“Per troppo tempo le autorità britanniche hanno permesso che il sistema di asilo in questo paese fosse abusato dai trafficanti di persone malvagie che depredano i vulnerabili da un lato e dagli avvocati attivisti di sinistra che impediscono i tentativi di aggiustare il sistema dall’altro. La decisione di trattare le domande di asilo in un centro di detenzione in Ruanda è sensata a diversi livelli. Significa che coloro che falliscono non avranno diritto di residenza qui e potranno essere rimpatriati più facilmente nel loro paese d’origine. Ancora più importante, rimuoverà l’incentivo per coloro che traggono profitto dall’imbarco di persone su piccole imbarcazioni per il pericoloso viaggio dalla Francia”. Sono queste le parole con cui il primo ministro britannico, Boris Johnson, ha spiegato le ragioni per cui il suo governo intende deportare in Ruanda, un paese africano che lentamente sta uscendo fuori dalle tragedie dei decenni passati, i richiedenti asilo entrati “illegalmente” nel Regno Unito e che non provengono dall’Ucraina. Come riportato dalla Bbc la ministra degli Interni, Priti Patel, sta per siglare un accordo col governo del paese africano, da 120 milioni di sterline (quasi 157 milioni di dollari) che prevede deportazioni rapide per i richiedenti asilo arrivati nel Regno e la gestione dell’intero processo burocratico in Ruanda. Molte ong hanno criticato il piano, definendolo “crudele” e chiesto un ripensamento del governo conservatore. L’opposizione laburista, va detto, l’ha bollato come “impraticabile e immorale“. In una nota dal titolo, “i profughi non sono merce” e firmata da Gillian Triggs, assistente dell’Alto Commissario dell’Unhcr, si ribadisce la contrarietà ad accordi – quello britannico non è il primo – con cui si cerca di trasferire rifugiati e richiedenti asilo in Paesi terzi, in assenza di salvaguardie e standard sufficienti. Secondo la nota “simili accordi spostano le responsabilità riguardanti l’asilo, eludono gli obblighi internazionali e sono contrari alla lettera e allo spirito della Convenzione sui Rifugiati. Le persone che fuggono da guerre, conflitti e persecuzioni meritano compassione ed empatia. Non dovrebbero essere scambiate come merci e trasferite all’estero per l’esame della loro richiesta di asilo”. L’Unhcr esorta entrambi i Paesi ad un ripensamento ed avverte anche che invece che dissuadere i richiedenti asilo dal mettersi in mano ai trafficanti in viaggi pericolosi, gli accordi di esternalizzazione ottengono l’unico risultato di aumentare i rischi inducendo chi fugge a cercare canali alternativi. Il Ruanda stesso, per quanto abbia “generosamente” fornito un rifugio sicuro per chi scappa da persecuzioni, da decenni, permette a gran parte degli accolti soltanto di vivere in campi con accesso limitato alle opportunità economiche. A detta dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, sono le nazioni più ricche a dover mostrare solidarietà, aumentando anche il sostegno a Paesi come il Ruanda che già li ospitano, non certo aumentando il numero di persone che vi vengono accolte.
La dichiarazione di Johnson non abbisogna di commenti quanto di una profonda riflessione che non riguarda solo l’isola britannica che, dopo la Brexit ha sempre più alzato muri anche verso gli altri cittadini UE. Detta in questo periodo, nel momento in cui centinaia di migliaia di donne e bambini fuggono da un paese invaso come è l’Ucraina ma continuano le fughe da altre guerre meno attenzionate dalle prime pagine dei giornali, il cinismo e l’ipocrisia del governo britannico (lo facciamo unicamente per combattere i trafficanti e disincentivare l’arrivo di nuovi profughi), lascia allibiti ma offre una perfetta cartina di tornasole per mostrare al mondo quali siano i veri “valori occidentali”. Va poi notato come la stessa presa di posizione dell’Unhcr contenga un limite profondo. Il problema, secondo la nota citata, non è rappresentato dalla deportazione in sé ma dal Paese in cui viene effettuata, dal presunto grado di sicurezza e garanzia di rispetto dei diritti umani che questo rappresenta.
