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I dilemmi di Macron e il futuro di Melenchon

di Franco
Ferrari

L’evoluzione della campagna elettorale francese aveva lasciato immaginare un possibile esito diverso dalla ripetizione del duello Macron-Le Pen. Mentre la presenza del Presidente uscente non è mai stata veramente in discussione, l’indicazione del suo avversario è sembrata dipendere dalle oscillazioni dell’opinione pubblica ed in particolare dell’elettorato di destra e di estrema destra.

L’irruzione di Eric Zemmour ha condizionato pesantemente il dibattito mediatico per molti mesi ma alla fine il risultato del polemista sostenuto dall’impero mediatico di Vincent Bolloré è stato decisamente al di sotto delle aspettative. Anche la neogollista Pecresse che per un breve momento è sembrata poter riconquistare il suo spazio tradizionale ha lasciato rapidamente spazio alla delusione e il voto della destra di opposizione è rifluito in buona parte su Marine Le Pen. Ha prevalso, rispetto allo spirito controrivoluzionario (nel senso della Rivoluzione francese) e borghese di Zemmour, il discorso più rassicurante e avvolgente che la leader del Rassemblement National ha impresso alla sua propaganda.

La leader dell’estrema destra tradizionale si è proposta come strumento di difesa per i ceti popolari e medi più tradizionali, tendenzialmente inseriti in contesti economici e sociali che le dinamiche del capitalismo hanno messo in difficoltà. Questo è poi coniugato ad una visione conservatrice delle relazioni tra sessi e ceti, alla paura dell’immigrazione e di altri processi di cambiamento che sono visti con timore piuttosto che con speranza. Non ha abbandonato le tematiche che pongono l’accento sul nemico interno (l’immigrato) e su una difesa dello Stato sociale inserita sempre in una concezione nativista (le risorse disponibili vanno indirizzate ai francesi “veri”). Il tutto è stato però inserito in un’argomentazione meno aggressiva dove anche certe tematiche di rottura (ad esempio verso l’Europa e l’euro) sono state notevolmente sfumate. Alla fine questa impostazione, che sembrava essere sopravanzata dalla violenza retorica di Zemmour, è risultata vincente.

Il conflitto in corso in Ucraina che in teoria avrebbe potuto danneggiare la Le Pen per le sue note simpatie verso Putin (all’interno di un’unica cornice ideologica nazional-conservatrice) non ha avuto invece un impatto significativo. Al contrario è forse sembrato che, di fronte ad un’ulteriore fonte di pericolo per le condizioni di vita (già per molti precarie) derivante dalle sanzioni e dalla gestione del conflitto da parte della Nato, ci fosse un ulteriore motivo per appoggiarsi a chi si propone come difesa per i francesi, in un contesto globale sempre più complicato e insidioso.

Naturalmente le ricette della Le Pen, nonostante l’ammorbidimento retorico e la scelta di mettere in primo piano questioni sociali (soprattutto il reddito e i pericoli derivanti dall’inflazione) resta incompatibile con le idee espresse a sinistra da Melenchon e Roussel. I due candidati della sinistra radicale si sono espressi entrambi nel rifiuto di qualsiasi connivenza con la Le Pen, anche se solo il secondo ha invitato espressamente a votare per Macron al secondo turno. Una differenza che si era già registrata nel 2017 nel posizionamento di PCF e France Insoumise anche se allora avevano fatto campagna elettorale insieme.

Se ci si basa solo sulle dichiarazioni dei vari candidati, Macron potrebbe contare su un vantaggio sufficiente a battere la Le Pen, anche se con uno scarto molto inferiore a quello di 5 anni fa. Per la candidata dell’estrema destra si sono espressi Zemmour e Doupont-Agnan, mentre a favore dell’attuale presidente hanno invitato a votare il verde Jadot, la socialista Hidalgo, il comunista Roussel. Macron dovrebbe quindi poter contare su un dato di partenza pari a circa il 37% dei voti  rispetto al 32% dell’avversaria. Non si schierano i Repubblicani anche se Valerie Pecresse ha dichiarato che voterà per Macron, mentre la componente più spostata a destra (guidata da Eric Ciotti) sembra lasciar intendere di potersi orientare verso la Le Pen, ma senza affermarlo apertamente. Di Melenchon si è detto e se i sondaggi indicano un possibile spostamento di voti verso la candidata della destra radicale in funzione anti-Macron, questa parte è comunque inferiore a coloro che, turandosi il naso, sceglieranno l’attuale presidente.

