di Fabio Alberti – “Ciò che rese la guerra inevitabile fu l’ascesa della potenza di Atene e la paura che questa causò a Sparta” Tucidite, V sec. a.C.
Più di uno, nel disperato tentativo di giustificare il traforo della Val di Susa ha tirato in ballo la cosiddetta nuova via della seta. Nulla di più improprio, come ha validamente argomentato[1] il prof. Angelo Tartaglia. La Silk Road Economic Belt, non passerà dalla val di Susa, ma, come ormai noto, da Trieste.
Con anni di ritardo l’attenzione dei media sulla strategia economica e geopolitica della Cina di Xi Jinping per connettere la Terra di Mezzo e l’Europa attraverso l’Asia e gli oceani è stata richiamata in questi giorni dal duro monito statunitense contro l’eventualità di un accordo italo-cinese sul porto di Trieste, che “metterebbe a rischio la stessa partecipazione italiana nella Nato”.
In realtà le trattative su Trieste sono in campo da anni e non si vede il motivo per cui non dovrebbero concludersi. L’individuazione del porto friulano come terminale della componente marittima della Belt and Road Initiative (BRI) era già implicita nell’adesione italiana nel marzo 2015 alla Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIB), l’istituzione finalizzata al finanziamento della BRI promossa dalla Cina con l’adesione di 57 Stati (ma non degli USA) e nella partecipazione del Presidente Gentiloni (unico capo di stato del G7) al Forum sulla BRI tenutosi in Cina nel maggio 2017[2].
L’altro terminale, quello della componente terrestre, esiste da tempo. È a Duisburg, antica capitale europea dell’acciaio nel cuore della Germania, ove arrivano già oggi 25 treni merci al giorno direttamente dalla Cina, ove è arrivato a gennaio il primo treno diretto dal Giappone, ove tutti i colossi mondiali della logistica stanno impostando i loro hub europei e dove Amazon ha aperto il proprio più grande magazzino continentale.
L’accordo italiano su Trieste segue quindi quello tedesco su Duisburg. Tra il Porto di Trieste e la Duisburg Hafen è già stato firmato, a metà 2017, un accordo di collaborazione strategica[3] e sono in corso colloqui per rafforzare con finanziamenti cinesi il collegamento ferroviario[4] tra i due terminali della via della seta. Comprensibile che il Governo italiano non voglia fare marcia indietro.
Ma andiamo con ordine. L’idea di un rafforzamento delle infrastrutture di comunicazione e logistica in Asia era già stata lanciata dall’allora Segretaria di Stato dell’amministrazione Obama, Hillary Clinton, nel 2011. La New Silk Road[5] (questa la denominazione usata) avrebbe dovuto connettere Europa e Centro/Sud Asia, fino all’Afganistan, per quanto riguarda trasporti, commerci e flussi energetici. Il progetto mirava a inserire nell’area di influenza atlantica gran parte dell’Asia centrale in funzione di contenimento della influenza cinese e russa, era probabilmente velleitario perché non sostenuto dagli investimenti necessari e probabilmente perché proprio l’esclusione della Cina faceva mancare la dimensione necessaria al suo successo. In ogni caso non ha mai preso davvero avvio. Nel 2017 è stata nuovamente citata da Trump, come alternativa alla BRI, con una aumentata enfasi sul ruolo dell’India[6].
L’iniziativa cinese è invece molto più concreta.
La Belt and Road Initiative[7] – BRI (“Iniziativa Cintura e Strada”), è stata annunciata nel 2013 da Xi Jinping durante una visita in Kazakistan e più volte definita come strumento per la realizzazione del “Chinese Dream of the Great rejuvenation of the Chinese nation” e proposto al mondo nell’ambito come una cooperazione win-win per la “costruzione di una società umana dal futuro condiviso”. Il concetto di fondo proposto è che il rafforzamento delle infrastrutture di connessione tra i paesi non solo fa bene alla crescita dell’economia cinese, e dei paesi interessati, ma contribuisce a costruire la pace.