Archiviata la Convenzione di Ginevra, che pur non obbligando i singoli Stati ad accogliere i richiedenti asilo, condanna ogni forma di repressione nei loro confronti, viene da chiedersi, con quale ardire continuiamo a definire questo sistema valoriale come “mondo libero”?
Un modello che si è esteso in gran parte del pianeta al punto che ad oggi, sempre secondo i dati dell’Unhcr, riportati nell’ottimo volume in uscita da Idos e dal titolo “Ospiti indesiderati”, l’86,2% dei circa 82,4 milioni di “migranti forzati” (coloro che subiscono guerre, oppressioni, dittature, carestie derivanti dai cambiamenti climatici ecc.), resta nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Parliamo di numeri in crescita. I dati precedentemente riportati e certificati arrivano al 31 dicembre 2020, nel marzo del 2021 le cifre dei forzati superavano già gli 84 milioni e poi da allora sono intervenute crisi umanitarie come quella afghana prima e ucraina, entrambe ancora in corso mentre è risalito il numero di persone che fugge dalla Siria. Tutti in Gran Bretagna o tutti in Europa? Non sembra. Il primo paese UE per numero di rifugiati accolti era, alla fine del 2020, la Germania, con 1,2 mln di persone, al 17° posto. La Francia era al 30° posto con 436 mila rifugiati e 118 mila persone in attesa di risposta, la Svezia al 42° con 248 mila domande accolte e 19 mila in esame, la Spagna 49° con 104 mila accolti e 103 mila in attesa. E l’Italia? Al 53° posto con 128 mila rifugiati e 54 mila che aspettano un verdetto. Gli altri e le altre sono in Colombia, Pakistan, Siria, Turchia, Uganda, Libano, Giordania, Sudan, Repubblica Democratica del Congo ecc. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di Paesi più grandi. Vale per il Libano, grande meno dell’Abruzzo che ha un quarto della popolazione composto da rifugiati? In UE e Gran Bretagna, il numero dei rifugiati e dei richiedenti asilo è in calo dal 2019 – la questione Ucraina attiene ad altro problema – al punto che l’incidenza di costoro sull’intera popolazione europea era, sempre a fine 2020 dello 0,8%, con punte più alte nei paesi piccoli come Lussemburgo, Cipro e Malta, ma con l’Italia sempre per autocitarci, che era ben al di sotto con lo 0,3%. Che posizione occupa oggi il regno di Sua maestà britannica rimasto orfano dell’impero? L’allarme che ha permesso al governo Johnson di attivare il processo di deportazione deriva da un recente, forte incremento del numero di persone che hanno tentato di forzare la Manica. Meno di 30 mila persone in un anno, una cifra ridicola, tenendo conto che negli anni passati gli ingressi erano stati di molto inferiori. Nel 2021 risultavano presenti nell’UK 135 mila rifugiati e 82 mila in attesa di risposta, la maggior parte entrati legalmente.
