editoriali

Elezioni Europee, alcuni elementi di disordinata criticità

di Stefano
Galieni

La campagna elettorale condotta dentro Pace Terra Dignità consegna, come già detto da molti, un risultato complesso da interpretare. Tanti gli ostacoli frapposti dall’esterno sin dalla sua presentazione. Denigrati per una visione radicale della necessità di fermare la/le guerre, irrisi, perché costretti ad accettare la sfida apparentemente impossibile (anche se antidemocratica) della raccolta firme, costretti a ricorsi, a diffide per far valere i diritti e, con l’inizio della campagna elettorale vera e propria, ignorati dai media mainstream se non, ma senza dare troppo rilievo, per insultare, coprire di menzogne, accusare di essere coloro che impedivano l’unità della sinistra e chi più ne ha più ne metta. Ma c’era anche da aspettarselo, il panorama politico italiano è da tanti anni questo, poco importa che si sia sull’orlo di un conflitto nucleare. Nonostante il combinato disposto di indifferenza, rassegnazione, depoliticizzazione del Paese, bombardamento massmediatico, il poco tempo a disposizione per far conoscere anche simbolo e candidate/i, le miserie degli avversari, oltre 500mila persone hanno barrato una colomba che non ha avuto il tempo di volare. Ma ci sono stati, ad avviso di chi scrive, anche errori che potevano essere evitati e su questo si dovrebbe ragionare in futuro.

In primis pur avendo individuato perfettamente la centralità della guerra come paradigma non solo dell’Europa, si è stati realmente capaci di arrivare nella mente e nel cuore delle persone? Nonostante l’allarme più vicino provenga dal conflitto in Ucraina, nonostante gli arsenali militari più micidiali si addensino su quelle aree del continente, questo sembra ormai acquisito, da gran parte dell’opinione pubblica, come elemento irreversibile. Forse perché si parte dall’idea – su cui ci sono da esprimere dubbi – che decenni di convivenza in un contesto in cui l’esistenza di una reciproca forza di dissuasione nucleare poteva essere un antidoto eterno. Le dichiarazioni tanto di Putin che di alcuni vertici militari occidentali, in cui non si esclude più l’ipotesi di attaccare per primi, rappresentano una pericolosa crepa a tale certezza. Ma non basta.

C’è da notare che in due anni e mezzo di guerra nessuno è riuscito ad organizzare, se non nei primi mesi, una mobilitazione nazionale, degna di questo nome per la pace in Ucraina. Varie le ragioni: l’aperta ostilità molto diffusa per Zelensky e i suoi alleati che si è tradotta in rifiuto di considerare resistenza quella di Kiev, arrivando a definire ogni persona che si batte contro i russi alla stregua del battaglione Azov, come servo della Nato, o animato da furore nazionalista. Forse la realtà è più articolata, Forse, chi intende la via diplomatica come unica soluzione praticabile per il bene dei popoli, dovrebbero mostrare maggior coraggio anche verso la Russia, chiedendo oltre che un comune cessate il fuoco, il ritiro dell’esercito e non restare prigioniero di un vecchio bipolarismo Nato vs Mosca che diviene riduttivo rispetto alla complessità. E anche l’insistere sul fallimento degli accordi di Minsk del 2015 – in cui ad avviso di chi scrive non c’è un solo responsabile – si dovrebbe fare i conti col fatto che, nel paese spoliticizzato e con scarsa memoria in cui si vive, l’inizio è dato dall’invasione Russa – c’è ancora chi fatica a chiamarla in questo modo – del 24 febbraio 2022.

