Se questo fosse un racconto, si aprirebbe con la luce fioca dell’alba, un muretto a secco, magari in mezzo agli ulivi, con delle operaie in fila, stancamente appoggiate in attesa del furgoncino del caporale. Ma siamo in una ricca e prosperosa regione del nord, in quella fertile pianura padana che ha visto leghe e lotte contadine. Siamo in provincia di Ferrara e siamo nel terzo millennio: il caporale è sempre lo stesso, ma usa la tecnologia. Esistono le chat e le piattaforme digitali sono più rapide ed economiche di furgoni e muretti a secco: l’attesa e la speranza però restano le stesse. L’organizzazione dei turni procede ogni giorno così: si aspetta un messaggio alla sera con la lista e si scopre se si è in turno o no. Nessuna possibilità di pianificazione di impegni o di vita, si è appesi alla chat per sapere se e quando si lavora. In più il dispositivo è aggravato da un meccanismo di pene e ricompense del tutto arbitrario: hai chiesto un permesso? Sei antipatico al capo? Vieni sbattuto nei turni più scomodi o addirittura lasciato a casa, anche per più giorni consecutivi. Per contro: sei simpatico al capo, o sei particolarmente remissivo, avrai più giornate lavorative e magari ti mettono anche nei reparti migliori.
Tutti accettano supinamente questo meccanismo e non si pongono neppure il problema se possa essere giusto o se ci si possa meritare un mondo migliore. Il mantra ripetuto senza sosta è questo: comunque abbiamo un lavoro e di questi tempi è proprio una fortuna. E’ questa l’unica cosa che conta, poi che sia di qualità scadente, che sia al limite dello sfruttamento a loro non importa. Anzi conoscono bene quali sono i veri problemi: sono tutte le operaie che l’azienda prende in somministrazione nei periodi di grande lavoro. Sono loro la vera e unica minaccia: se le mettono in turno poi non si lavora e soprattutto, se imparano il mestiere e poi le tengono, rischio di essere messa a casa io. Per questo nessuna solidarietà, ma tante scorrettezze, piccole cattiverie e sciocchi espedienti per conservare il privilegio di vedere il proprio nome nella lista alla sera. In più, il tutto è reso ancora più sgradevole dalle capo- banco, che applicano una disciplina di vessazioni continue, disparità di trattamento e scortesie gratuite nella più completa impunità. Le vedi trattare male operaie anziane, le vedi alzare la voce, offendere senza ragione. Vedi operaie umiliate nella generale indifferenza, a volte le vedi piangere negli spogliatoi e poi le senti dire rassegnate: lavorare nei frigo è così, bisogna farci il callo. Tu ti guardi intorno e speri sempre che un giorno Spartaco si ribelli e decida di fargliela pagare, ma Spartaco ha famiglia e le catene preferisce tenersele strette.
Rifletti e ti accorgi che le guerre tra poveri purtroppo le vincono solo i padroni. Ma questo le operaie non lo sanno, o non gli viene più detto da nessuno. Nessuno può difenderle, non esistono sindacati, non esistono patronati, non ci si pensa neppure. La coscienza di classe è un’assurda bugia, sepolta sotto la tacita accettazione del proprio sfruttamento. L’alienazione non è gettare la propria esistenza in una lavoro estenuante, ripetitivo e per nulla gratificante; la vera alienazione è aver interiorizzato il punto di vista del padrone, parlare con la sua voce e diventare persino il suo braccio armato.
Infatti, se per caso una mattina fuori dall’azienda trovi un gruppo di ex lavoratori, a cui non è stato rinnovato il contratto, che protestano e fermano i camion che portano in azienda la frutta, non ti viene in mente di metterti dalla loro parte. Non pensi che hanno vissuto la tua stessa esperienza, che sono tuoi fratelli nello sfruttamento, pensi solo ad uscire, perché così ti ordina il capo, pensi solo ad andare ad insultarli e a forzare il loro blocco per far passare il camion. Anche se questo vuol dire azzuffarsi tra poveri sfruttati. Non pensi minimamente che domani potresti trovarti nella loro situazione. Non ti accorgi di essere perfettamente sostituibile e per nulla indispensabile. Sei talmente annichilito, l’ingranaggio dello sfruttamento a cui sei aggrappato girà così forte che la vertigine è troppo grande da sopportare. Chiudi gli occhi e pensi solo a te stesso, pensi solo a non cadere giù. Sono loro che stanno sbagliando, sono andati dal sindacato, sono pure migranti, cosa sperano di ottenere? Il lavoro scarseggia già per gli italiani, dovevano accettare le condizioni dell’azienda. E’ già tanto il pane, perché pensare alle rose? E questo sentimento unisce tutte le operaie, non importa che siano italiane da generazioni, o migranti rumene, marocchine, ucraine o polacche. Sono tutte unite nel difendere il punto di vista dell’azienda.
Io ho attraversato per un breve periodo questo universo parallelo e mi sono trovata immersa in un mondo di donne, che parlano lingue diverse, che sono tutte unite dalla stessa precarietà, ma non sanno di poter essere una forza d’urto dirompente, se solo provassero ad alzare gli occhi e a riconoscersi come compagne o semplicemente sorelle. E io, con il mio bagaglio di consapevolezza politica, con tutte le mie idee preconcette sull’innata capacità della classe operaia di fiutare in modo innato lo sfruttamento e ribellarsi naturalmente, mi sono dovuta profondamente ricredere. Quello che ho visto e percepito sulla mia pelle è stato solo rassegnazione, disgregazione incapacità o impossibilità di alzare la testa e dire “io non ci sto”! Non ci si può lamentare se la Sinistra è allo sbando, se il consenso precipita e se gli operai votano Salvini. Nessuno parla più la loro lingua, nessuno entra più nei luoghi di lavoro, nessuno capisce che bisogna ripartire proprio dal riconoscersi reciprocamente come esseri umani, prima che classe o partito. Bisogna ripartire da un concetto fondamentale e mai completamente valorizzato: la fraternità che implica il riconoscersi e il condividere esperienze o situazioni di vita. Questo può essere il punto di partenza per un percorso di consapevolezza collettiva da cui si potrà riprendere a lottare. C’è bisogno di speranza, di sporcarsi davvero le mani e non di restare solo sprofondati nei social. Si finisce per pontificare o per restare vittima delle proprie illusioni. Io ho terminato la mia esperienza, ma continuo a sentire alcune delle operaie, cerco di confortarle e di dar loro speranza. Devono resistere.