicatore Jerry Falwell, aveva indotto a passare dal partito democratico di Carter a quello repubblicano di Reagan negli anni ’80.
Questa parte della popolazione americana ha visto andare in frantumi le sue comunità locali (che sono diventate “left-behind places”) e i suoi modi di vita tradizionali negli ultimi decenni9. Ha vissuto sulla sua pelle la perdita di uno standard di vita relativamente sicuro, la svalutazione da parte della società del valore del proprio contributo e la crescita della propria alienazione per la mancanza di senso del proprio lavoro. A partire dagli anni ‘80 è stata la vittima principale dei processi deindustrializzazione, con la “razionalizzazione” e delocalizzazione delle aziende (verso sud o all’estero), la sostituzione del lavoro umano con nuove macchine automatizzate, la chiusura delle grandi miniere di carbone e di altre attività produttive ad alto impatto ambientale, la desertificazione del piccolo commercio dovuta alla proliferazione dei megacentri commerciali Walmart e, infine, con gli effetti depressivi della crisi finanziaria del subprime. La combinazione del possesso di bassi livelli di competenze digitali (in gran parte conseguenza dei tagli all’istruzione superiore da parte delle amministrazioni statali) e degli elevati prezzi delle case nelle grandi aree metropolitane (mentre nelle aree rurali e deindustrializzate sono crollati o hanno ristagnato) ne hanno frenato la mobilità geografica verso le aree in maggiore crescita occupazionale ed economica. Inoltre, molti dei “left-behind places” lo sono diventati perché non hanno avuto accesso a capitale, investimenti pubblici, moderne infrastrutture di trasporto e rete a banda larga che avrebbero potuto creare nuove opportunità economiche in loco.
Infine, questa parte della popolazione bianca americana è divenuta intollerante all’egemonia culturale del politically correct dei tecnocrati e delle élites intellettuali delle università e grandi media tradizionali mainstream (NBC News, CNN e New York Times, etc.) che negli ultimi due decenni si era estesa nella convinzione che la denotazione non rispecchia, ma crea la realtà e aveva normalizzato il “diverso” – messicano, asiatico, latinoamericano, afro-americano, musulmano, femminista, gay o transgender. Gruppi che sono portatori di valori culturali, modi di vita ed interessi che la classe lavoratrice bianca considera quasi del tutto estranei ed antagonisti ai propri che enfatizzano famiglia e comunità tradizionali. Un processo che ha raggiunto l’apice dell’intollerabilità con l’elezione alla Casa Bianca del figlio di colore di un keniota e il cui secondo nome era Hussein. Non a caso, per screditarne la legittimità, la corrente più apertamente razzista del panorama politico americano – il birtherism –, cavalcata dal Tea Party, ha sostenuto che sarebbe nato in Africa e non alle Hawaii, oltre ad essere un musulmano “coperto”. Una tesi sposata da Trump sin dalle sue prime fasi.
I flussi migratori dai Paesi delle aree africana, medio orientale e centro americana vengono raccontati come un fenomeno incontrollabile che, potenzialmente, potrebbe spostare milioni di persone dall’emisfero sud a quello nord. Gli immigrati poveri da Paesi poveri non-occidentali (quelli che dispregiativamente Trump ha definito “shithole countries”) “mettono in pericolo la razza bianca”.
Una strategia politica populista xenofoba e razzista che rimanda al famoso discorso del 20 aprile 1968 a Birmingham del deputato conservatore inglese e ministro ombra della Difesa, Enoch Powell, uno dei primi neoliberisti ed euroscettici, passato alla storia come il discorso dei “fiumi di sangue” (“rivers of blood”), in cui affermava che “tra 15 o 20 anni l’uomo di colore avrà la frusta in mano [per usarla] sull’uomo bianco“. Powell intendeva contrastare le leggi contro le discriminazioni razziali proposte dal partito laburista, impressionando l’opinione pubblica con lo spettro di un’immigrazione senza freni nei Paesi del Commonwealth (in effetti ottenne il 74% di supporto nei sondaggi, ma venne esiliato dal partito conservatore). D’altra parte, nel 1977 Powell si lamentava anche che le leggi introdotte dall’adesione al mercato comune significavano che presto gli inglesi “non avrebbero [avuto] più nulla per cui morire … Il patriottismo è avere una nazione per cui morire ed essere felice di morire per essa – tutti i giorni della propria vita”. In Europa, ad eccezione dei movimenti olandesi e tedeschi, sostenitori del liberismo economico, questa posizione non è legata alla denuncia, ma alla difesa dello stato sociale, minacciato a loro avviso dall’arrivo dei migranti – una tesi sostenuta dai movimenti populisti nazionalisti di estrema destra in Francia, Danimarca, Svezia, Finlandia e Italia.
