Il 21 settembre del 2022, intervenendo all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’allora Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi dichiarava: “Le sanzioni che abbiamo imposto a Mosca hanno avuto un effetto dirompente sulla macchina bellica russa, sulla sua economia. La Russia fatica a fabbricare da sola gli armamenti di cui ha bisogno, poiché trova difficile acquistare il materiale necessario a produrle. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che l’economia russa si contragga quest’anno e il prossimo di circa il 10% in totale, a fronte di una crescita intorno al 5% ipotizzata prima della guerra. L’impatto delle misure è destinato a crescere col tempo, anche perché alcune di esse entreranno in vigore solo nei prossimi mesi. Con un’economia più debole, sarà più difficile per la Russia reagire alle sconfitte che si accumulano sul campo di battaglia”.
Nulla di strano che Draghi vantasse l’efficacia delle sanzioni dato che, secondo molte fonti di stampa, era stato lui stesso a formulare gran parte delle proposte poi adottate, oltre a suggerire il congelamento dei fondi della Banca di Stato russa depositati in vari paesi europei.
A distanza di un anno e mezzo da quel discorso è difficile non rilevare come quelle previsioni fossero completamente sbagliate. L’economia russa non è crollata, l’accesso alle materie prime, considerato che la maggioranza degli Stati nel mondo non ha aderito alle sanzioni, pur con qualche difficoltà è continuato e oggi la Russia ha una netta prevalenza di munizioni e armamenti su quelli disponibili per l’Ucraina.
Secondo gli esperti di questioni militari la situazione sul terreno vede l’esercito russo, che ha superato almeno una parte dei numerosi problemi organizzativi, errori strategici e difficoltà logistiche del primo periodo, contare su una certa prevalenza che gli consente di essere all’offensiva. L’ultimo evento significativo è stato l’espulsione degli ucraini da Avdiivka, dopo un lungo assedio e una ritirata che, secondo molti osservatori, è stata troppo ritardata per volontà di Zelensky.
La natura della guerra combattuta in Ucraina, a partire dall’invasione russa del 22 febbraio 2022, ricorda sempre di più certi aspetti della prima guerra mondiale, piuttosto che le guerre intraprese dall’Occidente dopo la fine dell’Unione Sovietica. Queste ultime si basavano su una enorme sproporzione di mezzi e tecnologia tra l’esercito statunitense e i suoi alleati e le forze messe sotto attacco (certamente in Serbia e in Libia, ma anche in Iraq). Iniziavano con massicci bombardamenti tali da distruggere le infrastrutture del paese sotto attacco e da rendere consapevoli gli attaccati che erano destinati alla sconfitta.
In Ucraina si è tornati alla guerra di trincea, con conflitti durati mesi e ingenti perdite per conquistare centri minori (Bakhmut prima, Avdiivka poi) che non modificano in modo decisivo l’equilibrio della guerra. Tutto questo ha diverse implicazioni per le due parti combattenti. La Russia finora ha evitato significativi smottamenti del fronte interno, anche attraverso la repressione delle opinioni dissidenti o solo moderatamente critiche. Ma ha anche dimostrato di avere risorse maggiori di quelle che le venivano attribuite dalla propaganda occidentale e dallo stesso Draghi.
Dal versante ucraino i problemi sono molti anche proprio per la natura della guerra, che si combatte sul terreno e metro per metro. Questo si traduce innanzitutto nella necessità di un enorme quantità di munizioni per l’artiglieria. E queste al momento iniziano a mancare. Gli Stati Uniti sono bloccati dal conflitto interno tra Repubblicani e Democratici anche se questa settimana si andrà forse ad un voto decisivo alla Camera dei Rappresentanti per dare il via libera ad un consistente finanziamento di 60 miliardi di dollari. Restano però problemi di capacità di produzione industriale che si cerca almeno in parte di risolvere con l’intervento di paesi lontani dal conflitto, come la Corea del Sud.
