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I piccoli numeri del carcere

di Maria Pia
Calemme

Il prezioso lavoro dell’associazione Antigone che ogni anno costruisce un rapporto sul carcere in Italia, basato su dati dell’Ufficio statistico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), sulle proprie visite nelle prigioni e sugli sportelli all’interno di alcuni istituti, propone un’analisi puntuale delle caratteristiche e dei problemi della detenzione. Il XVIII rapporto, “Il carcere visto da dentro”1, presentato alla fine di aprile, parte come di consueto dai numeri macroscopici: numero di detenuti (54.609 a fine marzo 2022); andamento della popolazione (sostanzialmente in crescita costante negli ultimi 20 anni); tasso medio ufficiale di affollamento (oltre 107 detenuti per ogni 100 posti disponibili, con punte oltre il 160% in alcuni istituti); età della popolazione (55% di over 40, 9,5% di over 60); lunghezza delle pene (tra i presenti al 31/12/2021 il 50% dei detenuti aveva subito una condanna definitiva uguale o superiore a 5 anni e il 29% a 10 o più anni); vetustà delle strutture (il 39% di tutti gli istituti visitati nel 2021 è stato costruito prima del 1950 e il 26% prima del 1900); elevato numero di detenuti non condannati con sentenza definitiva (29,9%).

Ci sono poi altri numeri, più piccoli, sui quali vale la pena soffermarsi, in particolare quelli che riguardano i soggetti che non rientrano nella “normalità” del carcere, pensato per uomini adulti eterossessuali.

Le donne

A fine marzo le donne detenute erano 2.276, il 4,2% del totale, dato sostanzialmente costante negli ultimi 20 anni. Le donne sono in gran parte (3/4 del totale) ristrette in 46 sezioni femminili di altrettanti istituti maschili e gli unici istituti esclusivamente femminili sono 4 (Trani, Pozzuoli, Roma-Rebibbia e Venezia Giudecca), 3 dei quali risultano significativamente sovraffollati. Nello specifico, Trani registra un tasso di sovraffollamento del 140,6%, Pozzuoli del 139% e Rebibbia femminile del 123,5%.
Il numero più alto di donne detenute si trova nella regione Lazio (395), vista la presenza a Roma del carcere femminile più grande d’Europa. Seguono la Lombardia con 365 detenute e la Campania con 314. Essere donne in carcere, comunque, resta una condizione minoritaria e, come ha scritto Roberta Palmisano, all’epoca (2015) capo dell’ufficio studi del DAP nella “Scheda sulla detenzione femminile”2, “proprio perché le donne costituiscono una minoranza nell’ambito penitenziario i loro bisogni specifici sono spesso disattesi. Tradizionalmente le carceri sono progettate e costruite da uomini per contenere uomini, quindi secondo un modello che mal si adatta alle necessità emotive, familiari, sociali e sanitarie femminili […] Spesso sono ristrette in carceri che si trovano molto lontano dalle loro famiglie e comunità di riferimento, rendendo così difficili e onerosi i contatti con le loro famiglie. […] Le donne hanno una minore possibilità di accesso alle attività trattamentali. È una discriminazione involontaria dovuta al loro numero limitato e all’impossibilità di condividere con gli uomini le strutture”. Quella che il DAP definisce discriminazione involontaria è un vero e proprio paradosso: i piccoli numeri consentirebbero, infatti, una detenzione meno afflittiva, con la sperimentazione di un diverso trattamento interno e di una differente relazione con l’esterno.
E poiché un’ampia quota di donne sconta una pena inferiore a 3 anni, cioè è stata condannata per reati non gravi, per questa popolazione percorsi alternativi al carcere sarebbero ampiamente praticabili. Il tavolo “Donne e carcere” degli Stati generali dell’esecuzione penale3 ha insistito sulla prospettiva di “una consistente decarcerizzazione, la quale, per le donne e non solo, non può che partire da una forte depenalizzazione, nonché dalla previsione di pene alternative al carcere”. Questi percorsi sono in parte già praticati, contribuendo a mantenere basso il numero delle donne in carcere (in combinazione con il mancato aumento di reati commessi da donne). Al 15/3/22, secondo il rapporto di Antigone, 13.642 donne erano in carico al sistema di esecuzione penale esterna (11,7% del totale, in gran parte madri di figli minori). Solo il 19% delle donne in esecuzione penale esterna è di origine straniera, proveniente soprattutto da Paesi europei, mentre tra le donne in carcere le non cittadine italiane (provenienti principalmente da Romania e Nigeria) costituiscono oltre il 30%.