Diritti civili e welfare state negli Stati Uniti
Negli anni ’60 del secolo scorso è via via cresciuto un generalizzato scontento nelle diverse società nazionali dei Paesi a capitalismo avanzato che si è manifestato attraverso movimenti sociali di contestazione e una radicalizzazione del mondo sindacale (con ondate di scioperi, rivendicazioni salariali, messa in discussione dell’organizzazione tayloristica del lavoro), politico (di protesta civile, di rivolta anche violenta, armata e terroristica) e socio-culturale (con la critica alla “ideologia del consumo”, al consumismo e all’affluent society, alle “contraddizioni culturali del capitalismo”, alle disuguaglianze e alla povertà, all’estetica e alla cultura del modernismo, alla de-umanizzazione, alla società tecnocratica, al potere delle multinazionali, alla burocratizzazione della vita, alle discriminazioni razziali e di genere, all’autoritarismo, alla guerra e al militarismo, ai limiti dello sviluppo e all’eccesso di democrazia), da parte dei “movimenti sociali degli anni ‘60” che hanno visto la mobilitazione sia dei beneficiari del Fordismo (i capitalisti, le classi medie e i lavoratori sindacalizzati dei settori produttivi centrali oligopolistici) sia degli esclusi (i lavoratori dei settori periferici competitivi, i lavoratori agricoli, i giovani, gli studenti, le donne, le minoranze, i migranti, etc.). Sotto la superficie dell’economia di piena occupazione creata dalla guerra del Vietnam, i centri industriali americani sono stati investiti da successive ondate di conflitti sociali e, come ha scritto Philip Roth nel suo capolavoro “Pastorale Americana” (1997), “indigenous American berserk”, l’America è andata fuori di testa.
Alla fine dell’estate del 1964 sono scoppiati disordini nei quartieri della classe lavoratrice afroamericana di New York (Harlem), Rochester e Philadelphia. Il quartiere Watts di Los Angeles e quello di Hunters Point a San Francisco seguirono nel 1965 e nel 1966. Nell’estate del 1967 le agitazioni sociali devastarono oltre 150 città (tra cui Newark, Detroit, Washington DC).
Non a caso, Martin Luther King Jr. aveva progressivamente sposato un socialismo democratico caratterizzato dall’insistenza sulla redistribuzione del benessere all’interno della società, arrivando a descrivere il capitalismo come “socialismo per i ricchi e una rude libera impresa per i poveri“. Nel suo ultimo anno di vita, i due progetti che lo hanno galvanizzato erano focalizzati sulla giustizia sociale ed economica: la Poor People’s Campaign e il suo sostegno allo sciopero dei lavoratori della sanità di Memphis, nel Tennessee, che lo ha portato ad essere assassinato in quella città dal suprematista bianco James Earl Ray nell’aprile 1968.
Ai lavoratori in sciopero, King aveva detto: “Non dimenticate mai che la libertà non è qualcosa che viene volontariamente concessa dall’oppressore. È qualcosa che deve essere richiesto dagli oppressi. […] Se otterremo l’uguaglianza, se otterremo adeguati salari, dovremo lottare per questo. Ora sapete cosa? Potrebbe essere necessario intensificare un po’ la lotta […] ci vuole un’interruzione generale del lavoro nella città di Memphis.” Con la campagna per i poveri, King sperava di riprendere la sua trionfale Marcia su Washington del 1963 (nella quale aveva fatto il suo discorso iconico sul “sogno”), portando migliaia di poveri nella capitale per chiedere una “radicale ridistribuzione del potere economico e politico” perché “i mali del razzismo, dello sfruttamento economico e del militarismo sono tutti collegati” e “l’intera struttura della vita americana deve essere cambiata.”
Un anno di assassinii (Martin Luther King Jr. e Robert F. Kennedy), rivolte e guerre, il 1968 fu l’anno che cambiò l’America (ma anche l’Europa), e parte di quel dramma si è svolto nelle notti estive di Chicago quando nelle strade e nel Grant Park è scorso il sangue e la polizia ha orchestrato una rivolta mentre i manifestanti contro la guerra cercavano di marciare pacificamente verso la Convenzione Nazionale Democratica chiedendo la fine della guerra in Vietnam. Dopo quattro giorni e quattro notti di violenze, 668 persone sono state arrestate, un migliaio di manifestanti e 192 agenti di polizia sono rimasti feriti. Le immagini di poliziotti che sparavano gas lacrimogeni e picchiavano ferocemente con i loro manganelli 8-10 mila studenti universitari bianchi di ceto medio-alto che protestavano pacificamente sono state trasmesse dai notiziari delle reti televisive, offrendo agli americani la visione di una nazione che si stava lacerando in una situazione divenuta apparentemente fuori controllo. Gruppi rivoluzionari tra cui The Weathermen e una fazione guidata da Sam Melville commisero 4.330 bombardamenti contro edifici federali e grandi imprese, uccidendo 43 persone tra gennaio 1969 e il massacro di 4 studenti bianchi da parte della guardia civile nel corso di una manifestazione contro la guerra in Vietnam alla Kent State University (4 maggio 1970). Se in questa lista di disordini civili si includono le dispute per il lavoro che hanno coinvolto più di mille lavoratori, non si può dire che l’ordine sia tornato nei centri urbani americani fino alla metà degli anni ’70.