L’Unione Europea nonostante lo spirito bellicista che oggi domina il suo establishment (di quasi tutti i colori politici, tranne settori della sinistra radicale e governi che per ragioni proprie si dissociano dal coro) non ha le capacità produttive militari per sostituire gli Stati Uniti. Anche se la strada è quella di sviluppare l’industria di armamenti e aumentare le spese militari tutto questo non è in grado di apportare una svolta in tempi brevi. Il finanziamento dei paesi europei all’Ucraina ha superato complessivamente quello degli Stati Uniti ma è stato destinato sostanzialmente a mantenere in vita quel poco di economia attiva e a pagare stipendi e pensioni.
Zelensky in questi giorni si lamenta perché gli eserciti occidentali non intervengono in Ucraina come sono intervenuti a difesa di Israele a fronte del lancio di droni e missili dall’Iran. Paragone improponibile, in primo luogo per le caratteristiche specifiche dell’evento militare: l’attacco iraniano è stato volutamente concentrato nell’arco di poco ore, con preavviso indiretto a Israele attraverso gli Stati Uniti (via Svizzera). Voleva evidentemente essere dimostrativo più che efficace nel fare danni. In Ucraina sarebbe necessario un massiccio intervento militare che porterebbe all’apertura di un conflitto esplicito (non solo implicito com’è ora) tra Russia e paesi occidentali. Un limite che finora non è stato valicato, anche se non si può escludere che lo sia in futuro.
Ma al di là delle carenze di forniture militari che in ogni caso non cambierebbero la postura difensiva dell’esercito ucraino, il problema più consistente che Kiev deve affrontare è la carenza di uomini di mettere in trincea. La spinta dei volontari, motivati da acceso nazionalismo (tra i quali coloro nostalgici della collaborazione col nazismo) si è da tempo esaurito. L’unica strada percorribile è ampliare la mobilitazione generale ed obbligatoria a nuove classi di età.
L’età minima per essere arruolati era fino a pochi giorni fa di 27 anni. Il che ha prodotto un esercito dall’età media piuttosto alta, come ha rilevato Jakub Ber, osservatore non certamente ostile del Centre for Eastern Studies di Varsavia (“On the threshold of a third year of war. Ukraine’s mobilisation crisis”). I generali di Kiev chiedono 500.000 soldati da buttare nelle trincee difensive nell’arco di pochi mesi. Per questo è stata approvata una nuova legge per la mobilitazione che abbassa l’età della coscrizione a 25 anni.
Finora la chiamata alle armi è stata segnata dalla corruzione nei centri di reclutamento e da una selezione selettiva che ha mandato al fronte soprattutto i più poveri e gli abitanti delle zone rurali, mentre i giovani delle classi medie e urbane sono in larga misura riusciti a sottrarsi al compito di imbracciare un fucile.
Benché sia stato introdotto quasi immediatamente dopo l’inizio dell’invasione il divieto di espatriare per tutti gli uomini adulti fino a i 60 anni, questo non ha impedito a molti ucraini di andarsene e non sarà facile farli tornare. Nel frattempo molti continuano a fuggire clandestinamente scappando a nuoto attraverso il fiume Tysa che consente di arrivare in Romania (New York Times, “In Ukraine’s West, Draft Dodgers Run, and Swim, to Avoid the War”).
Come mai Zelensky è stato così restio a mobilitare le classi d’età più giovani, quelle che normalmente costituiscono la “carne da cannone” delle truppe di fanteria? Diverse sono le spiegazioni. La prima è schiettamente politica: il presidente ucraino non voleva perdere il consenso per la guerra in questa fascia d’età che è risultata decisiva nella sua vittoria elettorale (e questa è la tesi anche del già citato Jakub Ber). La seconda ragione è più complessa e viene evidenziata da un accurato esame effettuato da Andrew Kramer, Josh Holder e Lauren Leatherby sul New York Times (“Can Ukraine Find New Soldiers Without Decimating a Whole Generation?”). L’Ucraina ha sofferto ancora più di altri paesi dell’ex Unione Sovietica e della stessa Russia degli effetti del cosiddetto “inverno demografico”, il tracollo della natalità che si è registrato con la fine dell’Urss e il ritorno del capitalismo. “Uomini in salute sotto i trent’anni, – scrivono i giornalisti del NYT – l’ossatura di gran parte degli eserciti, costituiscono la più scarsa generazione della storia moderna dell’Ucraina”. Questo significa non solo avere a disposizione meno combattenti nell’immediato ma anche, dato l’elevato numero di perdite, falciare drasticamente intere generazioni. Se non è rilevante ai fini del conflitto, lo è per il futuro dell’Ucraina il fatto che almeno 800.000 giovani donne tra i 18 e i 34 anni sono fuggite all’estero e viste le prospettive difficilmente torneranno.
