Ecco perché ci diciamo comunisti e ambientalisti
LAURA CONTI, M. SERAFINI, G. SCHETTINI, R. MUSACCHIO
Noi firmatari ambientalisti della mozione Rifondazione Comunista riteniamo che la nostra epoca veda tutta l’umanità coinvolta nel problema ambientale, al quale i comunisti devono perciò rivolgere grande attenzione adempiendo agli impegni assunti nel XVIII Congresso. Sentiamo quindi l’urgenza di fare misurare con più forza di quanto facciano le mozioni presentate alla discussione, il nostro dibattito con questo tema.
E ormai evidente l’emergere, sul piano europeo, di una crisi e di un arretramento delle possibilità di costruire un movimento ambientalista di massa, duraturo e permanente, in grado di promuovere una trasformazione ecologica dell’economia. Questa considerazione non è suffragata solo dal deludente esito per le liste ecologiste nelle ultime elezioni tedesche, o da quello altrettanto deludente degli ultimi referendum, ma soprattutto dall’andamento di alcune grandi vertenze su cui il movimento ambientalista era chiamato ad un salto di qualità in termini di capacità programmatiche e di radicamento sociale.
Pensiamo ad esempio all’Adriatico dove anziché procedere la trasformazione del modello produttivo padano, stanno prevalendo soluzioni emergenziali impiantistico-depuratìvo; o alla grande questione delle grandi aziende a rischio dove anziché imporsi la trasformazione dei cicli produttivi e le delocalizzazioni, si consumano soluzioni che aprono drammatiche lacerazioni del corpo sociale; o per ultimo pensiamo alle questioni energetiche, dove dopo la vittoria nel referendum antinucleare, siamo entrati in una sorta di purgatorio da cui si rischia di andare anziché nel paradiso del fotovoltaico e del risparmio energetico, nell’inferno del nucleare.
Molte sarebbero le considerazioni da fare sui limiti del mondo verde, sia nelle sue espressioni istituzionali sia in quelle associative, ma essendo queste riflessioni riferite al nostro dibattito congressuale preferiamo concentrare la nostra attenzione sulla crisi di quell’ipotesi rosso-verde sulla quale noi comunisti avevamo puntato nel XVIII Congresso.
Questa crisi nasce, pare a noi, dal fatto che nell’iniziativa del partito si sia perso il nesso evidente tra battaglia ambientalista e sistema dei poteri, ci si è cioè limitati a una critica alle relazioni esistenti tra gli esseri umani e la natura, senza cogliere che nel sistema capitalistico la natura è sfruttata in quanto mezzo di sfruttamento degli esseri umani. Abbiamo cioè avuto una pratica politica che non ha saputo o spesso non ha voluto aggredire i meccanismi forti del modello di sviluppo capitalistico che sono alla base del degrado ambientale.
Il problema ambientale infatti, riconosce due cause fondamentali che si intrecciano fra loro in maniera tanto complessa da rendere difficile distinguere i ruoli e valutarne lo specifico peso nella sua evoluzione storica. Una di tali cause è l’incremento demografico, e l’altra è l’assetto socio-economico che il dominio capitalistico ha imposto al mondo intero.
Il movimento comunista, e più in generale il movimento dei lavoratori e i popoli oppressi, sono giunti con grandi difficoltà e ritardi a identificare l’intreccio delle due cause fondamentali, e l’esistenza stessa del problema ambientale anzi, l’acquisizione di tale consapevolezza è ancora insufficientemente approfondita
Nel mondo capitalista tali difficoltà e ritardi si devono proprio alle caratteristiche dello sviluppo capitalistico e al rapporto fra il capitale e la classe antagonista, rapporto nel quale la classe operaia lotta, secondo un’espressione di Marx, «abbracciata al suo avversario». Infatti, nel processo capitalistico di produzione l’incremento del plusvalore catturato e della trasformazione del «lavoro vivo» in «lavoro morto», avviene attraverso l’aumento continuo e diseguale della produttività del lavoro e questo aumento viene ottenuto attraverso lo sfruttamento delle risorse ambientali come le fonti energetiche o il ciclo dell’acqua, e genera disoccupazione; si corre così il rischio di crisi, per dominare le quali occorre aumentare la capacità di consumo delle masse popolari; sul fronte opposto la classe operaia è anch’essa interessata alle tecnologie che aumentano la produttività del lavoro, dalle quali spera in una diminuzione della fatica fisica e in una minore pericolosità del lavoro stesso, ma dalle quali viene anche disoccupazione. Piena occupazione e aumento della produttività possono coesistere solo se aumenta la produzione. I due avversari abbracciati corrono dunque insieme verso l’aumento continuo e della produzione e del consumo, a spese di quelle risorse ambientali che fanno aumentare la produttività del lavoro. In questa situazione si elabora l’ideologia della crescita illimitata, nel mito dell’onnipotenza del lavoro umano e della tecnologia e se ne trova traccia – per quanto con accenni di problematizzazione – anche nell’opera di Marx, uomo del proprio tempo, dopo la Rivoluzione d’ottobre il mito del produttivismo tecnologico orientò anche la costruzione della società sovietica, che Lenin vide caratterizzata fondamentalmente dal potere dei Soviet e dalla elettrificazione del paese.