Ma questo evidentemente non è bastato. Nella costruzione dell’Occidente da ventunesimo secolo, il cui etnocentrismo sembra in costante crescita, chi arriva da contesti africani, asiatici o latino americani, va tenuto a bada. Si facciano entrare quelli che ci servono, si tengano fuori coloro che non hanno ragione di essere accolti. La costruzione del nemico esterno che assedia i “nostri valori” (altro che guerra fra poveri) è un perfetto collante che tiene insieme tanto il white power predominante quanto le persone ormai “integrate”. Il trattenimento “off shore” dei richiedenti asilo non inizia oggi, è parte insita di quello che si offre al mondo, sovente sotto forma di guerre, come modello di democrazia. E in fondo la mossa del Regno Unito, è terribilmente simile a quella realizzata nell’Australia, un tempo parte del “glorioso” impero britannico. Quello che ormai è universalmente definito il “metodo australiano” è a ragione considerato uno dei regimi di immigrazione più severi e disumani del pianeta. Un metodo che nasce nel 2001 dopo che un cargo norvegese salvò 433 richiedenti asilo e il governo Australiano rifiutò il permesso di ingresso nelle proprie acque territoriali. Nacque allora quella che fu definita “Pacific Solution” e che consiste nel trasportare i richiedenti asilo nei centri di detenzione delle nazioni insulari nell’Oceano Pacifico, impedendo qualsiasi ingresso in Australia. Un esempio tanto agitato come da imitare dalle destre europee accomunate da scarsa conoscenza della geografia. Inizialmente implementato dal 2001 al 2007, all’epoca aveva il sostegno bipartisan di centro destra e centro sinistra e la sua attuazione ha conosciuto alti e bassi. Una fake news come il “Children Overboard” permise nel novembre del 2001 al centro destra di vincere le elezioni. Una nave era affondata, priva di soccorso nell’agosto dello stesso anni e i media australiani riportarono la notizia secondo cui i rifugiati, per ottenere il soccorso, avevano gettato i bambini in mare. Un falso conclamato, ma si seppe anni dopo. Quanto bastò per far valere una politica di criminalizzazione dei richiedenti asilo. Va detto che la Pacific Solution venne smantellata nel 2008, dopo la vittoria laburista. L’allora ministro per l’immigrazione e la Cittadinanza Chris Evans, lo descrisse come “un esercizio cinico, costoso e alla fine senza successo”. Ma 4 anni dopo fu un governo dello stesso segno politico a riaprire i centri di detenzione delle isole di Nauru e Manus, per riprendere il trattamento off shore. Il 19 luglio 2013 il primo ministro Rudd, anch’egli laburista, annunciò che “i richiedenti asilo giunti in barca e senza visto non potranno mai stabilirsi in Australia”. Venne stipulato un accordo con Papua Nuova Guinea (PNG Solution) per deviare i profughi alla detenzione obbligatoria e a tempo illimitato sull’isola di Manus senza poter ottenere la residenza australiana. Nel settembre dello stesso anno vinsero però le elezioni le forze del centro destra della Coalition e la gestione dell’immigrazione prese il nome di “Operazione Sovereign Borders”. 6 anni dopo, i responsabili di tale politica riferivano che il 31 marzo 2019, non c’erano più detenuti nel centro di Nauru e che due anni prima era stato chiuso quello di Manus. Eppure il 30 settembre 2019 a Papua Nuova Guinea e Nauru risultavano esserci ancora 562 richiedenti asilo. Le condizioni in quei centri sono, secondo MSF, inumane. Non solo la detenzione ha riguardato anche bambini e donne ma negli anni sono state registrate almeno 12 morti nei centri. Un team di MSF dichiarò ai media internazionali di aver visto a Nauru alcune delle peggiori sofferenze nella storia della loro organizzazione. Il dottor Nick Martin era stato nella Royal Navy britannica per 16 anni; in seguito ha trascorso 8 mesi sull’isola di Nauru curando i rifugiati malati, intervistato da Sky News Australia dichiarò che il campo era come una “prigione”, con un riparo di base, una fornitura d’acqua interrotta e, se eri “fortunato”, l’elettricità. “Tutto quello che si può fare è cercare di impedire alle persone di uccidersi, puoi cercare di dare loro speranza, ma per cosa?”. Il campo di detenzione a Papua Nuova Guinea è stato chiuso nel 2021, dopo che la Corte Suprema aveva affermato che la struttura sull’isola Manus era illegale. Alcuni dei detenuti sono stati trasferiti a Narau altri hanno potuto scegliere di iniziare il processo per diventare cittadini di Papua.
