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Enrico Berlinguer (1922-1984)

di Franco
Ferrari

Enrico Berlinguer era nato a Sassari in Sardegna il 25 maggio 1922, da una famiglia della borghesia antifascista. Il suo impegno, fin da giovanissimo, fu però a fianco delle classi popolari attraverso l’adesione alla organizzazione giovanile del Partito Comunista Italiano. Nel 1944 venne incarcerato per avere promosso delle manifestazioni popolari per il pane. Il fascismo era da poco caduto ma il processo di formazione di uno Stato democratico incontrava molti ostacoli.

Ancora molto giovane venne inserito negli organismi dirigenti nazionali delle organizzazioni giovanili democratiche (il Fronte della Gioventù), che avevano un’importante dimensione di massa. Con la rottura dell’unità antifascista, si ricostituì la Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI), di cui fu alla guida insieme alla Federazione mondiale della gioventù democratica. Quest’ultima raccoglieva le organizzazioni che si riconoscevano nel “campo antimperialista” guidato dall’Unione Sovietica.

Il suo rigore e le sue capacità organizzative lo portarono ad acquisire ruoli di crescente importanza nella direzione del PCI, nella quale svolgeva un ruolo dominante Palmiro Togliatti (fino alla morte nel 1964) e la generazione che aveva vissuto gli anni difficili ed anche eroici dello stalinismo, della guerra mondiale e della resistenza antifascista.

All’11° Congresso del PCI, del 1966, che aveva sancito la sconfitta della sinistra guidata da Pietro Ingrao, Berlinguer, pur schierandosi con la maggioranza di centro-destra (da Longo ad Amendola) si batté per limitare l’emarginazione dai ruoli dirigenti di coloro che si erano schierati con Ingrao.

Sotto la direzione di Luigi Longo che apparteneva alla precedente generazione  ma aveva saputo proseguire il processo di rinnovamento del Partito, sia sul versante internazionale (con la condanna dell’invasione della Cecoslovacchia) che su quello interno (con l’apertura al nuovo movimento studentesco), Berlinguer diventa, prima di fatto e poi formalmente, il numero due del Partito. Con il declino della salute di Longo, diventava il leader effettivo del Partito. Nel 1972 venne eletto Segretario generale.

La sua leadership, durata dodici anni, fino alla morte l’11 giugno 1984, durante la campagna elettorale per le europee, causata da un ictus che lo colpì mentre stava tendendo un comizio a Padova, è stata caratterizzata da momenti di grande ascesa del consenso e poi da un periodo di crisi e difficoltà, oltre che di isolamento interno al gruppo dirigente del PCI.

Il suo rigore morale, la sua convinzione che la politica fosse una “scelta di vita” e non un mestiere tra altri, la capacità di entrare in sintonia con il sentimento popolare pur essendo alieno da ogni forma di demagogia, hanno fatto sì che la sua improvvisa scomparsa fosse accompagnata da un vasto sentimento di commozione che andò anche oltre i confini del suo partito.

Più contrastato il giudizio sulle scelte che egli impresse al suo partito in una fase che si collocò tra l’ascesa dei movimenti popolari (studenti, operai) e l’emergere di nuove mobilitazioni sociali (pacifismo, ambientalismo, femminismo, ecc.) e l’affermarsi, a livello globale, dell’egemonia liberista. Soprattutto nella destra del PCI, che poi guidò lo scioglimento del partito e la sua progressiva trasformazione in forza social-liberale, si riteneva necessario rimuoverne l’eredità, o al massimo trasformarlo in un’icona pop politicamente inoffensiva. Anche tra chi si oppose allo scioglimento del PCI, si sottolineavano più gli elementi di critica ad alcune delle scelte politiche effettuate da Berlinguer nella seconda metà degli anni ’70 (compromesso storico, austerità) piuttosto che gli elementi dinamici della sua azione.