Per quanto la limitatezza delle risorse fosse una verità ovvia, il dominio dell’ideologia dell a crescita impedì all’opinione pubblica di prenderne atto sino agli inizi degli anni Settanta, quando le rivendicazioni dei paesi petroliferi arabi posero fine all’epoca dell’energia quasi gratuita, e ciò fece riflettere che, anche al di là delle vicende politiche, la limitatezza delle risorse energetiche fossili rende «non sostenibile» un modello di società che si fonda su un consumo energetico maggiore del flusso di energie rinnovabili. Questa riflessione scosse dalle fondamenta il modo generalizzato di pensare, in un travaglio che tormentò il mondo scientifico, il mondo politico, il mondo sindacale, il nostro stesso partito.
Anche per merito delle riflessioni condotte dalle donne, particolarmente sensibili al problema della sostenibilità come problema del rapporto fra le generazioni presenti e le generazioni future, il concetto di «limite» va ampliandosi e approfondendosi. Oggi non si ragiona più soltanto nei termini del limitato numero di barili di petrolio giacenti sotto terra o sotto il mare, ma nei termini dell’incremento dell’effetto serra dovuto alla combustione dei fossili, del conseguente cambiamento del clima e dell’innalzamento del livello dei mari; e ci si interroga sul limite dell’innalzamento dei mari che l’umanità può sopportare senza perdere le infrastrutture costruite nei secoli a livello del mare (che sono una parte rilevante di tutte le infrastrutture) e senza perdere un’eccessiva estensione delle terre rese coltivabili con le deforestazioni e le bonifiche.
Più in generale ci si interroga sul limite delle modificazioni che l’umanità può imporre all’ambiente senza perdere la possibilità stessa di sopravvivenza fisica e, prima ancora, senza perdere, in modo esasperantemente competitivo e banalizzato, monotono, asfaltato, serializzato, la qualità della vita, il gusto del vivere.
Questi interrogativi si fanno particolarmente pressanti da quando le popolazioni dei paesi governati dai comunisti, nelle contraddizioni che i loro governi sono stati totalmente incapaci di superare, guardano ai paesi capitalisti come a modelli da imitare.
Quando si osserva un dato innegabile, e cioè che l’economia di mercato induce a produrre grandi quantità di merci, di buona qualità e rispondenti ai gusti del pubblico, si deve anche’ osservare che la capacità di promuovere un incremento della produzione di merci va considerata criticamente data la limitatezza delle risorse ambientali, non solo energetiche, ma anche materiali I materiali inorganici, non essendo rinnovabili, tendono a presentare costi crescenti, energetici e ambientali, di estrazione.
Questo è uno dei motivi che spingono alcuni settori industriali a domandare materie prime all’agricoltura: ma anche la fertilità dei suoli è una risorsa limitata, solo limitatamente rinnovabile II progresso tecnico agisce in controtendenza, diminuendo i costi energetici e ambientali relativi ai materiali inorganici (mentre non riesce a tutelare la fertilità dei suoli) e questo fatto rinvia, ma non elimina, la prospettiva che ci si trovi costretti a interventi limitativi dell’immissione sul mercato di merci particolari. Per le automobili e le seconde o terze case questa prospettiva è già vicina, in quanto la risorsa limitata che è in causa per queste merci è il territorio
Non ci si può dunque affidare al mercato senza affrontare il rischio che esso venga sconvolto dalla incompatibilità con l’ambiente.