Dopo i disordini urbani degli anni ’60, a fine luglio del 1967 il presidente Johnson incaricò la Commissione consultiva nazionale sui disordini civili – generalmente nota come la Commissione Kerner (presieduta da Otto Kerner, governatore dell’Illinois) – di studiare le cause delle rivolte e proporre soluzioni. Il rapporto Kerner, pubblicato nel marzo 1968, sosteneva che le rivolte erano causate in gran parte dalle condizioni di vita in quartieri poveri e dalle limitate opzioni di lavoro che affliggevano i neri americani come conseguenza del razzismo e della discriminazione dilagante nei mercati degli alloggi e del lavoro. Questi fattori erano considerati essere alla base dello sviluppo e della persistenza dei “ghetti” neri delle aree urbane del nord, dove i residenti avevano subito un’estrema segregazione, limitate scelte abitative, concentrazione della povertà e scuole di bassa qualità. Sebbene gli autori del Kerner Report credessero nella piena integrazione come soluzione a lungo termine, hanno sostenuto che un aiuto più immediato era possibile attraverso investimenti governativi su larga scala mirati a programmi di alloggio, istruzione, occupazione e assicurazione sociale più solidi. Senza un’azione immediata, tuttavia, avevano previsto che i disordini sarebbero continuati.
Uno scontento diffuso ed aperto che sul piano economico, in presenza di una riduzione dei ritmi di crescita, ha spinto il governo americano e quelli degli altri Paesi occidentali a cercare di mantenere il consenso sociale ed elettorale, oltre che con politiche repressive (“law and order”) e la mobilitazione della “maggioranza silenziosa” che hanno spostato a destra l’asse politico (durante l’amministrazione Nixon, dal 1969 al 1974), attraverso una espansione parossistica delle politiche macroeconomiche keynesiane di deficit spending, determinando nel giro di pochi anni le cosiddette “crisi finanziarie degli Stati” e alimentando le spinte inflazionistiche. Come minimo lo Stato ha dovuto cercare di garantire politiche redistributive o un qualche tipo di salario sociale per tutti, impegnarsi in azioni legali per cercare di porre rimedio a discriminazioni e disuguaglianze, affrontare i problemi dell’impoverimento relativo e della mancanza di inclusione delle minoranze.
Si pensi, ad esempio, ai programmi di ampio riformismo “neoroosveltiano” della “Great Society” e della “War on Poverty” lanciati nel 1964 dal presidente Lyndon B. Johnson, insieme con i finanziamenti alle scuole elementari e all’istruzione superiore e con il Civil Rights Act, che ha bandito la discriminazione nell’istruzione, nel lavoro e negli alloggi pubblici. Nel 1965 vennero poi istituiti i programmi Medicare per gli anziani over 65 e Medicaid per i poveri e approvato il Voting Rights Act, mentre il Fair Housing Act, venne approvato, seppure a fatica, nell’aprile del 1968. In questi quattro anni sono stati istituiti anche i programmi Head Start, Food Stamps, Model Cities, Community Action Program, e venne elevato il salario minimo e potenziata la copertura del Social Security.
La Grande Società auspicata da Johnson avrebbe dovuto fare leva su una combinazione di crescita economica, affermazione della giustizia sociale e libero sviluppo della personalità. Gli anni dell’amministrazione Johnson sono stati interpretati da molti influenti osservatori-partecipanti – come l’economista John Kenneth Galbraith e il senatore Edmund Muskie – come l’inizio di un’era socialdemocratica di prosperità agiata in un Paese diventato sempre più inclusivo. Nel 1960 la spesa per la politica estera (comprensiva delle spesa militare) rappresentava il 53,7% del budget federale USA e la spesa sociale il 22,3%, mentre nel 1974 agli affari esteri andava il 33% e alla spesa sociale il 31%. Sempre di più la legittimazione del potere dello Stato e del governo è dipesa dalla sua capacità di redistribuire a tutti i benefici del Fordismo e di trovare i modi di offrire su grande scala, ma in maniera umana e sollecita, un adeguato servizio sanitario, una casa e un servizio scolastico-formativo. Gli insuccessi qualitativi hanno causato innumerevoli critiche, ma alla fine è stato il fallimento quantitativo a provocare i problemi più seri. L’incapacità di fornire dei beni collettivi in modo adeguato è dipesa dalla scarsa accelerazione o stagnazione della produttività del lavoro nel settore delle imprese (industriali e dei servizi) che non ha consentito al welfare state keynesiano di rimanere sostenibile e vitale sul piano finanziario/fiscale.