L’ordinamento penitenziario considera poco le donne e ne disciplina la carcerazione solo in due commi dell’articolo 11, che però fanno riferimento esclusivamente alla maternità4, come se questo fosse il solo elemento che fa differenza tra donne e uomini. La maternità è, ovviamente, un elemento non solo peculiare ma anche molto importante. In carcere, però, questo elemento si dilata a dismisura, fino a costituire una sorta di standard (quello della “buona madre”) al quale tutte le donne sono chiamate a conformarsi, laddove agli uomini sembra essere richiesto di ri-costruirsi come “buoni cittadini”. C’è un “eccesso materno”, come ha scritto Grazia Zuffa: “L’eccesso è riferito all’assoluta predominanza del discorso sulla maternità, da parte delle operatrici di diversa funzione in primo luogo, ma anche da parte delle detenute stesse”5. Al punto da far dire a una detenuta del carcere di Pozzuoli, intervistata da Antigone: “Per quella che è la mia esperienza, la commissione di un reato da parte di una donna è sempre legata alla famiglia e al bisogno di prendersi cura dei propri figli. Forse anche per questo, per il fatto di non avere figli, spesso mi sono sentita esclusa. Più volte mi è stato detto che il mio dolore non poteva essere paragonato a quello delle altre detenute perché io non avevo un compagno o dei figli ad aspettarmi fuori. Sono sempre stata circondata da donne che avevano figli, alcune di loro avevano poco più di vent’anni ed avevano già quattro o cinque figli. Non sono madre, è vero, ma comunque sono figlia e sento il dolore che prova mia madre. Come si può ritenere che la mia sofferenza conti di meno perché non sono madre?”6.

Ciò detto, c’è una particolare dimensione della maternità che merita di essere esplorata: quella delle “detenute con figli al seguito”7.

Bambini in carcere

Nel corso degli anni numerosi interventi legislativi hanno previsto misure alternative al carcere per le donne – e in alcuni casi anche per uomini – con figli minori. Il più recente, la legge 40 del 2001 (“Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori”), ha ampliato le condizioni di applicazione, elevando il limite di pena da scontare e l’età dei figli. Tuttavia le cause di esclusione (derivanti dalle “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza” per le persone in attesa di processo e dal richiamo ai reati ostativi dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario per chi ha subito una condanna) presenti in tutti i provvedimenti hanno, almeno in parte, vanificato l’efficacia delle norme, lasciando ancora un certo numero di bambini dietro le sbarre. Un numero piccolo ma, come ha affermato la ministra della Giustizia, anche solo un bambino ristretto è di troppo.

Secondo i dati forniti da Antigone, al 31/3/2022 in carcere vivevano 19 bambini di età inferiore ai 3 anni, in gran parte negli Istituti a custodia attenuata per madri detenute8. Gli ICAM sono in tutto 5 (San Vittore a Milano, la Giudecca a Venezia, Torino, Cagliari e Lauro in provincia di Avellino, che ospita 8 dei 19 bambini e che è l’unico indipendente da un istituto penitenziario).

Dal 2019 giace in Parlamento la proposta di legge Siani, che istituisce case-famiglia protette per condannate con figli piccoli e proibisce la custodia cautelare in carcere per donne incinte o madri di bambini di età non superiori a 6 anni. Di recente ha superato l’esame da parte della Commissione Giustizia della Camera, ma è molto improbabile che veda la luce in questa legislatura.

Ci sono poi altri minori in carcere, i “non innocenti”, ristretti negli istituti dedicati.