Alcuni commentatori hanno sottolineato, giustamente, la differenza tra le scelte politiche che hanno caratterizzato la direzione di Berlinguer negli anni ’70 e quella degli ultimi anni della sua vita. Hanno sostenuto per questo la tesi dei “due Berlinguer”[i]. Lo stesso assetto interno al Partito, dopo il ritorno all’opposizione nel 1979-80, assunse un profilo più nettamente di sinistra, con l’emarginazione delle posizioni di destra che privilegiavano il rapporto con il Partito Socialista di Bettino Craxi.

Pace e qualità dello sviluppo

Berlinguer accantonò l’obbiettivo dell’uscita dell’Italia dalla Nato, che il PCI aveva sostenuto fin dalla costituzione del Patto Atlantico. Certamente una scelta che si proponeva di rimuovere il veto internazionale che in campo occidentale (Stati Uniti, socialdemocrazia tedesca, conservatori) veniva posto ad un possibile ingresso dei comunisti italiani nel governo del Paese. Un adattamento ai rapporti di forza che in realtà non ottenne il risultato sperato. Non aderì mai però ad una ideologia atlantista e di contrapposizione tra blocchi politico-militari. Questi erano visti come un ostacolo sia alla soluzione dei grandi problemi comuni dell’umanità (come quello ambientale che cominciava ad affacciarsi con forza) che alla possibilità di far crescere soluzione progressiste e di alternativa all’interno dei singoli Paesi.

La visione strategica era quella di un superamento equilibrato e concordato dei due, dando forza contemporaneamente ad un movimento popolare per la pace che, dal basso, rifiutasse la delega agli Stati e ai governi. Era così anticipata, in una certa misura, quell’idea di nuova “potenza mondiale” di cui si parlò, certamente con eccessivo ottimismo, in occasione dell’aggressione militare all’Iraq.

Il superamento dei blocchi contrapposti e dar vita ad un nuovo equilibrio multipolare anche tra Stati basati su sistemi sociali diversi (fino all’idea, certamente non priva di un elemento utopico, di un “governo mondiale”) era visto come condizione necessaria per affrontare le nuove contraddizioni dello sviluppo economico e sociale. Solo così si potevano determinare le condizioni affinché l’emergere di nuovi Stati da una situazione di miseria e di arretratezza economica non fosse la causa di nuovi e più gravi conflitti anche militari.

Lo sviluppo economico e sociale era visto non più come un fatto quantitativo e di sola innovazione tecnologica ma in termini di qualità e di soddisfazione di bisogni sociali ed individuali. Superando in questo modo l’eccessiva fiducia nello sviluppo delle forze produttive, come elemento in sé sufficiente a determinare nuovi equilibri sociali, che era state parte della tradizionale cultura politica del movimento operaio. Contemporaneamente riconoscendo la necessità di trovare un nuovo equilibrio tra nuovi bisogni individuali e l’interesse collettivo che non poteva essere cancellato dalla logica del “mercato capitalistico”.

Democrazia e socialismo

La riflessione critica sulle società nate dalla rivoluzione sovietica del 1917, vista comunque come cesura positiva della storia mondiale, che si è fatta via via più radicale con l’aggravarsi sempre più evidente della crisi dell’Unione Sovietica e dei paesi del suo campo, ha portato Berlinguer ha porre con forza il tema del rapporto tra democrazia e socialismo.

Come realizzare un processo di trasformazione sociale che si basi sul più ampio consenso popolare e sulla convergenza di correnti politico-ideologiche e di forze sociali diverse? Prima con l’eurocomunismo e poi con la “terza via” (o “terza fase”), definizione che nulla ha a che vedere con l’adattamento al neoliberismo voluto da Blair, Schroeder e gran parte della socialdemocrazia in anni successivi, Berlinguer cercò una risposta a questo problema.

Una visione della democrazia decisamente anti-oligarchica ed intesa invece come crescente partecipazione di grandi masse a determinare le scelte di direzione politica, sociale ed economica dei singoli Paesi. La prospettiva berlingueriana è rimasta fino all’ultimo quella della costruzione di un assetto sociale ed economico che portasse la storia dell’umanità oltre le colonne d’Ercole del capitalismo. Quindi la democrazia come strumento necessario della costruzione di una società socialista, ma anche i principi di equità e giustizia sociale propri del socialismo come condizione indispensabile per evitare la tendenza del capitalismo a restringere le basi della partecipazione democratica.