Poi, a partire dalla fine degli anni ’70 e dai primi anni ’80, è arrivata la svolta politico-ideologica neoliberista, per cui i programmi pubblici di welfare sono stati via via messi in discussione, ridotti, smantellati o privatizzati, non solo perché considerati troppo costosi, ma anche troppo illiberali, burocratizzanti, inefficienti, paternalisti, assistenzialisti, deresponsabilizzanti e passivizzanti (lo “Stato mamma” o lo “Stato di Babbo Natale” e la “protezione dalla culla alla tomba”). Thatcherismo e reaganismo sostenevano che i servizi e i sussidi ai poveri e ai disoccupati governativi erano uno spreco e riducevano gli incentivi a lavorare, produrre, competere e investire. In sostanza, inibivano il buon operare del mercato e la competitività delle imprese, riducendo la motivazione a fornire servizi da parte delle imprese e il desiderio di lavorare da parte delle persone comuni. Pertanto, la durezza, anche il dolore, devono svolgere un’importante funzione pedagogica, morale e psicologica nello spingere le persone a combattere i vizi dell’ozio e dell’edonismo, ad adattarsi, a trovare soluzioni ai loro problemi, ad accettare un lavoro (anche se degradante) e ad innovare. In pratica, ciò può significare che le persone debbono essere sottoposte ad ogni sorta di “prove”: migrazione, riqualificazione professionale, avviamento al lavoro, sacrificio dei fine settimana o del tempo dedicato alla famiglia, vendita di proprietà, “gig economy” e così via.
In questo modo si mettono gli individui in perenne concorrenza tra di loro, in perenne lotta per la sopravvivenza, creando riflessi di sfiducia e calcolo verso gli altri. Nella società neoliberista del calcolo, ad esempio, il disoccupato è portato a guardare il migrante come un concorrente e non come qualcuno con cui c’è qualcosa da condividere. Come sostiene Abdelmalek Sayad in L’immigrazione o i paradossi dell’alterità (Ombre Corte, Verona, 2008), il migrante, lo straniero, il profugo, il “clandestino”, così come la persona povera e fragile, lo scartato, è il portatore della cattiva notizia, è lo specchio in cui vedere la propria insicurezza, la sfiducia in un avvenire migliore per i propri figli, la fragilità della propria esistenza e la precarietà del proprio status sociale con cui non si riesce e vuole fare i conti.
Negli Stati Uniti una componente particolarmente colpita da questo cambio di paradigma è stata la popolazione afro-americana. A partire dalla metà degli anni ’60 era emersa e diventata egemone una narrazione che giustificava l’emarginazione della popolazione afro-americana come risultato di una “cultura della povertà”. Una narrazione culturologica liberal-progressista nata a seguito delle ricerche sul campo di un gruppo di giovani antropologi guidati da Oscar Lewis. Influenzato da queste ricerche, Daniel Patrick Moynihan, il sottosegretario al Lavoro di Lyndon B. Johnson, scrisse un libro molto influente “The negro family: the case for national action” nel 1965, conosciuto anche come il “Moynihan Report”.
Generazioni di analisti sociali di destra avevano interpretato la disuguaglianza razziale solamente come il riflesso della inerente inferiorità delle persone di colore. Moynihan, invece, era un democratico progressista che riconosceva la persistenza del razzismo e riteneva che le radici della disuguaglianza razziale fossero materiali. Ma, l’eredità di “tre secoli di un maltrattamento spesso inimmaginabile” aveva creato una cultura della povertà che doveva essere affrontata in modo che la legislazione per i diritti civili e la guerra combattuta contro la povertà potessero effettivamente migliorare le condizioni di vita degli afroamericani. Il suo ragionamento era che se ai neri poveri si fossero “dati” solamente denaro e servizi non si sarebbe ottenuto l’effetto desiderato di una loro piena integrazione nella “American way of life”.
La tesi di Moynihan che la dissolutezza morale delle strutture familiari afroamericane (in particolare, del modello della “madre singola”) rinforzava la povertà della popolazione nera divenne egemone. Le spiegazioni biologiche delle disparità razziali divennero tabù, ma affermare che i neri poveri erano le vittime di una cultura della povertà, era come affermare che i neri poveri che non erano in grado di uscire dalla cultura della povertà, erano responsabili delle loro condizioni precarie e moralmente degradate, e quindi non meritavano l’aiuto dello Stato. Questo è quanto sostenne Ronald Reagan (e anche Moynihan, nel frattempo divenuto un neoconservatore sostenitore prima di Nixon e poi, da senatore, del reaganismo), con i suoi aneddoti sulle “regine del welfare” che vivevano alle spalle dell’assistenza governativa e si rifiutavano di lavorare.