La BRI interessa oltre 68 Stati, in cui vive il 65% della popolazione mondiale e in cui si produce il 40% del Prodotto Interno Lordo del pianeta, è supportata da una iniziale previsione di investimento di 1000 miliardi di dollari attraverso la AIIB ed il Silk Road Fund (40 miliardi) cinese e dovrebbe mettere in moto, secondo il Consiglio di Stato cinese, investimenti sino per 8 trilioni di dollari[8]. Se realizzata la BRI è destinata a modificare sostanzialmente la struttura della logistica globale, ma sarà anche un potente strumento di intervento geopolitico per fare della Cina un attore globale.
La BRI, è basata su due componenti: una componente terrestre la Silk Road Economic Belt (la Cintura), con un insieme di corridoi stradali, ferroviari, energetici e informatici e una via marittima, la 21st Century Maritime Silk Road (la Strada), che dovranno connettere il gigante asiatico con l’intera Asia, l’Africa e l’Europa. In Europa i corridoi si attesteranno a Duisburg, in Germania e a Trieste (inizialmente era indicata Venezia). Due rotte sulle quali si prevede correrà una grande parte dei flussi di merci, di energia e di relazioni del futuro.
La Cintura
Sulla terraferma la Cintura Euroasiatica, l’Eurasian Land Bridge, origina dall’immenso “porto di terra” cinese realizzato a Khorgos al confine con il Kazakistan, attraverso Russia, Bielorussia, Polonia e Germania, raggiunge il cuore dell’Europa ove nello scorso anno sono già giunti 10.000 treni merci cinesi, diretti in 14 paesi europei.
Accanto alla Cintura Euroasiatica completano il quadro una serie di altri corridoi intrasiatici[9], tra cui di grande importanza Il China-Pakistan Economic Corridor (CPEC) destinato a connettere direttamente l’entroterra cinese con l’oceano indiano nel porto, già sotto il controllo cinese, di Gwadar in sul mar Arabico. Il CPEC permetterà di accorciare le rotte marittime e, soprattutto di bypassare l’imbuto dello stretto di Malacca, assicurando così una rotta più breve e più sicura per l’approvvigionamento di petrolio dalla penisola arabica. Il CPEC attraversa, nonostante le proteste di Delhi, i territori del Kashmir amministrato dal Pakistan dove, forse non a caso, assistiamo oggi ad un confronto militare aperto dall’India con il preemptive strike seguito ad un attentato terroristico messo a segno nel Kashmir indiano da un gruppo separatista.
Nei paesi della Cintura la Cina sta finanziando o cofinanziando progetti di costruzione e ammodernamento di porti, aeroporti, ferrovie, strade, reti energetiche e di telecomunicazione. Secondo il governo cinese i paesi interessati in Asia stanno già crescendo a ritmi sostenuti.
Gran parte dei treni che arrivano in Europa giungono pieni e ritornano vuoti, a testimoniare il deficit commerciale del vecchio continente verso la Cina. Il corridoio terrestre però crescerà di importanza, man a mano che le linee di trasporto verranno modernizzate e si accorceranno i tempi di percorrenza, già ora dimezzati, diventando maggiormente competitive rispetto alle rotte marittime che tuttora veicolano il grosso delle esportazioni cinesi.
Vanno infine citate le numerose iniziative infrastrutturali in corso da tempo in Africa, tra l’altro in Etiopia, Nigeria, Sudan, Kenya; la Polar Silk Road che guarda alle rotte artiche verso l’Europa; la Space Silk Road[10].
La Strada
La via marittima, la 21st Century Maritime Silk Road, è oggi ancora la principale linea di trasporto delle merci cinesi che viaggiano via mare per l’80%. Lungo queste rotte l’iniziativa cinese mira ad infrastrutturare il percorso con l’acquisizione del controllo o della proprietà dei porti lungo il percorso. Già sono nelle disponibilità cinese, tra gli altri, i porti di Colombo in Sri Lanca, Gwadar in Pakistan, Gibuti all’ingresso del Mar Rosso e del Pireo in Grecia, mentre sono in corso da tempo, come noto, trattative per realizzare il terminale di Trieste.