Questi calcoli sono però indicativi del punto di partenza e non del punto di arrivo della campagna elettorale di queste due settimane. Il dilemma di Macron così come presentato dal quotidiano Le Monde è di dover raccogliere il più possibile il voto di elettori di Melenchon senza volere modificare, allo stesso tempo, un programma elettorale che è nettamente spostato a destra, così come inclinata a destra è stata la sua Presidenza.

Nei primi giorni successivi al voto ha provveduto a sfumare ma non a cancellare un impegno che sembra essere uno dei principali ostacoli ad allargare il suo elettorato, quello di elevare a 65 anni l’età pensionabile. Impegno già assunto nella precedente legislatura, poi ritirato, ufficialmente perché la sua approvazione avrebbe coinciso con l’inizio della pandemia. Dalle cronache dei giornali sembra essere questo l’argomento che più smuove l’interesse degli elettori, ben più di quella disputa tra sostenitori e oppositori di Putin che piacerebbe invece a commentatori e politici “macroniani” in Italia.

Rispetto a cinque anni fa Macron dovrà compiere un difficile esercizio di equilibrio perché nel frattempo la sua collocazione politica che si vorrebbe centrista (provenienza socialista ma governo con i neo-gollisti) ha sfasciato i partiti cardine del vecchio sistema politico attorno ai quali si è organizzata la la frattura destra-sinistra nella quinta Repubblica.

La grande borghesia ha puntato molto sulla ridefinizione del sistema dei partiti attorno a Macron, ma a cinque anni di distanza si può ritenere che il calcolo, che ha funzionato nell’immediato, potrebbe non reggere alla lunga e diventare anche rischioso aprendo la strada ad un’alternanza non più strettamente ancorata al paradigma fondamentale del liberismo.

L’avvio della campagna elettorale sembrava promettere alla sinistra solo un campo di rovine. La lunga rincorsa di Melenchon non sembrava in grado di ripetere il relativo successo delle due campagne precedenti e gli altri numerosi candidati offrivano uno scenario di difesa di identità politiche ma senza capacità egemoniche.

Alla fine tutte le proposte alternative si sono rivelate deboli. I Verdi hanno pensato di poter puntare sulle questioni ambientali (che incombono in misura sempre più drammatica) senza ancorarle ad una scelta netta di cambiamento o di continuità. Inoltre sulla guerra in Ucraina hanno seguito la linea oltranzista e interventista dei fratelli tedeschi.

Il Partito Comunista ha pensato che ci fosse spazio per un rilancio della propria presenza, cercando di parlare a quei ceti popolari che in parte si sono spostati a destra o sono finiti nell‘astensione con un’argomentazione troppo rivolta al passato (“i giorni felici”) e contenuti programmatici che sono sembrati poco attenti alla nuova sensibilità ecologista. Per un momento è sembrato, come già avvenne nelle elezioni europee, che potesse rompere l’immagine di forza in declino anche se dal passato glorioso. Alla fine sono rimasti certamente schiacciati dal voto utile, ma questo non sembra aver modificato in misura significativa un risultato che sarebbe comunque rimasto marginale.

Il dato elettorale che più ha sorpreso e che ha quindi modificato la percezione del voto, è stato quello di Jean-Luc Melenchon. Anche senza il sostegno del PCF ha superato voti e percentuale del 2017, arrivando ad un’incollatura dalla Le Pen. Questo ovviamente ha aperto polemiche e discussioni sulla decisione del PCF di sostenere un proprio candidato, anche se non si può meccanicamente prevedere che una scelta diversa avrebbe consentito il passaggio di Melenchon al secondo turno, dato che il meccanismo del voto utile avrebbe forse funzionato diversamente anche sul versante destro, tra Zemmour e la Le Pen.

Resta comunque il dato di una sinistra radicale (France Insoumise e PCF) che supera il 24% con un 4% in più di 5 anni fa. Una dimensione che in questo momento in Europa può sperare di raggiungere solo Syriza in Grecia.

