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Fare memoria

di Stefano
Galieni

La memoria gioca brutti scherzi se non si alimenta. Ed è indubbio che, soprattutto negli ultimi decenni, si sia sviluppato un enorme corto circuito comunicativo. Da una parte l’accesso pressoché gratuito a numerosi fonti ha apparentemente reso più accessibili archivi quasi infiniti. Contemporaneamente, soprattutto rispetto a particolari fasi sociali e politiche, ha prevalso in maniera più impermeabile che in passato, quella che potremmo definire la ricostruzione dei vincitori. A venti anni dal G8 di Genova, con tutti i suoi elementi che hanno caratterizzato le mobilitazioni che hanno contestato il raduno dei grandi, dalla ricchezza sociale, culturale e politica delle proposte alla brutalità della repressione che ha toccato vette inimmaginabili, molto resta affidato all’informazione mainstream, alle ricostruzioni di regime. Ci sono stati processi, ulteriori mobilitazioni, il circuito di intelligenze e di carica politica presente in quei giorni non è sparito ma, quasi contemporaneamente, si è trasformato in pulviscolo il patrimonio accumulato. Chi oggi ha venti anni e vuole conoscere quanto accaduto mentre nasceva, ritrova molto materiale degli archivi RAI, le fasi salienti degli aspetti più brutali nelle emeroteche spesso digitalizzate, lo splendido film realizzato da oltre 30 registi che sono andati a Genova per riprendere da dentro il marasma vitale delle tante piazze, la potenza rivoluzionaria di chi ribaltava le logiche dominanti – fra loro come non ricordare il nostro Citto Maselli – colmano solo in parte il vuoto.

Un vuoto a due volti: quello dei contenuti, premonitori di quello che viviamo nel presente e quello della rottura di ogni spazio di democrazia, oggi divenuto solo più raramente violento ma incredibilmente pervasivo. La pluralità insita nello slogan “Voi G8 noi 6.000.000.000”, le infinite istanze ambientali, quando ancora Greta Thumberg doveva nascere, sulla redistribuzione delle risorse a partire da acqua, terra, cibo, la lotta alle malattie insite in un modello di sviluppo fallimentare, l’antimilitarismo, il rifiuto del patriarcato, di quello che allora neanche chiamavamo sovranismo ma traducevamo nella volontà di vivere in un pianeta senza frontiere. E poi l’approccio ai beni comuni, alla convivenza nelle diversità, le modalità decisionali fondate sul consenso e non sul lobbismo maggioritario, preludevano ad un mondo “necessario e possibile” che permeava non solo la vita di chi era andato a Genova a far sentire la propria voce ma si ripercuotevano nelle società, tanto in quella italiana che in quelle degli altri paesi. Questo immenso e incredibile patrimonio culturale e anche intellettuale, artistico e sociale, si è da una parte frantumato in mille rivoli anche per cause soggettive ma soprattutto è stato cancellato dalla narrazione dominante. Erano tante le soggettività, diversissime fra loro per storia, cultura, generazione e competenze che si erano unite attorno al Genova Social Forum, un mondo in cui ci si scontrava spesso ma in cui prevaleva la volontà di contaminarsi e di contaminare chi si incontrava. Un mondo che ha fatto paura realmente, ha messo in discussione i cardini della presunta modernizzazione riportando in auge il conflitto come elemento sano e salvifico della vita democratica, agito con le modalità più disparate, spettacolari, scenografiche, surreali, solo in pochissime occasioni realmente violente. Per questo ne andava cancellata la memoria. Oggi chi fa ricerca trova spezzoni di video, qualche buon libro, qualche testimonianza parziale di chi dell’esperienza è reduce ma non ha saputo ancora farne patrimonio collettivo, ma per il resto basta. Un esempio fra tutti. Le fonti primarie che dal media center di Genova, devastato la notte del 21 luglio dalle forze dell’ordine, irradiavano il loro racconto, non solo non esistono più ma non hanno neanche un archivio digitalizzato. Indymedia, il settimanale Carta e il quotidiano Liberazione, che più avevano compreso l’importanza storica di quelle giornate, hanno, in maniera diversa, chiuso la propria storia. La prima, vero e proprio elemento precursore di quanto fosse possibile costruire una narrazione “social” in cui il rapporto fra utenti e attiviste/i che producevano informazione era in perenne osmosi, ha chiuso i battenti e con questi il proprio archivio informatico, nel 2013. Dopo Genova il suo ruolo sembrava destinato a crescere, si ramificò nel Paese anche dandosi nodi territoriali ma, priva di una propria modalità gestionale, lentamente andò a sparire. Il settimanale Carta nato dal Manifesto, soprattutto su iniziativa di Luigi Sullo e Anna Pizzo era già sparito 3 anni prima, nel 2010, senza che l’archivio digitale restasse consultabile. Il quotidiano del Partito della Rifondazione Comunista sparì dalle edicole dal primo gennaio 2012, restò in vita online per poi chiudere nel 2014. E anche qui, per complesse vicende, non è consultabile un archivio online, esistono solo copie cartacee rilegate in consultazione ma che richiedono appunto tempo e ricerca diretta. All’epoca dei fatti di Genova Liberazione raggiunse quasi le 15 mila copie vendute divenendo l’organo che con maggiore attenzione provò a raccontare quello che chiamavamo “movimento dei movimenti”. Gran parte di coloro che oggi sono giovani non sono state/i e non certo per loro responsabilità, nemmeno messi al corrente che nei giorni del G8 si scrivevano e si raccontavano le mille sfumature delle tante realtà che si incontravano e magari si scontravano. In quelle testate si parlò tanto della terribile mattanza cominciata il 20 luglio, proseguita in piazza il giorno dopo, la notte poi alla scuola Diaz e infine al centro di tortura di Bolzaneto, quanto delle allora percepite come energie inarrestabili delle voci critiche altermondialiste.