La detenzione minorile

In Italia ci sono 17 istituti penali minorili (IPM), in cui al 15/3/2022 erano detenuti 353 minorenni o giovani adulti9 (il 2,6% dei 13.699 ragazzi in carico complessivamente agli Uffici di servizio sociale per i minorenni). Di questi, 161 erano stranieri, ovvero oltre il 45% del totale, nonostante costituiscano solo il 22,5% dei ragazzi presi in carico dagli uffici di servizio sociale per i minorenni. Le ragazze in carcere erano 13, di cui 8 straniere. I minorenni erano 162, ovvero meno della metà del totale dei ragazzi reclusi10.

Agli IPM si aggiungono 637 comunità residenziali (pubbliche o, come nella quasi totalità, private) disponibili all’accoglienza di minori o giovani adulti sottoposti a provvedimenti penali. Di queste, solo tre – a Bologna, Catanzaro e Reggio Calabria – sono gestite direttamente dal Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia. Le altre 634, censite in un elenco semestralmente aggiornato, sono strutture private che vengono accreditate dal Ministero a svolgere questo compito11. Le misure penali di comunità, previste dal d.lgs. 121/201812, sono l’affidamento in prova al servizio sociale, l’affidamento in prova con detenzione domiciliare, la detenzione domiciliare, la semilibertà, l’affidamento in prova in casi particolari. Tali misure “sono disposte quando risultano idonee a favorire l’evoluzione positiva della personalità, un proficuo percorso educativo e di recupero, sempre che non vi sia il pericolo che il condannato si sottragga all’esecuzione o commetta altri reati”.
Al 15/1/2022 923 ragazzi sottoposti a misure penali erano ospitati da comunità (di cui 17 nelle tre comunità ministeriali). Di questi, 196 si trovavano in Lombardia, 125 in Campania, 120 in Sicilia (le 3 regioni con il maggior numero di comunità). I collocamenti in comunità riguardano principalmente i minorenni italiani che hanno compiuto reati contro il patrimonio. Solo un quinto dei collocamenti totali, infatti, riguarda i giovani adulti, che vengono invece più spesso inviati agli IPM (rappresentano oltre il 30% degli ingressi), così come, a fronte di circa un terzo di collocamenti in comunità, oltre il 44% degli ingressi in carcere riguarda ragazzi stranieri13. E questo nonostante il fatto che le misure di comunità diano la possibilità di accedere a misure penali che presuppongono un domicilio anche in mancanza di adeguati sostegni familiari (la motivazione con la quale gli stranieri adulti – e le donne straniere in generale, adulte e minori – vengono meno spesso avviati alle misure alternative al carcere). C’è di più: “È interessante notare come tendenzialmente la percentuale relativa a ragazzi stranieri sul totale sia degli ingressi in IPM che dei collocamenti in comunità sia superiore alla percentuale di ragazzi stranieri nella presenza media giornaliera in entrambe le tipologie di strutture. I ragazzi stranieri percentualmente entrano in questi servizi residenziali della giustizia minorile penale più di quanto vi permangano. Ciò fa pensare a un maggior livello di persecuzione dei ragazzi stranieri da parte del sistema penale anche a fronte di un basso spessore criminale, che porta a imporre misure penali, in sede cautelare o di esecuzione pena, pur di breve durata o a fronte di una scarsa pericolosità sociale” scrive Susanna Marietti14.

