di Mario Agostinelli
Trenta anni di negazionismo climatico
Sul piano socio-ambientale, dall’89 ad oggi, gli anni sono passati colpevolmente, senza adeguati esiti per invertire la rotta rovinosa del cambiamento climatico. Ci troviamo per la prima volta di fronte al caso in cui il potere di consumo e spreco di natura su scala planetaria potrebbe sovrastare la capacità politica dell’umanità di contenere il suo impatto sulla biosfera. A meno di cambiamenti strutturali, che andrebbero portati al cuore del sistema del capitalismo globale. Da questo punto di vista, la caduta del muro potrebbe persino aver resa più efficace la depredazione dei beni naturali guidata da un Occidente che presumeva la fine della storia. Un percorso irresponsabile, che si è dipanato nel fine secolo e la cui decelerazione cominciava ad essere al centro dell’agenda di Gorbaciov e di un ambientalismo oggi dimenticato, che allora però attraversava vigoroso i confini delle due Germanie e influenzava le politiche dell’Unione Europea ancora sufficientemente “sociale”. Sulla questione climatica i dettagli sono cambiati, ma per molti aspetti le questioni principali rimangono all’incirca come le avevamo nel 1989. Oggi il ricco “noi” può permettersi di convertirsi in energia pulita e ridurre la vulnerabilità a calore, inondazioni e altro. Ma il resto dell’umanità sta ancora lottando per ottenere i benefici economici di base che lo spinge a tenere in vita le energie fossili. Nonostante gli impegni assunti a Parigi nel 2015, in quasi tutte le nazioni del mondo le emissioni continuano ad aumentare, mentre sotto l’amministrazione Trump gli Stati Uniti tolgono la firma all’accordo. Il rischio è elevatissimo, ma forse proprio alla fine del 2019 qualcosa di profondamente politico, con radici spirituali e materiali di massa, sta venendo alla luce. Mi riferisco a Francesco, a Greta e a quei tratti di eco-socialismo che caratterizzano certo Green New Deal ancora in formazione.
Sotto il profilo dell’analisi ambientale tradizionale il cambiamento climatico è diverso da qualsiasi problema che abbiamo affrontato. Non possiamo “ripararlo” nel modo in cui abbiamo iniziato a riparare lo smog o il buco dell’ozono, con regolamenti e trattati circoscritti e cambiamenti tecnologici limitati. Il cambiamento climatico è troppo grande nello spazio, nel tempo e nella complessità; le emissioni che lo causano sono una conseguenza centrale dello sforzo di circa 7,5 miliardi di persone e di circa 10 miliardi di donne e uomini nel giro di diversi decenni, per prolungare il tempo della vita sulla Terra.
Nei primi anni ‘90 una serie di fattori – tra cui la grave siccità e il caldo e vasti incendi in alcune parti del mondo – avevano già messo in luce l’effetto serra. Ma non ci rendevamo abbastanza conto di quanto i problemi da affrontare fossero sistemici e che fosse necessario un cambiamento sociale in un mondo che è rimasto per più dell’85% dipendente dai combustibili fossili.
Ciascuno degli ultimi tre decenni è stato successivamente più caldo sulla superficie terrestre rispetto a qualsiasi decennio precedente dal 1850. Nell’emisfero settentrionale, tra 1989 e il 2019 si è verificato il periodo di 30 anni più caldo degli ultimi 1.400 anni. Quando l’IPCC ha comunicato questo rilievo, alcuni paesi si sono detti preoccupati che l’inclusione dei numeri avrebbe avuto ripercussioni politiche.
Gli scienziati hanno scoperto che per mantenere il riscaldamento entro 1,5 °C, le emissioni totali non possono superare le 1.000 gigatonnellate di carbonio: nel 2011 oltre la metà di quella “indennità” totale – 531 gigatonnellate – era già stata emessa. Ciò solleva questioni chiave su come assegnare equamente il restante “bilancio del carbonio” tra i paesi. Glen Peters, uno scienziato del Center for International Climate Research di Oslo, in Norvegia, ha registrato l’aumento del livello di anidride carbonica nell’atmosfera a partire dall’anno 1870 – e ha scoperto che quasi la metà di tale aumento è derivata dalle emissioni umane negli ultimi 30 anni.