Ma il principale investimento su questo percorso è in realtà di tipo militare. Dal punto di vista cinese infatti il principale limite di questa via di comunicazione, insieme ai lunghi tempi di percorrenza, risiede nel potere di interdizione che le marinerie di altri paesi potrebbe mettere in atto nel Mar Cinese Meridionale e nello Stretto di Malacca, da cui passa un terzo del commercio mondiale e l’85% del petrolio necessario ad alimentare il miracolo economico cinese.
Il White Paper del 2015 “China’s Military Strategy” del Consiglio di Stato cinese, stabilisce che “La mentalità tradizionale secondo cui la terra è più importante del mare deve essere abbandonata e grande importanza deve essere attribuita alla gestione dei mari e degli oceani e alla protezione dei diritti e degli interessi marittimi”. Lo stesso documento ha modificato il concetto strategico della Marina da “Difesa delle acque profonde” a “Difesa delle acque profonde e protezione dei mari aperti”, includendo esplicitamente tra i suoi compiti la tutela delle rotte di comunicazione marittima e degli “interessi nazionali” all’estero[11].
Nelle ultime decadi la marina cinese ha moltiplicato le proprie forze, superando nel 2018, almeno per numerosità di vascelli, quella degli Stati Uniti e divenendo così la prima marina militare mondiale[12]; ha stabilito la sua prima base militare all’estero proprio a Gibuti[13] collocato di fronte allo Yemen all’imboccatura del Mar Rosso e quindi del canale di Suez, dove transitano 20.000 navi l’anno e il 20% del commercio mondiale; svolge da anni regolari missioni navali “anti-pirateria” nel golfo di Aden e promuove frequenti esercitazioni militari nel Mar della Cina Meridionale, ove ha costruito enormi basi logistiche su isole artificiali nell’arcipelago delle Spratly e dove è in corso una pericolosa frizione internazionale.
Nel Mar Cinese Meridionale, su buona parte del quale la Cina rivendica sovranità sin dal 1947, in contrasto con Filippine, Vietnam, Brunei, Malaysia e Taiwan, si trova oggi la principale fonte di frizione sulla Belt and Road Initiative.
Il rapporto biennale del Dipartimento della Difesa al Congresso statunitense sul militare cinese mette al primo posto delle preoccupazioni la crescita della potenza marittima cinese e cita la stessa Belt and Road Initiative come iniziativa ostile. [14] Gli USA effettuano sempre più frequenti operazioni di avvicinamento alle acque rivendicate da Pechino con operazioni definite di “difesa della libertà di navigazione” che sono considerate provocatorie da parte cinese.
Già numerosi sono stati gli incidenti di carattere militare sfiorati. Da ultimo Il 2 ottobre 2018 navi da guerra cinesi e statunitensi sono state a un passo dalla collisione in prossimità delle isole Spratly, il 14 gennaio scorso lo stesso è avvenuto presso le isole Xisha. Un confronto, quello sino-statunitense sulla via della seta marittima, che può in ogni momento sfuggire di mano secondo l’allarme lanciato il 31 dicembre dall’ex presidente Jimmy Carter: “War between our two nations is not inconceivable”[15].
Non è tutto oro
Il valore per l’espansione dell’economia cinese, ancora basata sull’esportazione, di questa grande rete di interconnessione che dovrebbe riunificare l’Eurasia è evidente di per sé. Ed anche il potenziale di sviluppo che può essere generato nei paesi interessati. Ma le implicazioni geopolitiche della BRI vanno evidentemente ben al di là.