Il secondo volto dei vuoti a cui ci si riferiva è appunto quello repressivo. Processi, condanne, falsità ed omissioni emerse nel comportamento delle sedicenti forze dell’ordine hanno trovato solo in parte risposta in ambito giudiziario. La Corte Europea ha stabilito, tanti anni dopo, che a Genova in quei giorni venne sospeso ogni spazio democratico e che in molti agirono, coperti da impunità, da torturatori di persone che peraltro non avevano nemmeno commesso reati. Ma chi ha pagato per la morte di Carlo Giuliani? Chi per le vicende accennate? Fra congedi, prescrizioni, sconti di pena e attenuanti elargite con generosità infinita, bisognerebbe dire nessuno. E non pagò nulla la classe politica che si era insediata al governo un mese prima. In nome dell’importanza mondiale dell’evento, autorevoli personalità politiche come gli allora ministri Scajola, Castelli, Fini, non subirono alcuna conseguenza in merito a quanto accaduto eppure, in maniera impropria, si stabilirono nei locali della questura ligure per seguire in diretta l’evolversi degli eventi. Oggi qualcuno lo ricorda? Appariranno sui media interviste con scuse ai personaggi politici citati e agli altri di contorno? Difficile che ciò avvenga. Neanche chi era all’opposizione – se si eccettua il ruolo esercitato dai parlamentari di Rifondazione Comunista – volle mai nemmeno una Commissione di inchiesta per appurare le ragioni e le modalità attraverso cui, prima il Servizio Centrale Operativo, poi i diversi reparti addetti all’ordine pubblico, obbedirono o determinarono una catena di comando priva di qualsiasi ragion d’essere se non quella di punire ognuno dei contestatori, non certo i famigerati “black bloc”. E questa parte di storia non è divenuta patrimonio pubblico collettivo, non ha portato nessuno a rivedere i paradigmi di gestione del dissenso. Per certi versi anzi, quei giorni, a pensarci oggi, hanno segnato la traccia di come in questo paese ogni forma di conflitto andasse azzerata e addormentata con ogni mezzo necessario. Propaganda, fascistizzazione del paese, decreti sicurezza partoriti ogni tanto da governi di diverso segno contro chi mette a repentaglio la pace sociale: migranti, lavoratrici e lavoratori, occupanti di case, poveri, incompatibili di ogni ordine e grado, con un miscuglio di repressione e prevenzione sono stati messi a tacere. E fra le armi per la prevenzione quella del togliere la memoria storica, di come si poteva e si potrebbe essere in molte e molti, a rifiutare che l’1% della popolazione controlli ogni ricchezza e risorsa si è rivelata di un potenziale distruttivo micidiale per ogni istanza di liberazione. Certo le responsabilità albergano anche in coloro che hanno privatizzato e frammentato la memoria di tale passato e di tali vicende, che si sono (o meglio dire “ci siamo”) rivelati inadeguati all’altezza della sfida, presi più dalle proprie ricostruzioni che dalla complessità di un’analisi che è mancata. Certo in molte e molti che allora erano a Genova, con tutta la propria carica vitale oggi hanno scelto di collocarsi in ambiti meno conflittuali e più adeguati al quieto vivere.