Allora è il caso di domandarsi: quale effetto e quali interessi si sono celati dietro la più inqualificabile forma di negazionismo, quella che, anche se non dichiaratamente, mette in conto che non ci sia spazio per tutta l’umanità nel futuro del Pianeta?
Si può dare per scontato il ruolo dei think tank conservatori e talvolta collegati a interessi sui combustibili fossili, ma nel frattempo, la politica americana è cambiata e negli anni ’90 – e soprattutto negli anni 2000 – la questione dei cambiamenti climatici si è polarizzata, dopo la “strana” sconfitta di Al Gore e l’altrettanto “strano” approdo di Scroeder e Blair alla testa dei due maggiori consorzi di gasdotti in Europa. Il mio non è un cedimento a tesi complottiste, ma sicuramente in tempo di crisi è stato agevole diffondere e difendere un “clima culturale”, che sottovalutava qualsiasi soluzione che non fosse subordinata all’aumento del PIL, ovvero al ricorso senza freni ai combustibili fossili e al nucleare. Così, i grandi mezzi di informazione ed una cultura economica e tecnocratica incatenata alla crescita, hanno reso possibile una “svista” di due intere generazioni. Contano certamente altri fattori, più o meno direttamente concause di tanta disattenzione all’emergenza più difficile da riparare: la mancanza di finanziamenti per la ricerca di base, l’influenza dell’industria sulla politica, la scarsa copertura mediatica. Ma non è un caso se Greta e Francesco si rivolgono alla politica per cambiare segno alla storia, non solo alla curva di emissioni di CO2. Manca la politica come ci è stata consegnata dalla dichiarazione dei diritti dell’ONU e come andrebbe arricchita da nuovi diritti in capo al mondo vivente tutto. Occorre riflettere se un Trump tronfio e trionfante può vincere le elezioni dichiarando di voler rinegoziare Parigi e addirittura può, senza scandalo e quasi a fine mandato, rinnegare il ruolo assunto da Obama nel negoziare un accordo globale sul clima in cui ciascun paese avrebbe dovuto stabilire il proprio “ritmo” nel ridurre responsabilmente le emissioni.
Gli accordi sul clima: l’altra storia “sospesa” dal 1989 ad oggi
Il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici è stato istituito alla fine del 1988, dopo che diversi fattori avevano messo in luce l’effetto serra. Siamo quindi nei pressi della caduta del muro di Berlino. Quell’anno ci fu una forte siccità e caldo negli Stati Uniti e vasti incendi nella foresta pluviale amazzonica e nel Parco Nazionale di Yellowstone. Lo schema di una soluzione era stato forgiato appena un anno prima, quando le nazioni del mondo avevano concordato il protocollo di Montreal, che stabiliva misure per eliminare alcuni composti sintetici che mettevano in pericolo lo strato protettivo di ozono nell’atmosfera.
La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) è il primo e principale trattato internazionale che ha puntato alla riduzione delle emissioni di gas serra e viene stipulato al Vertice sulla Terra di Rio de Janeiro nel 1992. Questo accordo ha un carattere non vincolante dal punto di vista legale, nel senso che non impone limiti obbligatori alle emissioni di gas serra alle singole nazioni firmatarie. Segue poi il Protocollo di Kyoto, il primo documento internazionale che ha imposto l’obbligo di riduzione delle emissioni ai Paesi più sviluppati: un -5% (sulla base delle emissioni rilevate nel 1990) nel primo periodo di adempimento compreso tra il 2008 e il 2012, con l’Unione Europea (UE) che per l’occasione si è fissata come obiettivo una ulteriore riduzione dell’-8%. Gli Stati Uniti non hanno mai aderito al protocollo di Kyoto. Il Canada si è ritirato prima della fine del primo periodo di adempimento. Russia, Giappone e Nuova Zelanda non prendono parte al secondo periodo di validità protratto fino al 2020. Questo significa che l’accordo di Kyoto si applica attualmente solo a circa il 14% delle emissioni mondiali.