Questo tipo di rischio si mette in evidenza se si riflette sugli effetti dell’economia di mercato sulla situazione dei paesi ad alto livello di industrializzazione . Se poi «riflette sul mercato interazionale, espressione della cosiddetta «interdipendenza delle economie», ci si accorge di incompatibilità ambientali ancora più stringenti e severe, che si generano con meccanismi diversi e si intrecciano con pericolosità politiche e militari.
Uno de i meccanismi che trasformano l’infittirsi degli scambi sul mercato internazionale in un addensamento d i minacce sull’ambiente consiste nel fatto che, mentre esiste davvero un’interdipendenza fra le nazioni in senso sociale, politico, culturale, sul piano economico l’interdipendenza non c’è, in quanto c’è soltanto la dipendenza dei paesi poveri dai paesi ricchi. Questa condizione di dipendenza costringe i paesi poveri a svendere le proprie risorse ambientali, in forme diverse: dall’abbattimento delle foreste con la conseguente desertificazione del territorio o quanto meno il suo grave impoverimento sotto il profilo dei fenomeni vitali, sino all’accoglimento de i processi industriali più energivori e inquinanti. Nasce nei paesi ricchi la preoccupazione che questo stato di cose aggravi il degrado ambientale a livello planetario; ma, questa preoccupazione non modifica in alcun modo i loro comportamenti, e se ne ha una drammatica dimostrazione da quel che sta accadendo nel Medio Oriente: proprio mentre le nazioni europee si piangono addosso per l’incremento dell’effetto serra, e criticano gli insensibili Stati Uniti, esse danno il loro attivo contributo politico, morale e materiate, a quel consistente incremento dell’effetto serra che si genera con l’insediamento di mostruosi impianti militari nel deserto saudita, insediamento finalizzato a contenere l’aumento del prezzo del petrolio, e in definitiva a conservare e aumentare quell’incremento dell’effetto serra che viene generato dal modello di consumo affermatosi grazie al petrolio nelle società capitalistiche.
È insensato discutere sui programmi di risparmio energetico e al tempo stesso partecipare attivamente all’impresa medio orientale, nella quale si manifesta l’intrecciarsi della pericolosità di una guerra distrutta a con una pericolosità ambientale.
Un secondo meccanismo che collega l’infittirsi degli scambi sul mercato internazionale e modifiche irreversibili dell’ambiente è meno visibile perché non ha scatenato tensioni politiche e militari, ed è strettamente collegato al fatto che sul mercato internazionale si realizza non già una «interdipendenza», bensì una «dipendenza». Infatti il mercato internazionale ha messo in atto flussi di materia dei paesi poveri, e dagli oceani, ai paesi ricchi dove si concentrano da tutto i il mondo materiale che per così dire «si ingorgano» e non possono più completare i loro cicli biogeochimici . Si verifica così, come avvertono i grandi maestri dell’etologia, un doppio inquinamento: un inquinamento «per difetto» ne i luoghi di partenza del flusso, e un inquinamento «per eccesso, nei luoghi di arrivo.
Vi sono territori che perdono azoto in quanto utilizzano le deiezioni animali non per reintegrare l’humus ma per cuocere la minestra, mentre nella Valle Padana c’è un tale afflusso di proteine da tutto il mondo, che non riusciamo a impedire il filtraggio dei nitrati in falda, con effetti cancerogeni che si manifestano nei prossimi anni.
Vi è un unico modo per ricostituire i cicli biogeochimici sui quali si regge l’ecosistema la diminuzione dell’entità e dell’ampiezza geografica del trasporto di merci, cioè la ricostituzione di economie a raggio medio-piccolo.
Ma il sistema capitalistico non può affrontare questo aspetto fondamentale della riconversione ecologica dell’economia, esso infatti, si regge su una progressiva specializzazione produttiva de l territorio che implica un progressivo ampliamento spaziale della circolazione delle merci, dato che la specializzazione porta a una diminuzione dei costi di produzione, basata sull’azzeramento dei costi ambientali e sulla insostenibilità del processo produttivo.