Ciò che rende significativo il successo di Melenchon è il fatto che esso si basa in parte sicuramente sul meccanismo del “voto utile” dell’ultimo momento che ha giocato a favore del candidato meglio piazzato nei sondaggi tra tutti quelli a sinistra di Macron, ma in misura significativa sulla capacità di catalizzare un voto proprio, tra i giovani e nelle periferie popolari delle grandi città.

In alcune zone della cintura parigina, un tempo roccheforti del PCF (come Seine-Saint-Denis e Val-de-Marne) ma nelle quali il partito ora guidato da Roussel ha perso parecchie posizioni, Melenchon ottiene percentuali assolutamente strabilianti. Mediamente attorno al 50% ma con punte che sfiorano o superano il 60%. Anche in queste zone e pure laddove vi è ancora un sindaco comunista, il voto di Roussel non si distacca molto dal dato nazionale.

Risultati altrettanto straordinari si ritrovano anche in quartieri popolari di Marsiglia (66% alla Solidarité) dove ha pesato significativamente il voto degli immigrati di religione musulmana. Qui circola la notizia, che forse è solo una leggenda, secondo la quale in diverse moschee sarebbe emersa l’indicazione di voto per Melenchon, unico candidato che ha saputo coniugare la difesa della laicità con il rifiuto della stigmatizzazione dei francesi di religione musulmana, operazione che con toni diversi ha visto uniti Zemmour, Le Pen e lo stesso Macron.

Emerge dal voto di Melenchon un dato che sembra confermare quanto riscontrato anche in altre votazioni (ad esempio il referendum britannico sulla Brexit). Il voto popolare tende a dividersi a seconda che si tratti di aree in declino, spesso sede di industrie tradizionali che hanno subito l’impatto della globalizzazione, nelle quali la presenza effettiva di immigrati è relativamente bassa, e aree di nuovo proletariato con forte presenza di elettori di prima o seconda generazione. Il proletariato più giovane e meticcio tende a orientarsi a sinistra (o nel caso britannico per il Remain), mentre quello prevalentemente nativo e più anziano sceglie l’estrema destra.

Melenchon ha scommesso sulla possibilità di mobilitare direttamente gli elettori (soprattutto giovani e delle classi popolari) con un messaggio diretto piuttosto che passare dall’aggregazione di forze politiche che tradizionalmente hanno incarnato l’unione delle sinistre. Si è presentato come il candidato dell’Union Populaire contrapposta in una certa misura ad una più tradizionale Union de la Gauche. Questa strategia si è dimostrata indubbiamente vincente.

Va anche detto che il leader della France Insoumise ha saputo modificare e rimodulare la propria proposta tenendo conto del contesto politico e sociale, nonché dei limiti delle campagne precedenti. Con la sua prima candidatura, nel 2012, aveva guidato un più tradizionale Front de Gauche, che aveva mobilitato l’ala più radicale della sinistra tradizionale, mentre nel 2017 aveva tentato di darvi un’impronta più populista e trasversale. L’idea era di poter raggiungere anche quei settori di elettorato, scontento della propria condizione sociale, che si erano rivolti all’estrema destra. L’operazione in realtà non ebbe particolare successo. Il voto ottenuto da Melenchon restava fondamentalmente un voto di sinistra anche se la sua capacità di mobilitarlo e di catalizzarlo si era accresciuta. Questa volta si può ritenere che il taglio della campagna elettorale fosse popolare e di sinistra con uno sforzo particolarmente accentuato di argomentazione del programma e della sua fattibilità. Per certi versi meno populista e più classicamente di sinistra. Una sinistra che a differenza di quella social-liberale è in grado esprimere speranze e aspirazioni di vasti settori popolari caratterizzati dalla loro diversità e molteplicità di identità.

Ora per Melenchon si apre una fase nella quale dovrà utilizzare il successo elettorale per costruire una proposta politica più radicata nel territorio, netta nella proposta ma senza punte settarie e che trasferisca i voti ottenuti (parte di adesione effettiva e parte per scelta tattica) nel conflitto politico e sociale quotidiano, oltre che nelle sedi istituzionali. Le iniziative di Melenchon finora sono state sempre costruite con l’ottica delle campagne elettorali presidenziali. Questa strategia forse ha dato tutto quello che poteva dare di buono e occorre andare oltre.

Franco Ferrari

 

 

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