I massicci prestiti che la Cina sta concedendo ai paesi interessati dai corridoi possono diventare potenti strumenti di influenza politica sui paesi che potrebbero trovarsi nella trappola del debito rendendoli tributari di Pechino. È già successo con lo Sri Lanca che, non essendo in grado di restituire il debito contratto per la costruzione del porto di Hambantota è stata costretto a cederne il controllo per 99 anni e con il Tagikistan, dove in cambio della cancellazione del debito la Cina ha preteso la consegna di 1158 chilometri quadrati di territori disputati. Il Center for Global Development ha identificato otto paesi che potrebbero avere problemi di indebitamento a causa di finanziamenti per la BRI: Gibuti, il Kirghizistan, il Laos, le Maldive, la Mongolia, il Montenegro, il Pakistan e il Tagikistan. Il CGD elenca anche 84 casi in cui la Cina ha concesso l’annullamento o la ristrutturazione del debito a favore di paesi tributari, in gran parte in Africa[16], e non è detto che si tratti di beneficienza.
Preoccupazione dovrebbe destare anche il problema della sostenibilità ambientale e sociale di un modello di sviluppo basato su una sempre più ampia circolazione delle merci, sempre più consumate in un emisfero opposto a quello in cui sono prodotte. Il modello proposto si basa su grandi opere e anche se gran parte dei paesi attraversati hanno una evidente carenza infrastrutturale, potrebbe implicare, nonostante l’insistenza cinese sulla sua sostenibilità, una accelerazione dell’entropia terrestre.
Un ampio studio delle implicazioni di sicurezza e i rischi per la pace della BRI è stato condotto dal SIPRI, con il finanziamento della fondazione socialdemocratica tedesca FriedrichEbert-Stiftung[17].
L’Europa e la BRI
La Russia, per ora appare come uno dei partner di maggior rilievo dell’impresa, anche se non mancano frizioni tra i due paesi per la crescita dell’influenza cinese in territori che Mosca considera di propria pertinenza. Mentre la posizione statunitense è ben illustrata dalle manovre militari nel MCM e dal monito contro l’accordo italo-cinese. In un disperato tentativo di difesa della loro passata supremazia gli Stati Uniti stanno aprendo accanto alla guerra commerciale e tecnologica anche sempre più esplicite iniziative di contrasto.
La situazione europea è più complessa. Confermando la propria vocazione di nano politico neoliberale l’Europa non è stata in grado sinora di affrontare nel suo complesso la sfida e/o le opportunità per il futuro che la BRI costituisce. Né appare esistere, almeno nei documenti pubblici una seria valutazione su come e se il progetto di interconnessione intraeuropea Trans-European Network for Transport (TEN-T) si debba/possa integrare con l’iniziativa infrastrutturale cinese.
Solo nel settembre 2018 la Commissione ha varato un proprio documentino[18] “Elementi costitutivi verso una strategia dell’UE di connessione tra Europa e Asia” che sembra redatto nel vuoto (la BRI non è nemmeno citata e la Cina viene chiamata in causa marginalmente). Il documento si concentra sui trasporti intraeuropei e con i paesi più vicini, sembra più interessato ad annettere il centro Asia (soprattutto per l’energia) che a unire, si limita a richiamare il problema della sostenibilità e ed insiste soprattutto sulla richiesta di regole condivise e di tutela del libero mercato. La preoccupazione principale sembra essere la posizione delle aziende europee nella realizzazione delle infrastrutture. La BRI è definita “contraria alla politica di promozione del libero scambio della Ue, e destinata ad avvantaggiare solo compagnie cinese sussidiate”, in un documento che sarebbe stato siglato nel 2017 dagli ambasciatori europei a Pechino. Ma il maggiore limite della posizione europea è la mancanza di disponibilità ad investimenti pubblici: non viene previsto un piano di investimenti, ma solo ipotizzato il “supporto agli investimenti privati in progetti di connettività”.
Ma mentre la UE stava a guardare gli Stati europei non hanno fatto altrettanto, rispondendo alla proposta di accordi bilaterali secondo il modello seguito dalla Cina in Europa.