Bill Clinton ha continuato su questa strada, promettendo di “terminare il welfare come lo conosciamo”, e una volta eletto presidente fu quello che fece, introducendo su larga scala politiche punitive e degradanti basate sul cosiddetto “welfare to work” o “workfare”, invece di puntare su un welfare state efficiente, ben finanziato e universale. Un approccio al tema della povertà che ha avuto come precedente storico l’introduzione delle New Poor Laws o Poor Law Reform Act (1834) nel Regno Unito che aveva portato all’abolizione di ogni opera caritativa (fortemente voluta dalla regina Elisabetta I nel 1603) e alla creazione di workhouses, istituzioni totalizzanti che combinavano disciplina e lavoro, destinate ai “poveri non meritevoli”, ma abili al lavoro. Le workhouses erano lo strumento che doveva motivare i contadini ad abbandonare i loro terreni ai quali erano legati da secoli, tramite forme di sottomissione al lavoro sempre più estenuanti e massacranti, e permettere loro di accedere ad un salario dignitoso, per trasferirsi in città, dove erano presenti maggiori opportunità economiche e lavorative. I poveri “oziosi”, che si opponevano al lavoro coatto, venivano invece reclusi in case di correzione10.
I sempre maggiori tagli pubblici e privati al welfare sono stati realizzati mentre milioni di donne hanno cercato di entrare nel mercato del lavoro con l’obiettivo di emanciparsi, sostenere il reddito delle loro famiglie (il cosiddetto “doppio reddito familiare”) e acquisire o mantenere gli standard di vita della classe media o sopravvivere dignitosamente come single mothers (molte delle quali sono afroamericane). Negli Stati Uniti, ad esempio, dal 1960 al 2012, la percentuale di famiglie a doppio reddito con minori di 18 anni è passata dal 25% al 60%. La progressiva precarizzazione del lavoro, l’erosione dei diritti e dei salari reali dei lavoratori, la necessità di dover svolgere più lavori contemporaneamente sono fattori che hanno ridotto il tempo che le donne sono in grado di dedicare al lavoro di cura e alla famiglia. Il lavoro domestico, compresa l’assistenza all’infanzia, costituisce un’enorme quantità di produzione socialmente necessaria, ma in una società basata sulla produzione di merci di solito non è considerato un “vero lavoro” poiché è al di fuori del commercio, del mercato e del lavoro salariato. D’altra parte, è importante tenere presente che se sei una donna e vuoi essere alla pari con gli uomini, è meglio vivere e lavorare in Finlandia, Belgio, Danimarca, Francia, Lettonia, Lussemburgo o Svezia, gli unici Paesi al mondo a sancire l’uguaglianza di genere nelle loro leggi.
L’effetto dei tagli alle spese e ai servizi sociali da parte dei governi, dunque, è stato lo scaricamento del peso del lavoro di cura sulle donne, sulle famiglie, sulle comunità e sulle municipalità locali, allorquando è progressivamente diminuita la loro capacità di svolgerlo in modo adeguato. Questo ha portato ad una generalizzata crisi della riproduzione sociale (testimoniata dal crollo degli indici di natalità in tutti i Paesi ricchi) e ad una nuova organizzazione dualistica della stessa riproduzione sociale, mercificata per coloro che possono permetterselo e privatizzata per quanti non possono farlo. Alcune componenti femminili della seconda categoria (oltre a donne immigrate dai Paesi poveri) forniscono lavoro riproduttivo e di cura per coloro che appartengono alla prima in cambio di (bassi) salari (molto spesso senza benefits, ferie pagate o congedi per malattia e senza il sostegno di un sindacato) o sono impiegate nell’assistenza sanitaria, il settore del lavoro in più rapida crescita in un Paese come gli Stati Uniti.
A distanza di circa 40 anni dalla svolta neoliberista, Peyton Gendron, il giovane 18enne bianco armato con un fucile d’assalto a caccia di afroamericani ha scelto di portare a termine il suo attacco nell’East Side di Buffalo a causa della sua alta concentrazione di residenti neri. Un’area urbana che è diventata così come risultato diretto di decenni di segregazione e razzismo sistemico. Un’analisi dell’Università del Michigan ha rilevato che l’area metropolitana di Buffalo-Niagara Falls è la sesta più segregata d’America, mentre un rapporto dell’Università di Buffalo nel 2021 ha rilevato che le condizioni di vita dei residenti neri della città, in termini di salute, alloggio, reddito e istruzione, erano migliorate di poco e in alcuni casi erano peggiorate negli ultimi 30 anni. La segregazione è anche la causa principale, secondo gli esperti, del motivo per cui gli sforzi per portare una rinascita economica a Buffalo hanno fatto ben poco per i residenti neri.
L’enfatizzazione del pericolo per l’ordine pubblico e, quindi, la criminalizzazione dei poveri, delle minoranze e dei migranti attraverso l’azione repressiva dello Stato contribuisce a celare le contraddizioni sulle quali si sostiene il sistema economico americano, quali la precarietà lavorativa, la disuguaglianza economica, l’individualizzazione del rischio e la mancanza di solidarietà sociale. In questo modo, non solo viene disinnescato il potenziale di protesta politica presente in questi gruppi, ma viene costruita una rappresentazione politico-culturale che trasforma i bisogni che nascono da questioni sociali in problemi securitari, ossia da affrontare attraverso metodi e strumenti repressivi di ordine pubblico (“law and order”), come denunciato dal movimento antirazzista Black Lives Matter nato nel luglio 2013 a seguito dello stillicidio di abusi e di uccisioni di giovani neri da parte delle forze di polizia rimasti impuniti.