L’accordo di Parigi – alla COP 21, con 40.000 partecipanti è stato il Summit più mediatico mai fatto da Copenhagen (2009) in poi, ed ha prodotto il primo testo universale per ridurre la temperatura di 2 gradi, cioè sotto i livelli della prima rivoluzione industriale (1861-1880), dal 2015 al 2100 (ovvero 2.900 miliardi di tonnellate di CO2, con un taglio dell’ordine tra il 40 e il 70% delle emissioni entro il 2050). Gli obiettivi dovrebbero essere rivisti nell’ambito degli impegni nazionali (INDC) ogni 5 anni, in modo da renderli sempre più ambiziosi. Ma non se ne è fatto praticamente nulla in sede internazionale. I lavori sugli strumenti di attuazione dell’accordo di Parigi sono proseguiti alla COP 23 che si è tenuta a Bonn a novembre 2017. Essa è stata più una ricerca del dialogo che azione. Gli Stati Uniti sono intervenuti in disaccordo con il presidente Trump (che si è svincolato dagli Accordi di Parigi). Hanno aderito inoltre Cina e India. Alla fine del documento si cita anche l’esigenza di valutare l’attuabilità o meno di un limite ancora inferiore (1,5°C) e si prevede di stabilire il Fondo Verde per il clima, ovvero un impegno finanziario (30 miliardi di dollari l’anno tra il 2010 e il 2012 e 100 miliardi di dollari a partire dal 2020) da parte dei Paesi industrializzati nei confronti delle nazioni più povere. Nulla tuttavia è stato né fatto precisato circa la gestione di questi fondi.
Che sarà del nucleare dopo Chernobyl e Fukushima?
Negli ultimi trent’anni stiamo assistendo ad un ripensamento riguardo al ricorso al nucleare come fonte sostitutiva dei fossili. Non tanto per il prevalere di un auspicabile riconoscimento del legame tra la filiera di produzione di energia e quella terrificante della produzione della bomba, quanto per la persistenza di ricadute gravissime e irreparabili sulla salute e per il timore di eventi di mortalità differita, dovute ad incidenti connaturati alla tecnologia in uso e il cui rischio è ineliminabile. I casi di Chernobyl e Fukushima continuano a procurare allarme e dissuasione.
Le ricadute di Chernobyl (tre anni prima della caduta del muro) hanno avuto un impatto notevole sugli ecosistemi agricoli e naturali in Bielorussia, Russia e Ucraina, nonché in molti altri paesi europei. I radionuclidi sono stati assorbiti dalle piante e successivamente dagli animali. In alcune aree, sono stati successivamente trovati nel latte, carne, prodotti alimentari forestali, pesce d’acqua dolce e legno. Gli impatti sulla salute umana sono stati ampiamente studiati. Gli effetti immediati e a breve termine derivanti da una forte esposizione alle ricadute comprendono malattie da radiazioni e cataratta. Gli effetti tardivi sono il cancro alla tiroide, specialmente nei bambini e negli adolescenti, e la leucemia tra i lavoratori esposti. L’incidente ha avuto anche importanti effetti psicosociali.
A Fukushima dopo l’incidente del 2011, l’operatore della centrale nucleare in rovina dovrà scaricare enormi quantità di acqua contaminata dal sito direttamente nell’Oceano Pacifico. Oltre un milione di tonnellate di acqua contaminata si è accumulata nell’impianto da quando è stato colpito da uno tsunami, innescando una tripla fusione che ha costretto all’evacuazione decine di migliaia di residenti. Il tentativo di rimuovere la maggior parte dei radionuclidi dall’acqua in eccesso non ha avuto successo; inoltre, non esiste alcuna tecnologia atta a liberare l’acqua dal trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno.
Senza entrare in dettaglio, ho voluto richiamare i due incidenti nucleari più noti per esaminare l’altro lato pericoloso e sottovalutato del negazionismo climatico: il rilancio del nucleare sotto la specie di una incrementata ma insufficiente sicurezza, accettata nel nome della catastrofe climatica. L’energia nucleare, come dice Greta, è “estremamente pericolosa, costosa e richiede molto tempo”. In effetti, sarebbe una svolta potenzialmente fatale, a seconda di quanti soldi e tempo vengono sprecati, trascurando al contempo soluzioni climatiche autentiche come le energie rinnovabili e l’efficienza. Ma, soprattutto, l’energia nucleare ha una lunga lista di rischi insormontabili: la proliferazione delle armi; potenziali incidenti su larga scala; il dilemma dei rifiuti radioattivi irrisolti. Occorre si evitare la catastrofe climatica, ma anche la catastrofe radioattiva.
