editoriali
Hotel Moskva: francobollo moscovita

Hotel Moskva

Pierluigi Sullo interviene nella nostra discussione sull’89 con una formula particolare. Un racconto breve che ci ha regalato e di cui lo ringraziamo molto. Un racconto naturalmente di fantasia per le cose raccontate e i personaggi e i loro nomi ma verosimile e che fa riflettere oltre ad appassionare, come un vecchio francobollo.

di Pierluigi Sullo – Mi aspettava a un tavolino d’angolo, il mese era caldo e lui sudava, ma era anche innervosito da qualcosa, si muoveva a scatti e gli occhi avevano la tentazione di non guardare nulla, fuggivano qui e là, lui si passava la mano tra i capelli schiacciati sul cranio, rossicci e radi, e aveva una barba mal curata di colore nero e rossiccio insieme, sgradevole a vedersi.

Mi aveva chiesto, al telefono, un appuntamento possibilmente lontano dal consolato, richiesta impropria, ma la voce in cui una tensione vibrava mi aveva spinto a dirgli di sì, in fondo era un connazionale in difficoltà, e doveva essere una difficoltà molto spinosa, mi pareva un dovere. Ero arrivato solo un paio di mesi prima, vice del viceconsole all’ambasciata d’Italia che, mi spiegarono, era proprio lo stesso edificio dove negli anni venti aveva sede l’Internazionale comunista. Spirito da archeologo, mi immaginavo Dimitrov e Togliatti a parlottare nel corridoio, un mormorio che nessun orecchio e nessun microfono avrebbe potuto captare, erano tempi difficili. Lo erano anche ora, subito dopo che file di carri armati avevano inciso l’asfalto delle circonvallazioni infinite di Mosca e schiacciato tre ragazzi, un po’ per caso, e il putsch era fallito, un certo Boris Eltsin si era arrampicato su uno di quei carri armati per proclamare l’inizio
della democrazia eccetera, e ora un mucchio di sbandati si aggirava per la smisurata capitale sovietica, prossimamente russa, chi si nascondeva e chi si arrampicava. E per me era uno spettacolo molto interessante, in fondo io ero un occidentale, andavo nei negozi riservati e potevo osservare con dispiacere astratto le vetrine vuote sotto l’insegna “MOLOKO”, che sarebbe “latte”, ma
evidentemente le mucche avevano cessato di produrne o di essere munte.
Traffico di passaporti e di ricongiungimenti familiari, al consolato, era la routine un po’ frenetica.
Poi telefonò questo tipo. Massimo Papi, si chiamava, e si presentò dicendo solo “sono un cittadino italiano”, ma le devo parlare urgentemente, sono in pericolo, ho bisogno di un passaporto “sano”, così disse, sano, e chissà che voleva dire. Mi diede appuntamento al bar dell’Hotel Moskva, sulla piazza del Maneggio, lo smisurato slargo in cui qualche giorno prima si era celebrato il funerale di massa dei caduti per la democrazia, e a prendere la parola anche l’ambasciatore degli Stati uniti, ma che strano, l’avevo trovato inopportuno perfino io, che, da sessantottino quale ero stato, non mi ero mai iscritto al Pci, tanto meno avevo nutrito illusioni sull’Unione sovietica. Ma che diamine, l’ambasciatore statunitense.
Mi tornò in mente, la voce nasale del mondo libero sopra la folla compatta e muta, mentre entravo al bar del Moskva, che esibiva, nel bancone e nei tavolini, l’imitazione della modernità cromata occidentale anni sessanta che, secondo i sovietici, era il simbolo della destalinizzazione e del neo-consumismo, anche se il moloko non si trovava e a un conoscente dell’ambasciatore il televisore sovietico era esploso in faccia. Molto più bravi con i missili, i sovietici.
Papi era seduto in fondo, quasi non volesse farsi vedere. Alzò una mano per richiamare la mia attenzione, quasi mi conoscesse, ma certo nel bar c’eravamo in pratica solo noi, a quell’ora, e una ragazza bionda al bancone.
Gli tesi la mano e dissi il mio cognome. Lui fece lo stesso, la mano era bagnata come una spugna, “piacere”, disse, e captai un accento toscano. Mi sedetti. Lui aveva davanti una ciotola con quei cetrioli bavosi che i russi mangiano per ammortizzare l’urto della vodka, e infatti c’era anche una bottiglia di liquido trasparente, però l’uomo non sembrava ubriaco. Al barista chiesi solo un caffè, o quel liquido brodoso dal sapore incerto che i russi chiamano caffè.
“Salve, eccomi qui”, gli dissi.
“Lei sa la storia di questo hotel?”, disse lui passandosi una mano sulla barba lunghissima. Scossi la testa.