20 stati della UE su 28 sono membri, o lo stanno per diventare, della AIIB[19], la banca fondata esplicitamente per il finanziamento della BRI, con il conferimento di un capitale complessivo di 20 miliardi di dollari e una partecipazione del 20%. In testa tra i paesi europei è la Germania (con il 4.65% delle azioni), seguono la Francia, il Regno Unito e l’Italia, che con un investimento di 2,5 miliardi detiene il 2.67% delle quote.
Già si è detto dell’accordo tra Cina e Germania per la realizzazione del terminale di Duisburg, cui vanno aggiunti ad esempio investimenti della COSCO shipping nei porti del Pireo (Grecia), Noatum (Spagna), Zeebrugge (Belgio), Rotterdam (Olanda), Amburgo (Germania).
Nell’ambito dell’iniziativa “16+1”[20] 11 paesi centrorientali della UE e 5 paesi dei Balcani hanno stretto relazioni bilaterali con la Cina e sono già previsti finanziamenti per infrastrutture come la linea ferroviaria Belgrado-Budapest. Nel corso del settimo incontro dei “16+1” a Sofia lo scorso anno sono stati firmati più di venti accordi di cooperazione bilaterale nel contesto della Belt and Road Initiative[21].
Considerazioni
Il vecchio assioma geopolitico “chi controlla l’energia controlla il mondo” può forse oggi essere declinabile in “chi controlla i flussi controlla il mondo”. Dunque dopo le guerre per il petrolio potremmo assistere alle guerre dei corridoi? Già gli eventi della Siria e dell’Ucraina possono essere così inquadrati? Certo lo possono essere le frizioni attuali nel Mar della Cina Meridionale e tra India e Pakistan.
L’assetto politico-economico che potrebbe emergere dal pieno dispiegamento dell’iniziativa cinese ci parla di un pianeta in cui la transizione di potere avviatasi dopo la caduta del muro di Berlino evolve in una direzione molto distante dal sogno/incubo del “secolo americano”, ma anche dalla tranquillizzante certezza europea di essere il motore della storia. Potrebbe essere un mondo molto diverso da quello che conosciamo e che abbiamo conosciuto negli ultimi secoli. Ancora sconosciuto. E forse con scenari ancora aperti.
L’America di Trump (quella di Obama sembrava aver capito in parte la lezione dell’Iraq) sembra aver imboccato con decisione la strada del contrasto. Dalla guerra dei dazi, a quella tecnologica, alle recenti minacce ai paesi che interloquiscono sulla via della seta, si prepara un periodo in cui la Terra di Mezzo sarà il nuovo Impero del Male. Potrebbe finire come all’inizio del novecento quando la collisione tra i crescenti imperialismi europei, dopo aver colonizzato il mondo, aprì la strada alla Grande Guerra. La frequenza con cui nei circoli politici si parla della possibilità di un conflitto armato Usa-Cina è preoccupante. Come è preoccupante l’ossessione per la Cina che si legge nel rapporto della Commission on the National Defense Strategy del Congresso Usa. Già, da noi, la crociata anticinese sta facendo proseliti. Si vedano le dichiarazioni di Berlusconi che ha fatto del contenimento della Cina il leit motif della campagna elettorale europea.
Su un altro versante la prudenza strategica sinora tenuta dalla Cina potrebbe lasciare il passo, sotto la spinta della necessità di sostenere una crescita economica che garantisce la stabilità interna, a nuovi atteggiamenti maggiormente assertivi ritenuti sostenibili per la crescita di influenza geopolitica, retroalimentando così la voglia americana di menar le mani.
Ma la iniziativa cinese ha questo di positivo: che si pone, almeno sulla carta e nelle dichiarazioni, come “proposta aperta e inclusiva”, “un processo di cooperazione aperto, pluralistico e altamente flessibile”[22]; e rimette al centro la pianificazione politica, bilaterale e multilaterale, di lungo periodo invece dello sviluppo incontrollato governato dalle forze di mercato.
Molte sono le contraddizioni e i problemi sulla via della seta, dalla noncuranza per i diritti umani e per lo stato di diritto, ai problemi di sostenibilità del modello, al rischio di nuovo colonialismo. Ma forse la sfida andrebbe presa sul serio, sfuggendo alla paura.