Note conclusive
L’immagine di Greta, dopo l’esplosione di mille piazze in tutto il mondo, non corrisponde più soltanto genericamente all’allarme di una generazione di fronte alla minaccia climatica, ma incarna l’orizzonte temporale in brusco e continuo avvicinamento. Un tempo che manca, entro cui si rende necessario agire per non pregiudicare la continuità della storia umana e la desiderabilità del futuro.
L’evocazione di un tempo a finire capovolge l’immaginario dello sviluppo illimitato che aveva permeato quasi quattro secoli di crescita e di parallela colonizzazione e che già Francesco aveva coraggiosamente cominciato a logorare, a partire dalla constatazione che tra le disuguaglianze sociali e la depredazione della natura esiste una corrispondenza biunivoca. L’Enciclica Laudato Sì e lo stesso svolgersi e concludersi del Sinodo Amazzonico, superano a tal punto l’antropocentrismo e la straniazione del destino umano dalla biosfera, da richiedere profondi rivolgimenti nei modi e nella velocità non solo della produzione e del consumo, ma anche dell’insieme delle relazioni tra individui, società e l’ambiente in cui si sviluppa la vita.
Al contrario che nei misurati, ma inequivocabili accenni del papa, nella riflessione di Greta non viene posta in sufficiente risalto la questione dell’eccesso di capacità trasformativa imposta attualmente dal capitale al lavoro. E’ questo, forse, l’aspetto fino ad ora meno esplicitamente evidenziato dalla sedicenne svedese. Agli studenti che manifestano anche grazie alla sua irriducibile testimonianza deve però essere chiaro che, per allontanare la minaccia climatica e aver cura della Terra senza creare scarti irrimediabili, va chiamato in causa il mondo del lavoro. In questo senso, senza voler ricercare collegamenti impropri, una riflessione a trent’anni dalla caduta del muro non può prescindere dalla sconfitta di quel mondo, che, forse, dalla fine del socialismo reale aveva sperato in un conflitto meno aspro con il suo antagonista “vittorioso” ed in una fase di non arretramento avanzamento dei diritti sociali e ambientali. A partire da quelle lavoratrici e quei lavoratori organizzati che in autonomia dovranno concorrere a realizzare – anziché ostacolare – la riconversione ecologica, che il mondo scientifico più accreditato valuta da realizzare con tutta la cogenza di un tempo sempre più esiguo.
I soggetti che saranno protagonisti di una virata dalla globalizzazione a crescita univoca verso una ecologia integrale a misura “terrestre”, devono già oggi battere l’insidia di un negazionismo che si presenta con ancora molte frecce al suo arco: a cominciare dall’asservimento di un’informazione che li vorrebbe semplici spettatori sugli spalti di un campo da gioco dove è concesso ogni tipo di scorrettezza (basta pensare agli attacchi alla Thunberg e a Bergoglio); dall’ostilità dei nuovi sovrani verso una gioventù che si pone al di sopra di ogni confine geografico o geopolitico; dalle pressioni che l’apparato industrial-militare, alleato delle lobby dei fossili, esercita con successo sugli accordi per il clima, esentando dal computo delle emissioni nocive le forze armate e la produzione degli armamenti; dalle minacce occupazionali che accompagnano ogni cenno di ristrutturazione ambientale; e, infine, dall’insofferenza e dalla disinformazione di cui è incredibilmente vittima lo studio rigoroso dell’IPCC, redatto da 91 scienziati accreditati da 40 Paesi e confermato da 113 “referees” indipendenti.
Perciò la diffusione di una informazione accertabile e la maturazione di una conoscenza rigorosa dei meccanismi che assicurano la riproduzione di una vita buona sul Pianeta o, all’opposto, il deterioramento dell’intero vivente, vanno pretesi come diritto accessibile e fruibile senza esclusione alcuna.