L’uccisione per soffocamento del 46enne afroamericano George Floyd durante il suo arresto a Minneapolis il 25 maggio 2020, in piena pandemia CoVid-19, con oltre 100 mila morti e circa 40 milioni di nuovi disoccupati (soprattutto afroamericani ed ispanici), ha innescato proteste, rivolte, saccheggi, violenze (con arresti, feriti e morti) in almeno 350 città, da New York a Los Angeles. L’America si è trovata a dover affrontare insieme alla più grande crisi di salute pubblica in un secolo, la peggiore recessione economica da generazioni e il più grande disordine civile dagli anni ’60. La segregazione razziale rimane la caratteristica distintiva di molte città degli Stati Uniti; i neri affrontano una disoccupazione più alta e salari più bassi; enormi disparità di ricchezza e di accesso ai servizi educativi, sanitari e sociali persistono a livelli prossimi a quelli descritti dal Kerner Report nel 1968. Sempre più bianchi e neri tendono a vivere separati nelle scuole, nei quartieri, nel lavoro, nel tempo libero.
Il massacro razzista nel supermercato di Buffalo è l’ultimo episodio di una preoccupante ascesa di violenza contro gli afroamericani, costruita su storiche faglie razziali e un clima sociale polarizzato. Nel 2020, anno segnato dalla pandemia, dall’omicidio di George Floyd e dal movimento per la giustizia sociale Black Lives Matter che protestava contro la violenza della polizia e il razzismo, l’FBI ha rilevato un’ondata di crimini ispirati dall’odio contro gli afroamericani. Circa il 64,9% degli 8.052 crimini d’odio denunciati quell’anno erano basati su pregiudizi di razza, etnia o discendenza, secondo l’FBI. All’interno di quella categoria, i neri americani costituivano più della metà delle vittime, con un forte incremento anche degli asiatici. Gli esperti che tengono traccia dei dati avvertono che i numeri federali sono incompleti11 e che parte di quel picco potrebbe essere il risultato di una maggiore consapevolezza e maggiore disponibilità a denunciare tali crimini. Eppure dicono che l’attenzione alla giustizia sociale stessa potrebbe aver stimolato più violenza nei confronti dei neri americani. L’anno 2020 ha cambiato in qualche modo la traiettoria del pregiudizio per riconcentrarsi sui neri americani, in parte a causa delle proteste per la giustizia sociale in seguito all’omicidio di George Floyd.
Sebbene le statistiche nazionali sui crimini ispirati dall’odio per il 2021 non siano state ancora pubblicate, gli esperti di crimini ispirati dall’odio affermano che l’assalto ai neri americani e alle istituzioni è continuato: circa un terzo dei college e delle università storicamente neri della nazione sono stati presi di mira con minacce di bombe, insieme a più di una dozzina di luoghi di culto e altre istituzioni religiose e accademiche, secondo l’FBI. La violenza di matrice razzista è tornata al centro della scena a febbraio, quando tre uomini bianchi della Georgia sono stati condannati per crimini d’odio federali che avevano inseguito e ucciso Ahmaud Arbery perché era afroamericano. Il processo si è distinto per il suo esame del puro razzismo.