Lui fece un sorrisetto sbilenco, si sarebbe detto malinconico: “Beh, si dice che l’architetto presentò a Stalin due diversi disegni, in modo che il capo potesse scegliere, cosa che però non fece, era distratto, pensava ad altro, chissà, perciò l’architetto e i funzionari implicati decisero di non decidere, e se lei guarda la facciata vedrà che le due torri laterali sono effettivamente disegnate in modo differente”, e rise brevemente.
“Di sicuro è una balla”, dissi io.
“Probabilmente, ma è una balla verosimile, e divertente”.
“E quella ragazza?”, chiesi io. La donna al bancone mi fissava intensamente da quando ero entrato. Era bellissima, forse diciannove o vent’anni, angelica quanto può essere una giovane russa, e sembrava innamorata di me, da come mi fissava.
Lui ridacchiò di nuovo, non era un bel vedere, e disse: “Non ci badi, fissa i suoi dollari, non lei. E poi è una amica di Ekaterina”. Fece un cenno, alla ragazza, che doveva significare qualcosa, perché lei scosse la testa, scese dallo sgabello e uscì, camminando lentamente in tutta la magnificenza della sua minigonna bianca.

“O le interessava?”, chiese lui, io scossi la testa.
“Mi parli di Ekaterina”, gli chiesi, chissà perché, in realtà volevo solo parlare del passaporto ”sano” e andarmene.
“Oh, era la mia ragazza, forse lo è ancora, almeno un po’. E’ stato quando lavoravo alla radio, fino a un mese fa”,
“La radio?”, chiesi.
Lui emise un lunghissimo sospiro, come chi si prepara a un racconto complicato.
“Deve avere pazienza”, mi avvertì.
“Cioè?”.
“Le racconterò tutto fin dall’inizio”.
“Va bene”, mi sentivo incastrato.
“E allora, io ero un comunista, ma non del Pci, ero in una cellula toscana del Pcd’I, linea rossa per la precisione, e pensavo che il socialismo fosse il solo posto dove era possibile vivere, e in Italia il socialismo non c’è. Perciò mi misi a studiare il russo e quando cominciai a parlarlo benino feci domanda per essere assunto a Radio Mosca…”.
“Ma i sovietici non erano i revisionisti?”, chiesi, grattando il fondo dei miei ricordi di studente di sinistra, una quindicina di anni prima.
“Eh, certo, però non c’erano alternative, o qui o l’Albania”, disse lui, pareva ancora convinto di aver fatto la scelta giusta.
“E allora?”, dovevo anche dargli una spinta.
“Allora mi risposero sì, vieni, abbiamo bisogno di un lingua madre per il notiziario in italiano. Non che mi andasse poi a genio leggere in modo meccanico i foglietti che mi passavano, lo sciopero in una ignota fabbrica delle Marche o gli elogi a Bettino Craxi, per via di Sigonella e del rifiuto dei missili americani, roba così. Però non si stava male. Mosca era un enorme casino, anche se all’apparenza tutto era in ordine, se sapevi muoverti avevi tutti gli agi, e poi io avevo lo status di straniero, anche se al servizio dello Stato, così conobbi Ekaterina, anzi lei conobbe me, la sedussi, o ci seducemmo a vicenda e… Aspetti…”, si frugò in tasca e tirò fuori una piccola fotografia, mostrava una donna ovviamente bionda, forse la faccia un po’ larga, occhi azzurri, diciamo una versione matura della ragazza che poco prima mi fissava, bella donna, certo, Ekaterina.