Non è il caso che si faccia i conti con quanto la narrazione con cui si rimanda indietro il tempo di 8 anni, non abbia fatto alcuna breccia nella coscienza collettiva? La guerra in Italia non piace, il coinvolgimento e i danni economico sociali che ne derivano per il paese e per l’intera Europa, ancora meno, ma c’è manifesta freddezza a costruire su queste basi mobilitazioni e sentire comune. Col primo e secondo conflitto in Iraq, nessuno si ergeva a difensore di Saddam Hussein, invasore del Kuwait e poi possessore di inesistenti “armi di distruzione di massa”, ma fu facile schierarsi apertamente contro gli Usa e i loro complici, Italia compresa. Oggi, in uno scenario completamente modificato e da vari fattori, politici, economici, sociali, nella comunicazione, in un contesto di neoliberismo multipolare che disorienta, una guerra, che potrebbe portare alla catastrofe, non suscita tanta indignazione. Non sarà anche perché parteggiare per uno dei due contendenti – rischio perenne in guerra – e per le loro aspirazioni non accende alcuna speranza? Essere contrari ad armare una resistenza che finisce col divorare lo stesso popolo che la combatte, è scontato, ma – per coerenza – si dovrebbe dire agli ucraini “arrendetevi”? Accettate un governo fantoccio della Russia (dopo uno in mano agli Usa), una neutralità obbligatoria dopo che la stessa integrità territoriale viene annientata non da un voto popolare ma da scelte di superpotenze che si spartiscono il Paese? Insomma non si è riusciti ad indicare, al di là di generiche parole, una alternativa percorribile in un senso o in un altro e un movimento pacifista rispetto a tale conflitto è morto nella culla. L’iniziale e giusto invito alla diserzione, non è stato fatto proprio da troppe/i, né è riuscito ad assumere quel valore evocativo su cui si contava. E a questo si aggiunga il fallimento dell’UE, il pessimo lavoro Usa, l’ottusa strategia russa. Lo stesso momento delicato che attraversa il Partito della Sinistra Europea, che si divide, con posizioni spesso diametralmente opposte, su tale tema, dovrebbe essere indice del fatto che forse su questo si dovrebbe ragionare meglio e con meno schemi precostituiti. Ed uno dei moloch che ci si porta appresso in tal senso, è nel ruolo della NATO, su cui ci si esercita, spesso senza produrre risultati. Ma ci si rende conto almeno che se, non ci fosse stata l’invasione russa oggi, l’Alleanza atlantica sarebbe realmente un rottame inservibile e costoso? Dopo la sconfitta in Afghanistan, quindi 30 anni dopo la dissoluzione dell’Urss e la fine della pretestuosa “guerra senza fine” contro il terrorismo, c’erano le premesse per abbandonare questo vecchio carrozzone al suo destino di reperto storico. Grazie all’invasione si è rinvigorita e può tranquillamente esigere dagli Stati che ne fanno parte, peraltro aumentati, una parcella che dissangua le casse degli Stati per armamenti. Ripeto – è tema da guardare in chiave problematica e non come affermazione apodittica – ce la si può cavare con “è tutta colpa della Nato” come ripetiamo da troppi decenni? Se ci sarà un mondo in grado di superare il XXI secolo, la Nato, come tutto quello che mette al centro l’antico concetto di Occidente, (dalla California fino agli Urali, passando per Australia e Giappone), andrà rivisto radicalmente.

Se il rozzo tentativo di accennare ad alcune ragioni per cui non si è inciso sul conflitto in Europa, lascia certamente molti vuoti, si guardi a quanto sta succedendo invece con il genocidio palestinese. Le piazze, di ogni città, piene settimanalmente e soprattutto di giovani, che chiedono lo stop alla guerra e all’occupazione, al di là di tanti elementi problematici, dimostrano come, laddove lo scontro è non solo impari e tale da generare una profonda crisi umanitaria, ma guarda ad una prospettiva per non accettare la disperazione, le persone si mobilitano, in ogni parte del pianeta. Quale sarà la soluzione? Due popoli due Stati? Uno Stato laico binazionale? Una lunga fase di decantazione per i torti subiti? Chi scende anche in piazza si interroga, organizza incontri seminariali, ne discute, cerca interlocutori in entrambi popoli e non parte dal presupposto che, a differenza del conflitto in Ucraina, “tutto è iniziato il 7 ottobre”. Il passato pesa, pesano gli errori israeliani e di alcune forze palestinesi, pesa la complicità occidentale ma anche quella dei cosiddetti “fratelli paesi arabi” che già nel 1948 impedirono di fatto la nascita della Palestina. Perché in questo caso la memoria conta? Il genocidio di Gaza non mette a rischio di conflitto nucleare eppure la sua soluzione è percepita come più importante. Ci vogliamo domandare come mai e quanto, questo averlo capito non tutte/i allo stesso modo, ha reso il mondo pacifista meno credibile? Eppure, ben oltre le tende nelle università, il moto di sostegno alla causa palestinese ha permesso per esempio di far crescere, anche politicamente insieme ragazze e ragazzi di origine araba ma ancora privi di cittadinanza con i coetanei del Paese. E anche questa costruzione nuova ed embrionale di reti, può rivelarsi positiva per il futuro. Per concludere questo primo elemento critico: al di là delle censure mediatiche, o ci si rende conto del perché l’allarme lanciato dal mondo pacifista concretamente, non ha raggiunto tante sensibilità o, altrimenti, si perde il senso della realtà e si valuta il tutto in termini geopolitici che restano confinati in nicchie ristrette, certamente più colte della media ma inadeguate a farsi comprendere fuori.