La legge sulla mobilitazione approvata dal Parlamento nei giorni scorsi è stata modificata in extremis su richiesta dei generali dell’esercito eliminando la norma che fissava in 36 mesi la scadenza del periodo di coscrizione. Questa modifica ha allarmato sia i futuri arruolati che coloro che si trovano già al fronte per i quali non si intravede la fine della guerra se non da morti o da mutilati. E il fatto che il governo paghi 390.000 dollari alle famiglie dei caduti, una cifra enorme per i redditi medi dell’Ucraina, non è certo fonte di grande sollievo.
Del malumore dei combattenti dopo due anni e mezzo di trincea e senza prospettive di ritorno alla vita civile si è occupato Mansur Mirovalev sul sito di Al Jazeera (“At war until you die’: Ukraine scraps service limit, angering tired troops”). Senza limiti – e con il fallimento della controffensiva dell’anno scorso e ritardi di mesi negli aiuti militari occidentali – si rendono conto che il loro servizio può finire solo con la loro disabilità o la morte. “Il governo li ha umiliati e offesi”, ha detto ad Al Jazeera Alina, che vive a Kiev con due bambini. “Non sono eterni. Vogliono vedere i loro figli crescere, essere a casa”, ha detto. “Il provvedimento di smobilitazione – ha scritto Mirovalev – è stato abrogato su richiesta dei vertici ucraini che hanno citato una grave carenza di militari in prima linea, soprattutto nell’Ucraina orientale”.
Ma non sarà facile sostituire soldati almeno in parte volontari e maggiormente motivati perché arruolati nel momento dell’esaltazione nazionalista e della paura dell’occupazione di tutta l’Ucraina da parte dei russi, nel frattempo sperimentati dal lungo conflitto o dagli anni di guerra civile seguiti al colpo di Stato del 2014, con reclute che finora dalla guerra avevano preferito tenersi lontano.
I governi occidentali continuano a parlare di vittoria o quantomeno di mettere in condizione l’Ucraina di Zelensky di trattare da posizioni di forza. Il primo obbiettivo, che includeva anche la riconquista della Crimea, sembra sempre più un lontano miraggio, e la seconda condizione è abbastanza contraddittoria. Quando l’Ucraina sembrava in vantaggio sul terreno militare non c’era evidentemente ragione perché si fermasse e, nel momento in cui sono i russi a godere favorevole sono questi ultimi a non avere interesse a trattare. Almeno senza che vi sia in tal senso una chiara disponibilità da parte degli Stati Uniti che a Mosca considerano essere i veri registi del conflitto.
L’Occidente, l’Unione Europea e quello che in Francia è stato chiamato “il complesso militare-intellettuale” che si affianca a quello militare-industriale, ed è fatto di intellettuali frequentatori di salotti televisivi, editorialisti della grande stampa e così via, continuano a sostenere la necessità della continuazione della guerra a oltranza. Stoltenberg, alla guida della Nato, propone di decidere anticipatamente un finanziamento per 5 anni di guerra, in modo da sottrarre questa decisione ad eventuali cambiamenti di umore delle opinioni pubbliche dei paesi dell’Alleanza che potrebbero mandare al potere governi di diversa opinione.
Gli ucraini invece cominciano a dare segni di stanchezza com’è evidente dall’esaurimento dell’arruolamento volontario, dalla ritrosia di Zelensky nel decidere l’allargamento della mobilitazione, dall’insoddisfazione di coloro che stanno al fronte per una guerra senza fine. Prima o poi dovranno ragionevolmente riflettere sulla possibilità di trovare una soluzione politica che metta fine alla carneficina. Una “vittoria” il cui esito sarebbe per gli ucraini molto più devastante di una trattativa.
Franco Ferrari