Alzai lo sguardo, interrogativo: “A quell’epoca lei era ancora sposata ma divorziò presto, tutti si sposavano e divorziavano in continuazione, tutti scopavano con tutti, qualcuno si innamorava, come me, e…”, mi guardò, forse si chiedeva quanto sarebbe durata la mia pazienza, riprese con maggiore energia, come per far sapere adesso mi sbrigo: “Il problema è che Ekaterina era l’amante di un alto ufficiale del KGB, un certo Smolnikov, che non si può dire fosse geloso, però era meglio non sfotterlo…”.
“Venga al punto”, gli intimai, cominciavo ad averne abbastanza.
“Ok, vengo al punto. Viene il putsch e là per là alla radio nessuno sa che pesci prendere, pensi che il giorno dei carri armati dovetti leggere una notizia sul fatto che in Italia solo i ricchi vanno in vacanza, era pieno agosto e non sapevano che inventarsi. Ora dopo ora, tutti capimmo che la festa, diciamo così, era finita, che la radio sarebbe stata smantellata dai democratici di Eltsin, il direttore, che era un eroe di guerra molto anziano, Evghenij Denisov, si aggirava per le stanze come un uomo in lutto. Due colleghi italiani se ne andarono senza nemmeno
salutare. Finché un giorno il mio caposezione, Medvedev, venne da me con una proposta. Mi raccontò che lui conosceva bene uno dei capi della Tass, l’agenzia di stampa ufficiale, sa, quella che ‘la Tass comunica’ e tutti a studiare le virgole per capire cosa strisciava dietro le quinte del Cremlino. Bene, Medvedev mi dice che il suo amico è a capo della produzione di carta, già, la Tass aveva le sue fabbriche, e che sarebbe stato possibile dirottare interi treni di bobine da stampa verso un suo conoscente o socio che stampava libri di largo consumo, eh, qui in Russia la gente legge moltissimo, un romanzo qualunque fa centomila copie, è che la tv fa schifo, e non parliamo del cinema..”, fece una pausa, guardò il soffitto, disse: “… almeno fino a oggi era così… e insomma Medvedev mi dice che potrei partecipare all’affare, perché c’era un investitore italiano interessato a fare una joint venture con i sovietici per la stampa di libri e altre cose, e certo la
carta gratis o quasi, che cioè sarebbe costata solo le percentuali dell’uomo della Tass e di quelli della radio, era molto conveniente. Io avrei dovuto fare il mediatore con l’italiano, un tizio di Milano…”.
“Tutto bene, quindi”, commentai con una certa ironia.
“Beh, sì, il lavoro alla radio era andato, a tornare in Italia mi sarei sentito una merda, anzi lo sarei stato, sembrava promettente. Ma quel che Medvedev non mi disse era che tutto l’affare era in realtà controllato da una holding, o banda di predoni, chiamata Victory, sì, in inglese, una specie di gorgo che attirava qualunque cosa galleggiasse, ogni tipo di affare, e uno dei capi di Victory
indovini un po’ chi era?”, fece una pausa drammatica.
Ci pensai su un momento, la risposta era facile: “L’ufficiale del KGB… l’amante di Ekaterina”, dissi.
“Giusto, lei è sveglio. Era Smolnikov a controllare l’uomo della Tass, a stabilire le percentuali…”.
“Va bene, ma questo non impediva a lui, o a lei, di concludere l’affare”.
“E invece ci fu una complicazione: Ekaterina andò a letto con il milanese, forse aveva pensato che dopo il putsch il KGB era fottuto, e io anche, appeso com’ero a una radio morta, e quindi investiva sul futuro facendo una joint venture con l’italiano capitalista”.