Mentre nel movimento ecologista vi sono gruppi che per il fatto che l’ambiente «ci riguarda tutti», non riescono a individuare i soggetti della lotta per l’ambiente, i comunisti – riconoscendo l’incompatibilità tra il sistema economico capitalistico e la difesa dell’ambiente – dovrebbero individuare nella lotta per l’ambiente un impegno indissolubile dalla lotta contro l’alienazione capitalistica
Inoltre è chiaro che la ricostituzione di economie a raggio medio e piccolo riduce lambito della competitività tra imprese; ed è proprio la competitività su scala mondiale a generare quei fenomeni di corporativismo «verticale» . nell’impresa o nel comparto produttivo, anziché «orizzontale» nell’appartenenza a una classe che ha sinora reso molto difficile al movimento dei lavoratori farsi carico del problema ambientale ogni volta che si è cercato di imporre alle imprese in rispetto di elementari normative ambientali, ci si è trovati di fronte alla resistenza dei lavoratori, sui quali la perdita di competitività dell’impresa sul mercato faceva incombere la minaccia della perdita del posto di lavoro. Anche qui si rileva un nesso oggettivo tra quegli aspetti del meccanismo economico capitalistico che infliggono ali ambiente danni irreversibili, e quegli aspetti che costringono i lavoratori a scegliere fra le sorti dell’ambiente e le sorti dell’impresa quelle dell’impresa: qui è uno degli aspetti più drammatici dell’alienazione capitalistica
Taluni possono temere che questa «visione generale» conduca a delineare utopici. ma la visione generale ci aiuta invece a individuare obiettivi concreti, immediatamente operativi. Riflettiamo, per esempio sulla questione del risparmio energetico strettamente collegata a molti aspetti della questione ambientale: ai fatti già citati, che dimostrano come l’allarme sull’effetto serra sia fondamentale insincero, altri se ne possono aggiungere, ci si rallegra per le grandi fabbriche che viene deciso di impiantare nei territori della mafia, ma perché devono essere fabbriche di automobili anziché di rotaie e di treni, oppure cantieri navali? Il motivo è semplice: si calcola che, a scadenza medio-breve, l’integrazione delle economie europee d’oriente e d’occidente immetterà sul territorio europeo altri 15 milioni di automobili, e in questa prospettiva ogni preoccupazione per l’effetto serra si dissolve.
Ma il problema non è soltanto quello che agitiamo da anni senza molti risultati, anche nel nostro partito visto la recente decisione di appoggiare il raddoppio dell’autosole tra Bologna e Firenze, di investire sui trasporti a minore attrito: poiché un terzo dell’energia annualmente spesa sul territorio nazionale viene speso per i trasporti, o si pone mano a una trasformazione radicale (e certamente lenta) del modo di vivere che diminuisca il volume e il tonnellaggio dei trasporti, o immancabilmente ci si troverà un giorno a scegliere le automobili elettriche, rifornite di energia elettrica dal sistema nucleare.
Per sfuggire al dilemma «effetto serra o rifiuti radioattivi» dobbiamo dunque progettare una radicale trasformazione, graduale ma continua, del modo di vivere. Serve dunque alimentare un punto di vista antagonista al capitalismo. Lo sviluppo capitalistico dell’agricoltura determina infatti un modello di agro-industrializzazione multinazionale centrato soprattutto su grandi imprese agricole e commerciali destinate a produrre materie prime per l’industria o dedite all’esportazione.
Si assiste ad un rimodellamento e concentrazione dei sistemi agricoli e alimentari con crescenti e devastanti squilibri. Si produce una polarizzazione all’interno del regime fondiario, delle unità produttive a grande dimensione che si accaparrano la terra migliore, il capitale le risorse tecnologiche, aiuti pubblici, ecc.
Si manifesta così una differenziazione regionale e per prodotti. Da un lato la modernizzazione capitalistica produce effetti sociali gravi (disoccupazione, disintegrazione delle economie contadini, depauperizzazione della popolazione rurale, emigrazione verso le città) e dall’altra impone prodotti alimentari e modelli di consumo a «misura» dei passi ricchi determinando l’abbandono di regimi alimentari tradizionali di parte della popolazione mondiale del Terzo mondo. Inoltre tale modello esporta tecnologie energivore nei sistemi agricoli più deboli I paesi poveri si trasformano sempre più da esportatori in importatori di derrate alimentari. La crisi alimentare dei paesi del sud del mondo determina effetti ambientali acuti (l’abbandono delle coltivazioni provoca non solo desertificazione di molte aree ma attenua al fatto le possibilità di abbattimento di CO2 attraverso la riduzione della biomassa prodotta).