L’idea del futuro condiviso come alternativa alla guerra e della cooperazione come alternativa alla competizione, dovrebbe essere presa sul serio da un’Europa che sia in grado di accettare l’idea di non essere più il centro del mondo e che invece di arrancare disperatamente per tornare ad esserlo o di proiettare su altri l’immagine della propria storia coloniale, si metta in cammino con i partner possibili per disegnare il mondo che verrà e sfuggire alla trappola di Tucidite.
L’alternativa potrebbe essere il governar (o essere governati) su macerie.
[1] http://sbilanciamoci.info/lelefante-feticcio-della-tav-e-la-via-della-seta/
[2] https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-05-16/gentiloni-xi-vuole-inserire-porti-italiani-via-seta-092436.shtml?uuid=AEjxHBNB
[3] http://www.adriaports.com/it/porto-di-trieste-e-duisport-partnership-strategica-sulla-della-seta
[4] http://www.adriaports.com/it/porto-di-trieste-nuovi-investimenti-sulla-ferrovia-si-conferma-linteresse-della-cina
[5] https://www.state.gov/p/sca/ci/af/st/newsilkroad/
[6] https://www.ndtv.com/india-news/us-india-to-revive-new-silk-road-to-counter-chinas-belt-and-road-obor-project-1697632
[7] http://english.gov.cn/archive/publications/2015/03/30/content_281475080249035.htm
[8] L’Asian Development Bank ADB stima il fabbisogno finanziario per le infrastruttura in Asia in 26 trilioni di dollari nel prossimo quindicennio (https://www.adb.org/sites/default/files/publication/227496/special-report-infrastructure.pdf)
[9] Il China–Mongolia–Russia Corridor, il China–Central Asia–West Asia Corridor che raggiunge la Turchia, il China–Indochina Peninsula Corridor che raggiunge Singapore, il Bangladesh–China–India–Myanmar (BCIM) Economic Corridor
[10] https://www.beltroad-initiative.com/space-silk-road/
[11] http://english.gov.cn/archive/white_paper/2015/05/27/content_281475115610833.htm
[12] https://chinapower.csis.org/china-naval-modernization/
[13] https://www.analisidifesa.it/2018/01/limportanza-della-base-di-gibuti-per-la-cina/
[14] https://media.defense.gov/2018/Aug/16/2001955282/-1/-1/1/2018-CHINA-MILITARY-POWER-REPORT.PDF
[15] https://www.washingtonpost.com/opinions/jimmy-carter-how-to-repair-the-us-china-relationship–and-prevent-a-modern-cold-war/2018/12/31/cc1d6b94-0927-11e9-85b6-41c0fe0c5b8f_story.html?utm_term=.12c32c1b4589
[16] https://www.cgdev.org/sites/default/files/examining-debt-implications-belt-and-road-initiative-policy-perspective.pdf
[17] http://library.fes.de/pdf-files/iez/13188-20170223.pdf – https://www.sipri.org/sites/default/files/2018-09/the-21st-century-maritime-silk-road.pdf
[18] https://eeas.europa.eu/sites/eeas/files/joint_communication_-_connecting_europe_and_asia_-_building_blocks_for_an_eu_strategy_2018-09-19.pdf
[19] Austria, Cyprus, Denmark, Finland, France, Germany, Hungary, Ireland, Italy, Luxembourg, Malta, Netherlands, Poland, Portugal, Romania, Spain, Sweden, United Kingdom. Belgio e Grecia stanno aderendo. https://www.aiib.org/en/about-aiib/governance/members-of-bank/index.html
[20] Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia e Slovenia (membri dell’UE), Albania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Montenegro e Serbia
[21] http://global.chinadaily.com.cn/a/201807/09/WS5b429e38a3103349141e16a8.html
[22] http://english.gov.cn/archive/publications/2015/03/30/content_281475080249035.htm