Guardai la strada, ancora passavano solo Zigulì puzzolenti con le gomme lisce oltre ogni decenza, ogni tanto un pneumatico esplodeva e un’auto sbandava, le gomme nuove erano più rare del moloko. Però notai che una delle Zigulì era malamente parcheggiata e in grado di guardare dentro la vetrina del bar in cui io e Papi eravamo seduti, il riflesso impediva di vedere chi era nell’auto, ma probabilmente era solo un caso. “Ma questo…”, accennai.
Papi mi interruppe subito, disse: “Le cose, a Mosca, sono sempre più complicate di come appaiono”.
“Cioè?”.
“Smolnikov si incazzò a morte, non solo con Ekaterina e con il milanese, ma in generale contro gli italiani, specie quelli che scopavano la ragazza. Ma soprattutto, proprio in quel momento il KGB annunciò in una conferenza stampa, altro che virgole della Tass, che avrebbe cambiato nome in FSB, e che avrebbe epurato le sue fila, fuori i più compromessi con il regime e dentro nuove
leve. Ovviamente era una balla, nel KGB era in corso una guerra di cannibali, a cui qualcuno sarebbe sopravvissuto, come nuovo agli occhi del regime democratico, e altri sarebbero stati divorati, mi segue?”, mi guardò fisso, finalmente, e notai che gli occhi erano cerchiati di rosso, come se Papi non dormisse da una settimana, annuii, lui riprese, ora sembrava agitato: “Per sopravvivere, Smolinikov doveva annullare l’affare della Tass, farlo sparire, l’avrebbe combinato poi, credo, ma in quel momento era troppo pericoloso, aveva perfino chiesto, mi disse Medvedev, un prestito alla Banca del Progresso, uno dei mega-squali che erano saliti a galla nel mare dell’economia sovietica in tempesta, per concludere la joint venture con il milanese, quindi aveva lasciato diverse tracce. La Banca non fece problemi, mai visto né conosciuto, Smolnikov.
Ekaterina? Riportata all’ovile, con botte e minacce e chissà dov’è finita. L’uomo della Tass sparito nel nulla, e Medvedev fu ritrovato con un colpo di pistola alla nuca in un vicolo qui vicino, su, verso la Tverskaja. E poi ci sono io…”. Mi guardò di nuovo negli occhi, hai capito ora?, voleva dirmi.
“Quindi cosa vuole da me?”, gli chiesi, un po’ brusco. Tutta quella storia, in fondo era solo un furto in grande ai danni dell’ex stato sovietico, una faccenda da sciacalli, mi aveva innervosito.
“Voglio tornare in Italia, ma non posso prendere un aereo con il mio passaporto, Smolnikov controlla ovviamente gli agenti della dogana all’aeroporto, a Sheremetyevo, mi beccherebbero subito”.
“Cioè vuole da me, ossia dall’ambasciata, un passaporto, magari diplomatico, con un nome fasullo”.
“Esattamente. Sarebbe per salvare un connazionale in pericolo, non servono a questo i consolati?”.
Feci un gesto vago, non potevo negare che i consolati servissero anche a questo, ma la maniera tranquilla, in fondo arrogante, con cui chiedeva un favore, un grosso favore, mi indispettiva. E chi sono, io? Un tuo servitore? E se ti ammazzano è per colpa tua, marxista-leninista del cazzo. Lo pensai, ma dissi, dato che sono un diplomatico di mestiere: “Devo esaminare la cosa, che peraltro
si basa solo sulle sue parole, e naturalmente parlarne con il console e, credo, con l’ambasciatore in persona, ci vorrà qualche giorno”.
Lui annuì, era il massimo che sperava di ottenere. Entrarono in quel momento nel bar quattro omoni biondi vestiti come dovessero partecipare a un safari, uno di loro reggeva una gigantesca Nikon, gli altri dicevano frasi in inglese-americano a voce alta, e ridevano forte, si sedettero a un tavolo non distante dal nostro e chiesero da bere, “uòdka”, gridavano.

