Sarà un “muro progressista” quello che il governo finlandese si appresta a costruire lungo una parte dei propri confini con la Russia. Il governo di centro sinistra, che lo ha annunciato la settimana scorsa (costo centinaia di milioni di euro, durata dei lavori 4 anni), potrà contare anche sull’appoggio dell’opposizione. Tutti uniti per realizzare una nuova frontiera di cui però vanno comprese bene le finalità. Non ha ragioni legate direttamente al conflitto in Ucraina, non servirebbe ad impedire un improbabile attacco da Mosca ma rende più uniforme – non è il primo muro finnico – il Paese, rispetto al resto dell’UE. Già da settembre gli ingressi dalla Russia mediante visto sono bloccati, da ottobre sono permessi unicamente ricongiungimenti familiari e per “dissidenti”, col muro si intende impedire anche a chi decidesse di scappare dallo zar, di trovare rifugio in Europa, della serie sempre profughi sono e non ce li possiamo permettere. L’idea di una struttura la cui realizzazione si vedrà nel 2027, lascia intendere di quanto, negli scenari che si vanno prospettando, l’instabilità di quell’area, non è affatto una questione di breve durata. Insomma prepariamoci al peggio in base a questi segnali. E mentre la Bielorussia di Lukashenko continua ad utilizzare nel silenzio i profughi ammassati nel proprio territorio come “bomba umana” al confine polacco, scempi su scempi si continuano a compiere ai confini fra Grecia e Turchia. La soluzione prospettata dal governo di Atene? Ampliare il muro lungo il fiume Evros che di fatto costituisce da anni una terra di nessuno.
Tornano oggi in scena, in conseguenza del cambio di governo in Italia, i luoghi e i soggetti che hanno contribuito a costruire il falso allarme invasione negli anni passati. Il governo non aveva ancora ricevuto la fiducia, non è stato ancora comunicato l’elenco di viceministre/i e sottosegretarie/i e già è scattata la corsa alle dichiarazioni più estreme. Si è ripreso la scena Matteo Salvini, pretendendo la gestione e il controllo dei porti per il suo dicastero (Infrastrutture), con lo scopo di “salvare i confini”, di poco successive le dichiarazioni del neo ministro dell’Interno, il prefetto Piantedosi (ex capo di gabinetto del leader leghista), contro l’attracco sulle coste italiane delle navi di due ong con a bordo numerosi richiedenti asilo. Più articolato e, perciò più grave il passaggio in aula della nuova presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «La nostra intenzione è sempre la stessa. Ma se non volete che si parli di blocco navale lo dirò così: è nostra intenzione recuperare la proposta originaria della missione navale Sophia dell’Unione europea che nella terza fase prevista, e mai attuata, prevedeva proprio il blocco delle partenze dei barconi dal nord Africa. Intendiamo proporlo in sede europea e attuarlo in accordo con le autorità del Nord Africa, accompagnato dalla creazione sui territori africani di hotspot, gestiti da organizzazioni internazionali, dove poter vagliare le richieste di asilo e distinguere chi ha diritto ad essere accolto in Europa da chi quel diritto non ce l’ha». Questo brano dell’intervento non rappresenta solo un braccio di ferro interno alla coalizione di governo, ma definisce alcune prospettive, peraltro in perfetta continuità con le politiche in vigore, ma che potrebbe definire un ulteriore giro di vite con azioni concrete che trovano il plauso tanto della “maggioranza Ursula von der Leyen quanto del gruppo Visegrad. In un’Europa che vira sempre più a destra e in cui non si palesa una forte opposizione a sinistra, il paternalismo autoritario di Meloni è perfettamente ben inserito.