Ma questo processo non può venire avviato senza previamente creare una propensione di una parte della popolazione ad abbandonare la pianura e l’ambiente urbano per insediarsi in campagna o sulle colline o sui monti. Per quanto una tale scelta possa anche nascere da motivazioni etiche e culturali, occorre impedire che essa diventi una scelta di sacrificio. Ciò significa scelta oculata delle aree da proporre per i nuovi insediamenti, ma anche alto livello dei servizi educativi e sociosanitari; e non solo questo ma anche creazione di economie a breve raggio e però complesse. La complessità di aggiungere il massimo possibile di valore alle risorse offerte dall’ambiente. e il «breve raggio» deve armonizzarsi con la ricerca,della diversificazione delle fonti di reddito, in uno sforzo di ottimizzazione che starà a cuore particolarmente alle donne: esse infatti sentono molto vivamente il pericolo che l’unificazione delle fonti di reddito comprima la libertà delle scelte loro proprie, e delle scelte dei figli.
Quel che si deve costruire, per un’economia «sostenibile», è una società che «corteggi la terra», secondo l’espressione di un ecologo francese, ma non certo una società patriarcale, o «all’antica». Anzi, lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione potrà darci grande aiuto sia per la diversificazione delle fonti di reddito (es.: lavoro diffuso) sia per elevare il livello dei servizi.
La progettazione e l’attuazione di queste aree a economia complessa, e a cultura complessa, non saranno possibili se non assegnando un ruolo di protagonista agli enti locali più un generale senza un diffuso e forte protagonismo sociale.
Il principio di ridurre quanto possibile i flussi di materia, e di collegare i flussi di materia all’aggiunta di valore (cioè; esportazione di prodotti finiti piuttosto che di materie prime) dovrebbe orientare non solo gli scambi tra piccole aree ma anche gli scambi Ira grandi aree, cioè il commercio internazionale. Ma le questioni del commercio internazionale si collegano alle questioni ambientali in maniere diversificate, oltre che complesse.
Gli studi compiuti da organismi interazionali, come la commissione Brundland, ci dicono che il problema è sempre quello di modificare le ragioni di scambio, ma in certi casi essa dovrà venire modificata nel senso «socialista» di assicurare uguale compenso a lavoro uguale per durata e intensità, e in altri casi dovrà venire modificata nel senso «comunista» di assicurare a tutti gli uomini la soddisfazione dei bisogni fondamentali (che si diversificano tanto più, quanto più gli uomini sono numerosi, e insediati su aree vaste). Inoltre, tutti gli uomini hanno diritto anche ad attingere al patrimonio culturale, scientifico, tecnologico, degli altri uomini. Sarà difficile organizzare un mercato internazionale che soddisfi queste diverse esigenze: anzi, più che di un «mercato» si tratterà di una distribuzione di risorse, perché il mercato è ciecamente livellatore, non può tener conto né delle situazioni storico-sociali diverse, né delle diverse situazioni ambientali.
Eppure questo sforzo difficilissimo va fatto, per due gravissimi motivi: occorre evitare che popoli disperati, svendendo le proprie risorse ambientali, mettano in pericolo l’intero ecosistema planetario a una velocità ancor maggiore di quella con la quale lo mettono in pericolo i popoli ricchi;e serve soprattutto per determinare un nuovo equilibrio tra popolazione e territorio capace di suscitare effetti redistribuiti delle popolazioni. Naturalmente esso è l’esatto contrario di una politica di chiusura rispetto a esigenze e a volontà di spostamento e quindi antidemocratiche e velleitarie chiusure o di numero chiuso, ma può essere il frutto di una politica di effettiva programmazione del rapporto economia territorio che consenta una vera possibilità di scelta sulla propria condizione di cittadinanza territoriale.
È utopico proporre tutto ciò rispetto alle grandi società industriali complesse, al mondo delle interdipendenze? A noi sembra invece che affidare l’enorme potenziale tecnologico che abbiamo, la fragilità estrema del nostro Pianeta, la soluzione di sofferenza insostenibile alla rincorsa competitiva, alle logiche di potenza, alla ricerca del profitto a breve termine sia un tragico rischio da non correre. Democrazia, solidarietà, cooperazione, eguaglianza sono le strade non dell’utopia ma di una concretezza senza alternative.
È per questo che continuare a pensarsi comunisti e ambientalisti, cercare le vie per rifondare questo nostro modo di essere è il contributo che sentiamo non solo di volere dare ma di essere tenuti a dare.
2 Commenti. Nuovo commento
Caro Roberto
Il tuo articolo mi ha commossa
Grazie! Anche a me ritrovarlo. Le cose potevano andare diversamente. Però ci abbiamo provato e lo facciamo ancora!