“Reporter americani”, disse Papi, con una smorfia, e magicamente la ragazza bellissima ricomparve, si sedette al bancone e prese a fissare gli omoni. Feci un cenno con la testa, meglio che
usciamo, lui annuì.
Sul marciapiede il sole picchiava forte, onde di calore si abbattevano sulla facciata dell’Hotel Moskva, la gigantesca piscina di asfalto della Piazza del Maneggio sembrava in tumulto, la Zigulì parcheggiata là fuori era scomparsa. Ci allontanammo a passo lento, noi mediterranei sappiamo resistere al caldo, ma Massimo si fermò subito. Guardava un vecchio accucciato a terra in un angolo miracolosamente all’ombra, nella grande strada che portava alla sede dei sindacati e al Teatro Bolscioi.

Ma quello è…”, mormorò, si avvicinò al vecchio e si piegò, disse poche parole in russo, ascoltò la risposta, il vecchio pareva calcinato, le labbra bianche, sfinito, inutilmente ammucchiato.

Massimo si raddrizzò, mi spiegò: “Le presento Evgheni Denisov, già direttore di Radio Mosca”.
Di fianco all’uomo anziano, una coperta di quelle ricamate mostrava medaglie assortite, tra cui, ben riconoscibili, due Ordini di Lenin, oltre ad alcuni pezzi di cristalleria, una grande coppa e varie tazzine.

“La sua pensione basta appena per mangiare una settimana, e ha una moglie molto malata”, aggiunse Massimo.
Mi piegai a mia volta e indicai la coppa di cristallo. “Quanto vuole?”, chiesi a Massimo e a lui insieme. Denisov ebbe un sorriso che mi pare caparbio, per un istante lo immaginai giovane, soldato dell’Armata rossa, in qualche inimmaginabile massacro a fuoco, tedeschi buttati a terra, a pezzi, e istintivamente guardai verso il monumento ai caduti della Grande Guerra Patriottica, accostato all’altissimo muro del Cremlino, dove gli sposi novelli andavano a farsi la fotografia. L’uomo disse una parola. “Chiede due dollari”, disse Massimo, Cercai nel portafogli e ne estrassi un biglietto da cento dollari, che porsi a Denisov. Lui agitò le mani, scuoteva la testa. “Dice che non ha il resto”, spiegò Massimo, con tono di rimprovero: “E poi non vuole l’elemosina”.
“Gli dica che non è elemosina, la coppa mi piace davvero, e poi vorrei contribuire alla resistenza contro il nazismo”.
Massimo tradusse, Denisov se ne uscì in una gran risata, finalmente, allungò la mano e prese i cento dollari, con l’altra mano mi porse la coppa di cristallo.
“Spassiba”, gli dissi, quasi la sola parola russa che conoscevo.
Ce ne andammo. Misi la coppa sulla mia scrivania, al consolato, e mi serviva da promemoria, oltre ad essere un bell’oggetto probabilmente fabbricato prima del ’17. Se qualcosa volevo capire di quel che accadeva nel paese, nella ex Unione sovietica, nel frattempo smembrata in non so più quante repubbliche indipendenti, era attraverso quel cristallo che dovevo guardare.
Una settimana dopo, il console mi disse che si poteva fare, il passaporto diplomatico con un nome fasullo, in via del tutto eccezionale. Ma quando cercai Massimo trovai che il suo telefono era stato disattivato, e non avevo altro modo per rintracciarlo. Dopo un po’ mi misi l’animo in pace, era lui che aveva bisogno del passaporto “sano” e se non si faceva vivo, affari suoi. Vivo? Chiesi alla segretaria di segnalarmi, dai giornali di Mosca, tutte le notizie, articoli e trafiletti, su uomini all’incirca di quell’età trovati morti ammazzati in un vicolo o affogati nella Moscova, e ce n’erano molti, ma nessuno sembrava corrispondere. Massimo Papi era svanito nel nulla.
Fu circa un anno dopo che lo incontrai di nuovo. Non ci pensavo più, era solo una scheggia, tra milioni di altre, schizzate via pericolosamente quando l’Unione sovietica era esplosa, e poi mi ero già stufato, avevo chiesto il trasferimento in un altro posto, possibilmente il Venezuela, che immaginavo lietamente caraibico e per di più pieno di italiani e discendenti, mi avevano risposto va bene e anzi proposto per una promozione, da vice del vice a vice e basta, mi vedevo a sorbire cocktail tropicali su terrazze fresche, magari insieme a una ragazza dalla pelle colore dell’ambra, avrei imparato lo spagnolo e messo la coppa di cristallo dell’ex eroe mendicante sul mio tavolo, a testimoniare che la vita è fragile.
Ma una sera andai in un ristorante per ricchi non lontano dall’ambasciata. E per stranieri con i dollari. Ero con una collega, una donna noiosa e bruttina ma gentile che si occupava di relazioni culturali con il nuovo regime, saremmo stati sommersi di palline nere e rosse come antipasto e mangiato un ottimo borsch, ormai era autunno. Consegnai il soprabito a un cameriere, mi voltai ed eccolo lì,Massimo Papi, che indossava un doppiopetto che nei film americani anni trenta avrebbe dichiarato che chi lo indossa è un gangster. Lui invece lo portava con una certa noncurante eleganza, un grosso anello con un rubino a un dito, i capelli pettinati all’indietro e la faccia liscia, cioè senza più barba, tanto che per un istante non lo riconobbi.