Ci sono date alle porte in materia. Quella più ravvicinata, ma probabilmente destinata ad incontrare meno ostacoli, è quella del 2 novembre, giorno ultimo per poter abrogare il Memorandum Of Understanding fra Italia e Libia stipulato il 2 febbraio 2017 dall’allora presidente del Consiglio Gentiloni. Il patto infame, che ha permesso di finanziare i centri lager in Libia, di attuare respingimenti arbitrari e, in quanto collettivi, illegali, (85 mila persone in 5 anni), di addestrare le cosiddette Guardie costiere e di frontiera di Tripoli, di realizzare dispositivi di controllo ai confini meridionali della Libia, di far crescere il numero delle vittime di questo vero e proprio cordone realizzato nel Mediterraneo Centrale. Il testo, composto di 8 articoli, in cui solo una volta e in maniera vaga appare la parola “diritti umani”, non è mai stato sottoposto al vaglio del Parlamento. Non si tratta infatti di un accordo fra Stati, che in quanto tale avrebbe dovuto sottostare prima della stipula, ad un dibattito nelle Camere, ma di una “lettera di intenti”, una sorta di scrittura privata sotto cui si decide della vita e spesso della morte di decine di migliaia di persone. Il Memorandum ha durata triennale, se uno dei due contraenti volesse reciderlo, dovrebbe farlo prima di tre mesi dalla sua scadenza. Scade il 2 febbraio, quindi entro il 2 novembre. Difficile, malgrado alcuni impegni presi, che la questione trovi spazio in parlamento e comunque una maggioranza molto ampia che comprendere non solo la compagine al governo, ma anche ampi settori della sedicente opposizione garantirebbe il rinnovo. A protestare contro tale scempio hanno provato nei giorni scorsi attiviste/i delle ong. Il 19 ottobre, donne e uomini di una eterogenea rete antirazzista, hanno realizzato una azione di disobbedienza civile sotto il parlamento. In 7, soprattutto donne, si sono incatenate, in Piazza Montecitorio per protestare contro il silenzioso crimine che si sta decidendo di perpetrare. Altre/i hanno portato cartelli e striscioni e urlato slogan contro il Memorandum. Alcuni, pochissimi, parlamentari, sono usciti a manifestare la propria solidarietà all’iniziativa. Le forze dell’ordine si sono limitate ad identificare le persone incatenate che hanno lasciato la piazza in serata (tutto era iniziato alle 11.00 di mattina). Il gruppo, che intende mantenere una forma organizzativa leggera, possibilmente allargandosi, proverà a compiere altre iniziative per richiamare l’attenzione sia mediatica che politica che, soprattutto delle tante e dei tanti che continuano ad ignorare la gravità di quanto sta accadendo. Intanto il 25 ottobre si è tenuto un presidio a Siracusa, oggi, mentre andiamo in rete, è in corso una conferenza stampa del Tavolo Asilo e Immigrazione e, sempre a Roma, nel tardo pomeriggio, si tiene una manifestazione promossa da oltre 40 associazioni e ong. Se, come purtroppo prevedibile, il Memorandum resterà in vigore per altri tre anni, sarà necessario portare avanti un intervento a vasto raggio anche in previsione di quanto sarà promosso dal nuovo governo.
In seconda battuta, in ordine di tempo, va tenuto presente il ruolo che assume l’agenzia di contrasto all’immigrazione “illegale”, Frontex. Il 18 ottobre scorso il parlamento europeo ha rifiutato di approvare il bilancio consuntivo dell’agenzia per il 2020. L’assemblea si è spaccata quasi a metà. La risoluzione con cui si rifiutava l’approvazione è stata approvata con 345 voti favorevoli, 284 contrari e 8 astensioni. Il bilancio sarà ripresentato, ma lo schiaffo c’è stato e rappresenta un chiaro segnale politico da raccogliere. Le ragioni della bocciatura sono anche legate al fatto che Frontex è recentemente finita nella bufera sotto il precedente direttore esecutivo Fabrice Leggeri, che si è dimesso il 28 aprile a seguito della pubblicazione di una pesantissima relazione dell’Ufficio Europeo per la Lotta Anti Frode (Olaf): mancati controlli svolti nel mar Egeo nel 2020, le connivenze problematiche con le autorità greche e per irregolarità diffuse tra funzionari e che hanno portato alle dimissioni, lo scorso aprile, del Presidente francese della agenzia Fabrice Leggeri. Tante le accuse piovute sull’agenzia: dai mancati controlli per il rispetto dei diritti umani nel Mar Egeo, all’illegittimità dei respingimenti nel Mediterraneo Centrale all’uso disinvolto per “spese di rappresentanza” dei fondi UE. Temporaneamente a gestire Frontex ci sono due funzionari dei paesi baltici Aija Kalnaja (lettone) e Uku Särekanno (estone) più un ex poliziotto tedesco (Lars Gerdes). Frontex proverà a esigere nuove risorse – per il 2022 era stata presentata una proposta di aumento del bilancio preventivo assurda anche per i fondi europei – dovrà convincere gli Stati della propria utilità, anche se in questi anni e malgrado tutto, gli arrivi sono aumentati, ma potrà contare sullo spostamento a destra di molti governi UE. Il Consiglio Europeo potrà essere lo strumento su cui faranno leva non più soltanto i paesi di “Visegrad” ma anche tanti altri a cominciare dall’Italia.