Ma basta tutto questo a giustificare il fatto che manchi una memoria, plurale ma quantomeno condivisa? Assenza di fonti certe, narrazione parcellizzata, esorcizzazione di ogni forma anche timida di conflittualità sociale, istituzioni divenute oramai impermeabili ad ogni sollecitazione esterna, frammentazione del presente, costruzione di una condizione di precarietà esistenziale trasmessa da almeno una generazione, evocazione perenne di incombenti nemici e/o pericoli esterni da cui difendersi, sono alcuni fattori, ma non gli unici. C’è stata una vera e propria cesura storica che non bastano i ventennali ad affrontare se da questi momenti non emergerà una proposta di rimessa in gioco del conflitto come motore della storia. Forse questa cesura ci dovrebbe insegnare che concetti oggi considerati utopici e irrealizzabili come quelli della sovranità alimentare, dell’equità sociale, della giustizia mondiale, della salvaguardia del pianeta e dell’irriformabilità di questo modello di sviluppo, sono attuali quanto e più di ieri in una pandemia da cui ancora non siamo usciti. Forse ne dovremmo e potremmo cominciare a raccontare Genova, partendo anche dall’esperienza personale ma provando a far emergere il potenziale mai più realmente trovato in maniera complessiva e totalizzante, dell’agire collettivo. Nei mesi e negli anni che seguirono il G8 sono accadute tante cose: l’11 settembre, le invasioni in Afghanistan e Iraq, il trionfo delle armi come le immense manifestazioni contro le guerre. E poi movimenti carsici, con piccole, grandi impennate ma che non hanno mai trovato modo di trovare rappresentanza politica né tanto meno di modificare il pensiero collettivo. Ripartire dalla ricchezza molteplice di Genova, in cui si individuavano problemi e proposte, ingiustizie e soluzioni, in cui, con tutte le difficoltà e le differenze si costruiva convivenza rivolta al futuro. Forse è così che si potrebbe trasmettere quanto di buono è accaduto prima e dopo quei giorni terribili, evitando simulacri o, peggio ancora, brutti remake.

In tal senso Genova e il recupero di tanta memoria potrebbero insegnare ancora molto.

P.S. curiosando sulla lunga e particolareggiata ricostruzione del G8 di Genova pubblicata su Wikipedia, si trovano tanti nomi e cognomi. Alcuni noti, altri di semplici comprimari. Mancano molte delle figure fondamentali, fra le forze dell’ordine che gestirono la catena di comando repressiva. Uno fra tutti, quello che per molti è l’anima nera del Paese, Gianni De Gennaro. Durante il G8 è Capo della Polizia, nominato dal precedente governo di centro sinistra e confermato. Nonostante le accuse per i fatti della scuola Diaz, da cui esce assolto nel 2008 la sua carriera continua a progredire. Nel 2007 è Capo di gabinetto del ministero dell’Interno, l’anno dopo entra nei servizi come Direttore del Dipartimento delle informazioni per la Sicurezza, nel 2012 (governo Monti) è sottosegretario di Stato alla Presidenza, con delega ai Servizi. Nel 2013 (governo Letta) diventa presidente di Finmeccanica, poi Leonardo, la principale azienda italiana per la produzione di armi sofisticate, ruolo che ricopre fino al 2020.
Dal 2013 è anche presidente del Centro Studi Americani, potente “associazione culturale no profit” nata poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale e che spesso organizza iniziative con l’Ambasciata USA. Varrebbe la pena saperne di più di quest’uomo che oltre a conoscere bene gli eventi del G8 è legato a tanti fatti poco chiari nei rapporti fra Italia e Nato. Ma questo è un altro capitolo.

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