Ma lui mi prevenne: “Ah, buonasera, è lei, che piacere”.
“Piacere” era una parola grossa, Comunque la mia vena diplomatica tornò a galla, gli strinsi la mano e gli presentai la mia collega. Lui disse, indicando la donna bionda al suo fianco: “Le presento mia moglie, Ekaterina”, e fece un sorriso furbo, alla fine aveva vinto lui, niente più milanesi né ufficiali del KGB, ora è solo mia. Lei, Ekaterina, era effettivamente stupenda, molto meno larga, la faccia, di come appariva nella piccola foto che Massimo mi aveva fatto vedere nel bar del Moskva.
Papi chiese se volevamo cenare con loro, “e siete miei ospiti”, aggiunse. E così andò, mangiammo le palline che puzzano di pesce e il borsch raffinato del ristorante, chiacchierando di vaghezze italiane e russe. La mia collega, Rosanna, trovò che Papi era un uomo davvero gentile, e sua moglie bellissima, non mi chiese come l’avessi conosciuto, era una diplomatica anche lei, ma la sua
considerazione per me aveva salito qualche gradino, alla fine della serata.
Fu il giorno dopo, ero appena arrivato in ufficio, che la segretaria mi chiamò: “C’è un signore per lei, si chiama Papi, dice che lei lo conosce”. Le dissi di farlo entrare.
Massimo indossava ora dei jeans dall’aria costosa, almeno per Mosca, e una giacca Armani molto casual. Sorrideva furbo, mi porse la mano e si sedette su una delle due poltroncine davanti alla mia scrivania, e per essere gentile io mi sedetti sull’altra. “Il passaporto si poteva fare”, gli dissi senza preamboli.
“Beh, non so come ringraziarla, anche se ora non serve più”, rispose. Ci pensò su un momento, aggiunse: “Possiamo darci del tu?”.
Ebbi un’esitazione: “Non vedo perché no”, risposi. Dissi: “Il passaporto non serve più perché ora ti sei sistemato, e anche piuttosto bene, mi pare”.
Lui annuì, un po’ di malavoglia.
“Cos’è successo?”, chiesi. Volevo dire: e Smolnikov, la mattanza dei testimoni, ecc.?
“Sarò sincero, non è merito mio. E’ che la Banca Progresso ha deciso di farla finita con le schifezze, ha assorbito Victory, la piovra, e quanto alle fazioni, il KGB… Eh, adesso si chiama in un altro modo, è sempre la solita roba, ma deve mantenere l’apparenza, ecco, e lo stesso vale per gli affari”.