Lo strumento legislativo che potrebbe portare non solo a rafforzare Frontex ma a definire nuove politiche UE ancora più proibizioniste è il New pact on migration and asylum del settembre 2020 ancora mai portato realmente in discussione. L’impegno preso all’epoca era quello di riuscire a farlo entrare in vigore entro il febbraio del 2024, come scalpo per giungere alle elezioni europee che si terranno a maggio di tale anno. Ma per raggiungere almeno un accordo operativo in materia prima di tali date, i negoziati dovrebbero iniziare entro la fine del 2022. Il New pact vorrebbe accontentare ognuno ma scontenta tutti: lascia infatti ai paesi di frontiera la gestione degli arrivi, consente a quelli più refrattari di trovare escamotage, pagando si intende, per non dover accogliere richiedenti asilo o persone da rimpatriare, lascia ampie libertà di manovra ai singoli Stati senza definire una reale politica comune. O meglio, nelle intenzioni dichiarate c’è l’asilo e la protezione per coloro che l’UE ritiene degni di tale concessione, la detenzione e il rimpatrio per chi invece è escluso da tali “privilegi”. Nei fatti, ad oggi, con questa condizione dei paesi UE, sarà tanto scarsa la voglia – non sarà obbligo – di accettare il ricollocamento di chi ha diritto quanto l’impegno a spendere per rimpatriare forzatamente, con ogni mezzo, chi va cacciato. I rimpatri non saranno mai la soluzione ma solo un acuirsi dei problemi ed un aumento delle sofferenze inflitte. Si fa strada quindi, non solo nell’Italia meloniana, il sogno di realizzare strutture detentive direttamente nei paesi di transito e lì selezionare le persone da far entrare. Una sorta di “quarta sponda” di chiara impronta coloniale, che cancella di fatto il diritto internazionale e esternalizza sempre più a sud il muro dell’Europa Fortezza. Una scelta scellerata che potrebbe divenire emblema del fallimento di ogni prospettiva di “casa comune europea” (per citare Gorbaciov) e ci riporterebbe ancor più nella logica delle piccole patrie da sempre anticamere dei conflitti.
Stefano Galieni
P.S. unica nota d’ottimismo, in questo scenario è legata al fatto che sono in costante aumento le iniziative di denuncia ai tribunali per respingimenti illegali e ingiuste detenzioni nei lager libici. Ognuno di questi, oltre a costare caro allo Stato che ne è responsabile, aumenta – il caso Libia è la cartina di tornasole – il volume di documenti, giunti e redatti anche in sede Onu (United Nations Support Mission in Libya “UNSMIL”), nonché da giornalisti e osservatori internazionali, che potrebbe portare alla Corte Internazionale tanto i criminali che hanno gestito e gestiscono, anche in divisa, il traffico di persone quanto i loro mandanti europei, molti di costoro italiani, che sovvenzionano alla luce del sole, il compimento di detti crimini.