Alessandro Scassellati
- Non a caso, il 12 ottobre, il giorno in cui nel 1492 Colombo ha “scoperto l’America”, nell’America Latina i discendenti bianchi dei colonizzatori europei festeggiano la festa della Hispanidad come parte essenziale della propria identità culturale e del proprio “patrimonio storico“, mentre i mestizos e soprattutto le popolazioni indigene, discendenti dirette delle grandi civiltà Maya, Azteca, Inca, etc., sopravvissute al massacro plurisecolare, festeggiano la “Giornata della resistenza indigena” e considerano Colombo e tutti gli europei venuti dopo di lui come degli “invasori”. Colombo guidò diverse spedizioni finanziate dalla Spagna dal 1492 in poi, aprendo la strada alla conquista europea delle Americhe. Un certo numero di statue in onore del navigatore italiano sono state rimosse dalle città degli Stati Uniti dopo le proteste del movimento Black Lives Matter, così come in altri Paesi. Nella capitale del Messico, è stato deciso di mettere sulla via principale della città una replica di una scultura preispanica raffigurante una donna indigena, soprannominata “la giovane donna di Amajac“, al posto di una statua in bronzo di Colombo del XIX secolo che era stata rimossa nel 2020. Anche l’Australia Day, la festa nazionale del Paese che commemora l’arrivo della “prima flotta” di navi britanniche nel porto di Sydney il 26 gennaio 1788 (trasportando principalmente detenuti e truppe dalla Gran Bretagna), segnando l’inizio dell’immigrazione europea in Australia, trascura una cosa: per gli aborigeni il giorno segna l’inizio di una “invasione” e della cancellazione di 50-65 mila anni della loro storia (i popoli indigeni australiani sono la più antica civiltà ininterrotta al mondo).[↩]
- Il complesso modello delle piantagioni con gli schiavi che avrebbe guidato la creazione di ricchezza nel Nord Atlantico per quattro secoli è stato messo a punto per la prima volta dai portoghesi nell’isola di São Tomé nel Golfo di Guinea. Quando venne scoperta dai portoghesi intorno al 1470, l’isola era effettivamente disabitata.[↩]
- Si veda il capolavoro di Mintz S., Sweetness and power. The place of sugar in modern history, Penguin Books, New York, NY, 1986.[↩]
- Le statistiche mostrano che, fino al 1820, la Cina era la principale economia mondiale. A partire dalla fine del ‘700, i britannici cominciarono ad esportare enormi quantità di oppio in Cina dalle piantagioni dell’India, trasformando milioni di cinesi in tossicodipendenti. L’imperatore cinese cercò di risolvere il problema vietando l’importazione dell’oppio, e i britannici (insieme ad altre forze occidentali) intervennero militarmente. Il risultato fu catastrofico: in breve tempo l’economia cinese si dimezzò.[↩]
- Rosa Luxemburg, nel suo libro L’accumulazione del capitale (1913), si è concentrata sulle limitazioni dei mercati domestici e ha identificato la causa reale della crisi capitalista non nella tendenza alla caduta del tasso di profitto né nell’accumulazione di capitale senza opportunità di investimento, ma nella tendenza del sistema di produrre più merci di quante il potere d’acquisto sia in grado di assorbire (un problema di sottoconsumo o di sovrapproduzione). Ha cercato di dimostrare che da solo il capitalismo non può generare una domanda sufficiente per una parte del suo prodotto, in particolare la porzione di surplus destinata ad essere capitalizzata. Pertanto riteneva che il capitalismo potesse espandersi solo attraverso “un allargamento della domanda solvibile di merci”, estendendo i suoi mercati, esportando la sua popolazione in eccesso nelle colonie, distruggendo le produzioni tradizionali locali su piccola scala e vendendo merci “a strati sociali o società che non producono capitalisticamente” (ad esempio, ai contadini e alle popolazioni indigene dei possedimenti coloniali) che, al tempo stesso, erano destinate anche a fornire la manodopera necessaria e i mezzi di produzione per l’accumulazione di capitale. Per Luxembrurg, l’espansione del capitale può continuare solo se esiste un luogo, ai margini o al di fuori della dinamica del capitalismo, dal quale l’accumulazione può nutrirsi attraverso le pratiche di appropriazione ed espropriazione violente di tipo coloniale ed imperialista. Quando questi margini, queste periferie sarebbero state totalmente assorbite e non fosse rimasto altro posto in cui andare, questo avrebbe segnato la fine del capitalismo. La Luxemburg ha evidenziato la tendenza del modo di produzione capitalistico di espandersi altrove in cerca di nuove materie prime e in cerca di lavoro a basso costo per trasformarle. Inoltre, le sue ricostruzioni empiriche – le storie della colonizzazione inglese dell’India, delle Guerre dell’Oppio tra Inghilterra e Cina (1839-42 e 1856-60), della penetrazione francese in Algeria, della trasformazione dell’agricoltura negli Stati Uniti, dei complessi rapporti finanziari che all’epoca legavano l’Inghilterra all’Egitto e la Germania alla Turchia – sono piene di esempi che mostrano che tale controllo su materie prime e forza lavoro era frequentemente ottenuto con la forza attraverso l’espropriazione, lo sfruttamento, il saccheggio, la frode, la riduzione in schiavitù, la conquista militare e l’omicidio in patria e all’estero, che la forza veniva anche impiegata per far comprare alle popolazioni lavoratrici le merci prodotte altrove, e che quindi l’espansione del modo di produzione capitalistico all’estero spesso