“E così?”.
“Così Smolnikov e la sua banda sono stati, come posso dire, epurati”.
“Ammazzati?”.
“Qualcuno sì e qualcuno no. Smolnikov è stato mandato in pensione, credo che ora occupi il pezzo di marciapiede dove un anno fa si trovava Denisov… eh, il mio vecchio direttore, l’eroe di guerra…”, e indicò la coppa di cristallo sulla mia scrivania: “Cento dollari, eh?”, mi guardò ironico, ma sembrava quasi affettuoso.
“Dov’è finito Denisov?”, chiesi.
“Sta con la moglie, che ormai sta morendo, diciamo che gli do una mano io. Perché, per così dire, quel che faccio è a fin di bene”.
“E cosa fai?”.
“Mah, un po’ di tutto. Alla banca serve, uno come me, grazie alla radio conosco un sacco di gente, posso trattare con gli italiani e ho anche imparato l’inglese, diciamo che faccio il mediatore e anche un po’ l’organizzatore, in questa città si compra e si vende qualunque cosa, dai minerali non ferrosi alle licenze di costruzione per i nuovi super-hotel, dai beni di conforto illegali, diciamo così, alle signorine…”.
“Come l’amica di Ekaterina”.
“Per esempio, ce ne sono a battaglioni”.
“E il fin di bene in cosa consiste?”.
“Non ci crederai, ma io sono sempre un comunista. Voglio dire che qui c’è stata un’apocalisse perché il modello era sbagliato, vecchio, corrotto. Ma se ci infiltriamo in quel che accade, afferriamo qualche filo e altri ne muoviamo, se favoriamo quelli giusti contro quelli sbagliati…”.
“Per esempio?”, il discorso di Papi sembrava un delirio, ma interessante. Ed era passato al “noi”, chissà chi.
“Beh, per esempio finanziamo qualcuno del rinato Partito comunista, e proteggiamo le ragazze…”.
“Vale a dire?”.
“Non hai idea di cosa combinano la mafia cecena e quella georgiana, che razza di schifezze fanno, come trattano le donne. Noi li teniamo a bada, fatevi più in là, questo è il messaggio”.
“Ma non è anche questa una forma di capitalismo selvaggio? Di mafia?”, la domanda era cruda, me ne pentii subito, ma lui non alzò nemmeno un sopracciglio.
Rispose: “Stalin rapinava i treni per finanziare la rivoluzione, no? E come disse un mio dirigente del Pcd’I, se le porcate le fanno gli altri sono solo porcate, se le facciamo noi sono la premessa della giustizia sociale”.
“Giusto”, dissi, l’ironia era molto debole, conoscevo quel modo di ragionare, fin dall’epoca in cui militavo nel servizio d’ordine del mio gruppo, negli anni settanta. Aggiunsi: “E sei venuto a dirmi questo, che fai porcate comuniste?”, qui l’ironia era diventata sarcasmo.
“No, a farti una proposta”.

“A me?”.
“Proprio”.
“Dimmi”.
“A noi, alla Banca, servirebbe molto un diplomatico italiano dal pedigree immacolato. Un interfaccia, diciamo così, con i branchi di lupi che scendono qui per fare affari, e anche uno che sa cosa pensa il governo e come lo dice all’ambasciatore. E naturalmente c’è da guadagnare molto bene…”, e disse una cifra, in dollari, che mi sembrò uno scherzo, sebbene lui fosse serissimo. Poi di
colpo sorrise: “E ci sono dei benefit. L’amica di Ekaterina, per esempio, in questo momento non ha un fidanzato…”, non resistette e rise forte.
Nonostante tutto, anche a me salì alle labbra una risata, breve ma genuina. Stavo per rispondere “ma no, ma che ti salta in mente, io andrò in Venezuela…”, ma mi frenai. Ci scambiammo numeri di telefono e convenevoli e Massimo Papi se ne andò.
Più tardi, ormai era buio, mi sorpresi a fissare la coppa di cristallo di Denisov, riflettevo, anzi mi chiedevo con Più tardi, ormai era buio, mi sorpresi a fissare la coppa di cristallo di Denisov,
riflettevo, anzi mi chiedevo con ansia crescente: posso accettare una proposta simile? Lo posso davvero fare?