Nuovi movimenti, classe e partito

La visione del rapporto tra partito operaio e movimenti è andata evolvendo nel corso della leadership berlingueriana. Mentre era vista positivamente la spinta a sinistra determinata dai movimenti giovanili del ’68, che avevano portato anche migliaia di nuovi quadri e attivisti nelle fila del PCI, molto difficile, fino allo scontro frontale e alla più completa incomprensione, furono le relazioni con le spinte radicali emerse nella seconda metà degli anni ’70. Pesò negativamente la politica di progressivo inserimento in maggioranze di governo nelle quali restava centrale il ruolo conservatore della Democrazia Cristiana.

Nella fase successiva (quella del “secondo Berlinguer”) la volontà di apertura ai nuovi movimenti sociali fu molto più decisa. Particolarmente significativa fu l’attenzione all’affermarsi di un femminismo che non fosse solo patrimonio di piccoli gruppi intellettuali. Questa non si contrappose all’idea di una forza politica che rimanesse strumento politico anche, ma non esclusivamente, della classe operaia e più in generale del lavoro salariato.

L’intervento nel movimento pacifista contro l’installazione in Europa degli euromissili andò di pari passo con il pieno sostegno alla durissima lotta per la difesa del posto di lavoro nella più grande azienda italiana di produzione di automobili (FIAT). Analogamente Berlinguer impegnò il suo partito (pur con un grande dissenso interno) nel referendum popolare per impedire il taglio della scala mobile dei salari. Una decisione, voluta dal governo Craxi, che al di là del significato immediato aveva come obbiettivo di cambiare i rapporti di forza nella società per ridurre il peso del lavoro nella ripartizione della ricchezza nazionale e nella possibilità di difendere i diritti individuali. Come hanno dimostrato gli eventi successivi, la sconfitta del PCI nel referendum popolare aprì la strada ad una significativa ridefinizione dei rapporti di forza tra le classi sociali in Italia in senso oligarchico.

In questo mutamento degli equilibri politici e sociali così come del clima ideologico che già cominciava a delinearsi all’inizio degli anni ’80, Berlinguer cercò di ripensare la forma del partito politico di massa. Voleva  evitarne la degenerazione in mero strumento di potere e di organizzazione clientelare e contemporaneamente salvaguardarlo come strumento per una partecipazione politica diffusa, respingendo logiche puramente leaderistiche, pur essendo egli stesso un “capo” politico indubbiamente dotato di carisma.

Conclusioni

Sono questi solo alcuni dei temi che l’azione politica e la riflessione teorica di Enrico Berlinguer hanno posto all’ordine del giorno. Un bilancio critico non può evidentemente tacerne errori e limiti di cultura politica, ma nemmeno ignorare che non poche delle questioni poste sono ancora parte del dibattito strategico della sinistra radicale e alternativa. Non c’è dubbio che l’eredità che ha lasciato Enrico Berlinguer con la sua morte improvvisa fu per certi versi contradditoria e ricca di questioni aperte e interrogativi in un contesto che si stava facendo sempre più difficile per la sinistra. Ma a quasi quarant’anni di distanza, se guardiamo allo stato della sinistra italiana, possiamo dire che gran parte di quell’eredità è stata dissolta da chi ha operato per “dimenticarlo”[ii] cancellando con il suo partito anche il patrimonio di idee e di prospettive che aveva lasciato.

Franco Ferrari

[i] Su questa linea interpretativa si ritrovano sia Guido Liguori (“Berlinguer rivoluzionario”) che Lucio Magri (“Il sarto di Ulm”),

[ii] “Dimenticare Berlinguer” era il titolo di un libro scritto da Miriam Mafai una nota giornalista vicina alla destra del PCI.

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