La Gran Bretagna di Johnson, il cui problema risiede unicamente nei pochi richiedenti che giungono dalla Manica, dopo aver per anni speso milioni di sterline per centri di detenzione, in cui tenere anche i richiedenti asilo, totalmente in mano a privati, pensa di avere trovato una soluzione spedendo come pacchi quelli che giudica illegali, a 7.000 km di distanza e senza reali possibilità di ritorno. In questa maniera coniuga il sostegno al border industry complex, l’equivalente in scala ridotta per respingere persone del cosiddetto complesso militare industriale per condurre operazioni militari, con la disperata ricerca di consenso e col fatto che, essendo venuta meno l’aderenza all’UE, non può più appellarsi, per fare respingimenti, né al Regolamento Dublino, ne alle forme di sostegno garantite dai 27. Anche il governo ruandese ha le proprie responsabilità. Non è infatti la prima volta che nel Ruanda ci si rende disponibili per operazioni simili: tra il 2014 e il 2017, il premier Kagame stipulò accordi con Israele attraverso cui cittadini dell’Africa Sub -Sahariana, in particolare eritrei e sudanesi, venivano spediti a Kigali al costo di 5.000 euro cadauno.
Sembra che almeno 4.000 persone siano state “volontariamente” convinte a imbarcarsi per questo volo o verso un altro paese disponibile, l’Uganda. Gran parte ha poi ritentato di entrare in Europa. E col Ruanda ha collaborato, attraverso un accordo condiviso con l’Unione Africana, anche l’Unhcr, per evacuare in emergenza migranti dalla Libia nel 2019. In poco tempo sono arrivati 824 migranti ma 565 risultano poi trasferiti in paesi terzi o rimpatriati.
Ma guai a scandalizzarsi per la scelta britannica, sarebbe pura ipocrisia.
I “valori occidentali” trionfano anche nel resto d’Europa e l’Italia ne è fulgido esempio. Come altrimenti definire i 23 mila potenziali richiedenti asilo respinti nei lager libici, senza neanche aver accettato di permetter loro di fare domanda di asilo? Lo si è potuto realizzare grazie all’agenzia che più di tutte ha provveduto ad esternalizzare, con ogni mezzo necessario, le frontiere marine europee, è nota, si chiama Frontex e molti dei suoi principali dirigenti sono oggi al centro di inchieste sia per i respingimenti illegali sia per la gestione opaca degli immensi fondi di cui questa dispone. La sua sede centrale, la ragione è ignota, è in Polonia, da poco anche la Moldavia ne è parte e se negli anni passati le spese servivano a pagare assetti navali che a volte si prendevano anche la briga di soccorrere naufraghi, ora sono impiegate in droni, aerei e sistemi di controllo atti a segnalare alle Guardie costiere di Libia e Tunisia, la presenza di imbarcazioni di fuggitivi. Sono i militari di quei paesi, addestrati e finanziati dall’UE ad andarseli direttamente a riprendere. Da anni ormai entrare legalmente in Europa, per chiedere asilo o protezione umanitaria è di fatto legalmente impossibile. Se si eccettua la gentile concessione per chi fuggiva dall’Afghanistan dopo l’ingresso talebano a Kabul del 15 agosto, presto interrotta e l’altrettanto legittima messa in atto direttiva europea 55/2001 valida unicamente per i profughi con cittadinanza ucraina, al resto del mondo sono preclusi gli ingressi e quanto attuato da Johnson è soltanto la punta dell’iceberg di una chiusura definitiva. I finanziamenti erogati alla Turchia con gli accordi del marzo 2016 (6 mld di euro in cambio della disponibilità a farsi carico, senza controllo alcuno, di chi fuggiva dalla Siria e di fatto anche da altri Paesi dell’area) sono stati rinforzati nel luglio scorso con altri 3,5 mld di euro per sbarrare le porte. A questo si aggiunga il continuo innalzamento di muri, barriere di filo spinato, controllo militare, ai confini dell’UE ma