richiedeva l’installazione di processi di dominio su modi di produzione non capitalistici. La Luxemburg ha dedicato anche un intero capitolo ai prestiti internazionali per mostrare come i grandi poteri capitalisti dell’epoca usavano i crediti concessi dai loro banchieri ai Paesi periferici per esercitare il dominio economico, militare e politico. La Luxemburg è stata un precursore degli approcci che rigettano un focus sullo Stato-nazione capitalista come fenomeno isolato e che invece enfatizzano relazioni di “sviluppo ineguale” tra centro capitalista e periferia dominata e che sono poi stati sviluppati da un gruppo di studiosi compositi – economisti, sociologi, geografi e antropologi – che tra gli anni ‘60 e gli anni ‘90 del ‘900 innovarono profondamente l’analisi marxiana del capitalismo mondiale. Studiosi come Samir Amin, Giovanni Arrighi, Paul Baran, Andre Gunder Frank, David Harvey, Therence Hopkins, Sidney Mintz, Immanuel Wallerstein ed Eric Wolf.[↩]
- Come spiega Laleh Khalili in un articolo nella London Review of Books, l’economia coloniale estrattiva non è mai finita. Continua, ad esempio, attraverso multinazionali e commercianti di materie prime che lavorano con cleptocrati e oligarchi, appropriandosi delle risorse dei Paesi poveri senza pagarle quello che realmente valgono, con l’aiuto di strumenti intelligenti come “prezzi di trasferimento” intra-aziendale (in cui diverse parti di un’impresa si vendono reciprocamente input in modo che la sede fiscale possa segnalare una perdita), inversioni abilitate dallo Stato (dove un’azienda riduce la sua tassa cambiando la sua nazionalità) e la tassazione “sandwich” (dove le aziende possono spostare le royalty offshore attraverso Paesi che non hanno ritenute alla fonte). Persiste attraverso l’uso di paradisi fiscali offshore e regimi di segretezza da parte di élite corrotte, che drenano la ricchezza della loro nazione e la ri-incanalano in “fondi onshore“, la cui vera proprietà è nascosta da società anonime di comodo offshore. Il saccheggio e la distruzione da parte del capitalismo infuria ancora in tutto il mondo, bruciando persone, foreste e altri sistemi ecologici. Sebbene il denaro che accende il fuoco distruttore possa essere nascosto, si può vederlo incenerire ogni territorio che possiede ancora ricchezze naturali non sfruttate: l’Amazzonia, l’Africa occidentale, la Papua occidentale. Quando il capitale esaurisce il pianeta da bruciare, rivolge la sua attenzione al fondo dell’oceano profondo e inizia a speculare sullo spostamento nello spazio. I saccheggi e i disastri ecologici locali iniziati con le ondate coloniali ora si stanno fondendo in uno disastro globale. Tutti noi siamo reclutati sia come consumatori che come consumati, distruggendo i nostri sistemi di supporto vitale per conto di oligarchi che tengono i loro soldi e la loro moralità altrove, nei conti bancari e nelle società anonime parcheggiate nei paradisi fiscali. Quando vediamo accadere le stesse cose in luoghi a migliaia di chilometri di distanza, dovremmo smettere di trattarli come fenomeni isolati e riconoscere l’esistenza di uno schema. Tutti i discorsi sul capitalismo “addomesticato“, sul capitalismo “riformato“, sul capitalismo “coscienzioso” e “responsabile”, e sul capitalismo “verde” dipendono da un’idea sbagliata di cosa sia il capitalismo. Il vero volto del capitalismo è ciò che vediamo nelle rivelazioni sui conti bancari offshore nei paradisi fiscali e nella distruzione ecologica del pianeta. La forza trainante del capitalismo è sempre la stessa: massimizzare il ritorno dell’investimento. Un obiettivo perseguito in modo incessante, indipendentemente dalle conseguenze umane o ambientali. E neanche la morte del pianeta pare essere una motivazione sufficiente per riuscire ad imporre il suo radicale cambiamento.[↩]
- Si vedano Lee E., America for americans. A history of xenophobia in the United States, Basic Books, New York, NY, 2019 e Denvir D., All-american nativism. How the bipartisan war on immigration explains politics as we know it, Verso, New York, NY, 2020.[↩]
- Si veda Okrent D., The guarded gate. Bigotry, eugenics, and the law that kept two generations of jews, italians, and other European immigrants out of America, Scribner, New York, NY, 2019.[↩]
- Si vedano Smarsh S., Heartland. A memoir of working hard and being broke in the richest country on earth, Scribner, New York, NY, 2018, e Vance J.D., Hillbilly Elegy. A memoir of a family and culture in crisis, Harper Collins Publishers, New York, 2016, versione italiana, Elegia Americana, Garzanti, Milano, 2017.[↩]
- Su questo tema si vedano Thompson E.P. The making of the English working class, Vintage Books, New York, NY, 1963, ma anche Polanyi K., La grande trasformazione. Le origini politiche ed economiche del nostro tempo, Einaudi, Torino, 1974, (1944).[↩]
- L’FBI pubblica annualmente una denuncia di crimini ispirati dall’odio, ma il sistema di monitoraggio federale non richiede alle agenzie di polizia di inviare dati e un numero significativo di vittime potrebbe non segnalare crimini di pregiudizio alla polizia. La sottostima crea un ritratto impreciso della portata dei crimini ispirati dall’odio a livello nazionale, ma il rapporto offre comunque un’utile fotografia delle tendenze generali. Negli ultimi anni, il Dipartimento di Giustizia ha incoraggiato le vittime a denunciare pregiudizi e ha reso prioritario il perseguimento dei crimini.[↩]