Omosex e transex

“Quando si parla di persone omosessuali e transgender in carcere, l’immaginario collettivo richiama al centro il tema della sicurezza: uscire dal tracciato sicuro dell’eterosessualità, dall’espressione convenzionale del proprio genere è un rischio concreto. Significa essere esposti alla prevaricazione e alla violenza virile ma anche a discriminazioni istituzionali. Questione di lunga data, con conseguenze profonde, che hanno a che fare con la dignità della persona e con i limiti ad essa imposti dalla condizione carceraria”15.
Questa considerazione riguarda, in realtà, quasi esclusivamente il carcere degli uomini. L’omosessualità femminile non fa problema, infatti, né in termini di sicurezza né di discriminazione (istituzionale e no): le donne omosessuali convivono con le compagne di detenzione eterossessuali generalmente senza problemi, se si fa eccezione per la mancanza di intimità che è parte integrante del carcere, soprattutto nelle situazioni di sovraffollamento. E non viene censita dall’amministrazione penitenziaria. La dichiarazione di essere omosessuale, per gli uomini, avviene per timore di aggressioni e il DAP traccia la condizione omosex basandola sulla necessità di allocare in condizioni di sicurezza gli omosessuali maschi. Quelli registrati dall’amministrazione penitenziaria, secondo i dati forniti da Antigone, a febbraio di quest’anno erano 64, in maggioranza assegnati a sezioni protette. Gli istituti che accolgono “protetti omosex” sono 20: di questi, 15 prevedono l’allocazione in sezioni promiscue, 2 nella sezione per autori di reati che provocano riprovazione sociale (sex offenders) e solo 3 ne hanno una separata omogenea per omosessuali. L’inserimento degli omosessuali nelle sezioni protette promiscue insieme ai sex offenders16 è particolarmente problematica, poiché determina l’ingiusta sovrapposizione tra caratteristiche della persona e speciale riprovazione sociale connessa al reato di tipo sessuale. Queste sezioni, inoltre, in funzione della protezione che si vuole assicurare, tendono ad essere del tutto isolate rispetto alla vita del resto dell’istituto penitenziario, con conseguente deprivazione di occasioni trattamentali. Come sottolineato nel tavolo II degli Stati generali dell’esecuzione penale, “occorre immaginare un superamento che passi attraverso un investimento culturale sull’abbattimento delle discriminazioni (tenendo però presente anche chi si sente più tutelato in sezioni esclusivamente dedicate) […] L’accettazione del ‘protetto’, ai fini del superamento della subcultura carceraria che ne implica l’esclusione, dovrebbe essere inserita anche come elemento del ‘patto trattamentale’ proposto ai detenuti”17.

Nelle sezioni protette in istituti maschili si trovano in maggioranza anche le persone transgender (MtoF), tracciate dall’amministrazione penitenziaria come transex, mentre le transessuali vengono assegnate al carcere femminile, in forza della rettificazione del sesso anagrafico in seguito alla riattribuzione degli organi sessuali.
Delle 63 transex tracciate dall’amministrazione penitenziaria solo 5 sono assegnate a sezioni promiscue, 1 in casa di lavoro, 2 in sezione comune femminile, mentre tutte le altre sono in sezioni protette omogenee riservate. Gli istituti che accolgono persone transgender sono in tutto 12: di questi 7 prevedono una sezione protetta dedicata, quasi sempre a custodia aperta. Anche in termini di numerosità le sezioni più consistenti sono quelle omogenee: 15 detenute a Rebibbia Cinotti, 12 a Como, 10 a Reggio Emilia, 8 a Napoli Poggioreale, 5 a Ivrea e Belluno18.

Come si è detto, il carcere è una realtà fortemente declinata al maschile, nella quale le persone transgender faticano a trovare una collocazione. Quest’ultima infatti risulta potenzialmente problematica per gli equilibri carcerari sia se effettuata in un istituto femminile sia in un istituto maschile. Nella prima ipotesi, infatti, si rischia di compromettere la privacy e la sicurezza delle donne cisgender, ponendole in una condizione di promiscuità con detenute che, pur presentando i tratti esteriori dello stesso sesso, possiedono gli organi sessuali del sesso maschile di nascita. D’altra parte, l’inserimento delle detenute transgender in un reparto maschile esporrebbe le stesse al rischio di subire aggressioni verbali e soprattutto fisiche da parte della restante componente carceraria maschile. In questo modo si determina un binomio protezione-isolamento, che finisce per determinare effetti trattamentali negativi, per l’assoluta carenza di attività impostate specificamente in favore di chi si intendeva proteggere da eventuali prevaricazioni del resto della popolazione comune19.

Il nuovo art. art. 14 dell’ordinamento penitanziario20 supera la logica dell’allocazione delle persone omosessuali e transgender mediante la separazione obbligatoria dai detenuti comuni e prevede invece che l’inserimento nelle sezioni protette avvenga soltanto quando si temano aggressioni o sopraffazioni da parte della restante popolazione detenuta, ma con il consenso della persona interessata e solo in sezioni esclusivamente dedicate alla protezione per l’identità di genere o l’orientamento sessuale.