anche all’interno, fra uno Stato e l’altro, in un continuo rimpallarsi di uomini, donne e minori di cui non ci si vuole far carico. Falliti miseramente i progetti di relocation dei richiedenti asilo, dai paesi di frontiera verso quelli disponibili ad accoglierne proporzionalmente alle possibilità, l’Europa, sempre più propensa a rivendicare l’intangibilità dei confini, muri a parte le scelte per il futuro vicino sembrano essere delineate secondo il più antico schema coloniale. Un benestare cautelativo per coloro che sono affini, per colore della pelle, religione, “cultura” e “valori” (questi due termini andrebbero meglio delineati), qualche concessione per coloro che risultano utili al mercato e per il resto, la maggior parte, quell’86% di coloro che non possiedono queste caratteristiche, tutto si chiude. Con le deportazioni, come intendono fare Gran Bretagna, Danimarca e presto altri Paesi, con il controllo totale delle frontiere e il rifiuto di qualsiasi concessione all’UE, nel Gruppo Visegrad, con i respingimenti che tradiscono il principio di non refoulement messi in atto da anni da Italia, Grecia, Malta e Spagna, con l’applicazione metodica del Regolamento Dublino per rimandare nel paese di arrivo chi ha osato spostarsi, con l’intensificazione dei rimpatri a prescindere prevista dal New pact on migration and asylum.
Quello che insomma non permettono le distanze marittime in Australia, in UE lo si attua con gli strumenti di respingimento, in UK con le deportazioni, dappertutto, Usa compresi, con i muri. I “valori occidentali” di inclusione, pace e accoglienza, hanno un limite, non certo numerico, ma basato sui tratti somatici, sul colore della pelle, sulla religione e sulla classe sociale d’appartenenza (i ricchi sono sempre benvenuti) e guai a chi non si adegua. Portare in salvo i profughi ucraini oggi è atto di eroismo, come è giusto che sia, salvare persone in mare che arrivano da altri conflitti è “favoreggiamento dell’immigrazione illegale”. Più chiaro di così. Da ultimo due annotazioni. Il governo conservatore britannico che tanto si è profuso in dichiarazioni di accoglienza per chi fugge dall’Ucraina, finora, non dovendo obbedire alla direttiva europea, ha concesso il visto (dati di 2 settimane fa) a 2.700 persone, mentre per 22.800 sono scattati i permessi per ricongiungimento familiare. Un po’ poco per il Paese che dichiara di essere il primo a fianco di Kiev. Con questi risicati numeri, sono già state aperte inchieste perché c’è il forte sospetto che per una parte siano scattati percorsi di tratta per sfruttamento a scopo sessuale. Anche questi evidentemente sono i valori occidentali.
Per chiudere, con dedica a chi considera il nazionalismo russo, xenofobo e fortemente anti-immigrati come erede della gloriosa Rivoluzione d’Ottobre confondendo in un unico calderone aspiranti zar e Repubblica dei Soviet, va ricordato che la Costituzione sovietica del 1918, Capitolo V, art. 20 e 21 recitano: “In forza della solidarietà dei lavoratori di tutte le nazioni, la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa accorda tutti i diritti politici dei cittadini russi agli stranieri che risiedano sul territorio della Repubblica Russa per ragioni di lavoro e che appartengano alla classe operaia oppure ai contadini che non si avvalgano di lavoro altrui, e riconosce ai Soviet locali il diritto di accordare a tali stranieri i diritti della cittadinanza russa senza ulteriori difficoltose formalità. La Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa concede diritto di asilo a tutti gli stranieri perseguitati per reati politici e religiosi”. Un’altra epoca, non c’è che dire, anche e non solo nel linguaggio. Ma non si confondano queste parole con i crimini di Putin.
Stefano Galieni