Il primo elemento critico toccato, fa sponda con quanto segue. “La guerra è elemento prevalente” questo è stato il mantra ma, in italiano, prevalente non è sinonimo di totalizzante. Chi scrive non si riferisce solo allo scarso spazio dato, durante la campagna elettorale, agli altri due termini che indicavano il simbolo, “Terra, Dignità”, questo è un epifenomeno. Non è che facendo divenire totalizzante il fattore guerra si è rimosso o messo in secondo piano anche un sistema valoriale che accompagna da sempre le questioni pacifiste e che ne costituiscono anche forte elemento di connessione sentimentale con i settori di società di cui si cerca il voto? In altri termini, si voleva il voto di chi si astiene da tanto tempo e lo si cercava su qualcosa di alto come la Guerra mondiale a pezzi, in cui i pezzi rischiano di comporsi peraltro, ma non si è stati sufficientemente in grado di connetterli non solo a dinamiche sociali – da tanto tempo chi partecipa alle competizioni elettorali non immagina che col voto, soprattutto in istanze così lontane come quelle UE, si possa incidere sulle proprie condizioni materiali di vita – ma nemmeno con quei fattori persino emotivi che giustificassero un voto. Il successo di candidature come Salis e Lucano, al di là del futuro che avranno, stanno lì a testimoniare che c’è un Paese che ha anche bisogno di sentire che fa qualcosa per un, forse prepolitico (?) non lo so, spirito di giustizia che da altre parti non ha trovato collocazione. In un Paese depoliticizzato (terza ripetizione), questo è inevitabile. E, si badi bene, col termine giustizia, si può accomunare tanto chi, come in Italia ha votato per i due candidati Avs quanto chi, in nome del “difendersi dagli immigrati e dalla guerra” ha decretato in Germania, soprattutto nei Land dell’est il successo di BSW. Ovviamente si tratta di un fenomeno diverso, quello tedesco, ma il cui successo deriva dall’aver toccato anche corde simili, in chiave molto più politica. In Germania l’affluenza al voto è aumentata, la destra è cresciuta e in tante/i si sono riconosciuti nel nuovo gruppo ex Die Linke che pur condividendo il pacifismo, ha fatto incetta di elettori anche su una forma di xenofobia.

Certo in Italia ha pesato l’immensa campagna mediatica condotta a reti unificate ma, non solo. La campagna mediatica ha colto un bisogno e lo ha amplificato, gli ha dato volti e storie, chi altro ne è stato totalmente capace? La coerenza professionale di Michele Santoro è stata per PTD fondamentale, altrimenti non si spiegano molti dei 520 mila voti, ma poi? Chi è stato capace di produrre altro impatto forte? In assenza di movimenti solidi, sociali, sindacali o politici che siano, in assenza di forze politiche di massa organizzate, questo non basta a condurre una campagna elettorale. Per cui prevale o la fuga dall’urna, ritenuta ormai inutile, o il voto volatile, legato al momento, ad una storia, ad una persona ritenuta diversa dall’establishment. I tempi, la scarsità di risorse e tanti altri fattori, non hanno giocato a favore di PTD ma queste sono attenuanti. Se si vuole, come chi scrive auspica, proseguire l’esperienza, anche di questo bisogna fare tesoro.

In fin dei conti, ma tante altre riflessioni ci saranno da fare e non all’ultimo momento, sono almeno 3 i punti su cui un percorso come quello intrapreso, deve rimodularsi: informazione, politicizzazione del Paese, ampliamento del proprio ambito di intervento. L’Italia di oggi, come gran parte d’Europa e forse del pianeta, ha bisogno di godere  di spazi di pluralismo informativo, pubblici soprattutto ma anche prodotti dai soggetti / spazi politici, si può affrontare una sfida di questo tipo che, ad avviso di chi scrive, potrebbe anche riscuotere interesse? In seconda istanza per “politicizzazione” non si intende tornare alla dimensione novecentesca ma neanche disperdere il potenziale formativo che questa aveva, avvalendosi anche degli strumenti della tecnologia. Si può ridare senso all’impegno politico “militante” (non amando il termine volontaria/o) e questo si lega tanto al primo termine “informazione”, quanto al terzo. Ampliare gli ambiti di intervento si traduce nell’entrare in connessione con le molteplici realtà, oggettive e soggettive nel Pase, nei bisogni espressi – lavoro, sanità, formazione, cultura – che vanno ricodificati alla luce di un contesto globale in perenne mutamento, ma anche di quelli che meno hanno avuto, spesso anche nei mondi vicini, meno peso, dai diritti civili, alla libertà di movimento, alla ricerca di un modello sociale alternativo, in grado di salvare il pianeta tanto dalle guerre quanto dalla catastrofe climatica che non si è mai interrotta, prospettando un futuro in grado di disarticolare il pensiero unico dominante senza aver bisogno di modelli alternativi ma egualmente repressivi. Temi che non riguardano le elezioni (non soltanto) e soprattutto riguardano le nuove generazioni. Si può provare a ragionare anche su questo partendo dal fatto che la parola che ci accomuna per decifrare il presente è “complessità”? Per tale ragione è di fondamentale importanza, per il proseguo di questa esperienza, la presenza delle comuniste e dei comunisti, con lo sguardo rivolto all’XXI secolo

 

Stefano Galieni

 

 

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