A tutela delle persone LGBT+ ristrette Antigone invita a “svolgere in ogni istituto attività in comune con il resto della popolazione, magari con il supporto di una sorveglianza dinamica adeguata; a superare le attuali difficoltà di accesso alla scolarizzazione, alla formazione, alle attività lavorative e sportive; a garantire la formazione del personale penitenziario e sanitario. L’obiettivo è la realizzazione di un sistema che, disinnescando la paura della differenza sessuale e di genere, rimuova il rischio oggi ancora concreto di emarginazione e di lesione dei diritti individuali”21.

Maria Pia Calemme

  1. https://www.rapportoantigone.it/diciottesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/.[]
  2. https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.page?contentId=SPS1155101&previsiousPage=mg_2_3_4_4.[]
  3. Tenutisi tra il 2015 e il 2016 su iniziativa dell’allora ministro della Giustizia Orlando, erano articolati in 18 tavoli tematici, ai quali hanno partecipato oltre 200 tra operatori penitenziari, magistrati, avvocati, docenti, esperti, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile (cfr. il documento finale: https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/documento_finale_SGEP.pdf). Le indicazioni degli Stati generali sono state, almeno in parte, recepite con i d.lgs. 121, 123 e 124 del 2018.[]
  4. I due passaggi recitano: “In ogni istituto penitenziario per donne sono in funzione servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere” e “Alle madri è consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido”. L’art. 14, inoltre, stabilisce che “Le donne sono ospitate in istituti separati o in apposite sezioni di istituto” e l’art. 39 che “L’esecuzione della sanzione dell’esclusione dalle attività in comune è sospesa nei confronti delle donne gestanti e delle puerpere fino a sei mesi, e delle madri che allattino la propria prole fino ad un anno”. Tutto qui.[]
  5. S. Ronconi, G. Zuffa, La prigione delle donne. Idee e pratiche per i diritti, Ediesse, 2020, p. 90.[]
  6. https://www.rapportoantigone.it/diciottesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/la-detenzione-femminile-raccontata-attraverso-gli-occhi-di-una-detenuta-comune/.[]
  7. Secondo la definizione delle statistiche DAP.[]
  8. Gli ICAM sono lo strumento teso a superare le sezioni nido degli istituti penitenziari e il loro modello organizzativo è analogo a quello della custodia attenuata per tossicodipendenti, anche se non ha alcuna connotazione terapeutica. Negli ICAM, secondo la previsione della legge 40/2001, l’età dei bambini “al seguito” può arrivare fino a 6 anni. In realtà questi istituti non hanno del tutto soppiantato le sezioni ordinarie per madri con bambini.[]
  9. Con questa definizione, nel contesto, si fa riferimento a persone tra i 18 e i 25 anni di età che abbiano commesso un reato in età minorile e sono stati per questo guidicati da un tribunale minorile e sottoposti a restrizione secondo la legislazione per i minorenni.[]
  10. Dati del rapporto “Il carcere visto da dentro” di Antigone.[]
  11. Dati del rapporto “Kipp it trill” di Antigone sulla giustizia minorile (https://www.ragazzidentro.it/).[]
  12. Si tratta di uno dei 3 decreti legislativi di modifica dell’ordinamento penitenziario.[]
  13. https://www.ragazzidentro.it/).[]
  14. https://www.ragazzidentro.it/le-comunita-uno-sguardo-ai-numeri/.[]
  15. Cfr. l’approfondimento “I diritti LGBT+. Il carcere alla prova del principio di non discriminazione verso la differenza sessuale e di genere” del rapporto di Antigone.[]
  16. Nelle sezioni protette, insieme agli autori di reati sessuali, si trovano appartenenti alle forze dell’ordine o alla agistratura e collaboratori di giustizia.[]
  17. https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/sgep_tavolo2_relazione.pdf.[]
  18. Dati del rapporto di Antigone.[]
  19. Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Norme e normalità. Standard per l’esecuzione penale detentiva degli adulti. Raccolta delle Raccomandazioni 2016-2017, cit. in F. Gianfilippi, “Le persone omosessuali e transgender in carcere e il tempo immobile del Covid19”, GenIUS, 1/2021.[]
  20. Introdotto dal decreto legislativo n. 123 del 2/10/2018.[]
  21. https://www.rapportoantigone.it/diciottesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/i-diritti-lgbt-in-carcere/.[]
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