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Donne, Iran e islamismo: l’analisi di Chala Chafiq

di Chala
Chafiq

Nicoletta Pirotta ha tradotto l’intervista rilasciata a Soad Baba-Aïss per Clara-magazine da Chala Chafiq, sociologa e scrittrice, conoscitrice profonda dell’Iran, da dove proviene, ha scritto in particolare Islam politico, sesso e genere, a partire proprio dalla situazione iraniana.
Per Clara-magazine scrive sul contesto iraniano dal 1979, quando prese parte ai movimenti di protesta degli studenti di sinistra. Dopo la presa del potere da parte degli islamisti è entrata in clandestinità per andare poi in esilio in esilio in Francia nel 1982 dove riprende gli studi alla Sorbona

La tua ricerca accademica e i tuoi libri riflettono sull’esperienza islamista in Iran. Puoi spiegarci la tua riflessione e la tua ricerca?

La mia ricerca sull’islamismo mette in discussione il mio percorso personale in modo importante. Ho ricevuto un’educazione laica, ho convinzioni di sinistra eppure ho accolto con favore i discorsi di Khomeini, considerandolo il rappresentante dell’islam di protesta. A quel tempo ero convinta, come migliaia di iraniani che aderivano a forze sociali e politiche non islamiste, del ruolo positivo della religione nel mobilitare il popolo contro la dittatura dello Shah sostenuta dalle potenze occidentali.
L’esperienza iraniana ci mostra come una religione possa essere strumentalizzata.
Nei primi anni della sua costituzione, la Repubblica Islamica ha dispiegato  tutte le energie possibili per realizzare il suo modello ideologico: l’instaurazione di una teocrazia.
A questo fine ha organizzato una gigantesca jihad contro l’opposizione. Ha proceduto altresì a una purificazione sociale degli elementi corrotti nel corpo della “ummah”, cioè della comunità musulmana, nozione che sostituisce il concetto di popolo tra gli islamisti.
Questo processo va di pari passo con il controllo e la censura in tutti i differenti contesti sociali, la punizione dei colpevoli e una sanguinosa caccia ai gruppi politici non islamisti.
Inoltre, è stato scrivendo della repressione politica in Iran negli anni ’80 (Il nuovo uomo islamista, prigione politica in Iran, ed. Félin, 2002) che ho colto con chiarezza la dimensione fascista dell’ideologia islamista e ho capito che essa porta dentro di sè è un progetto totalitario.
La lucina mi si è accesa analizzando le parole di donne e uomini sulle torture subite.
Rilevo un fatto: la tortura nelle prigioni non è solo la leva per ottenere informazioni e confessioni o un mezzo per umiliare i dissidenti. Il dominio e la disumanizzazione sono comuni nelle prigioni politiche dei regimi dittatoriali. Ma all’interno delle carceri politiche della Repubblica islamica negli anni ’80, il dispositivo della tortura persegue un altro obiettivo: la formazione degli individui secondo l’ideale di fondo del potere islamista, vale a dire la creazione di una società  islamica perfetta attraverso la formazione di un essere umano islamico,incarnazione della Legge divina.
Un progetto che inscrive il terrore nel DNA di questo regime.
I capi carcerieri sono quadri islamisti convinti e anche i torturatori sono servitori di questa ideologia. Il sistema di tortura si basa sulla codificazione ideologica della nozione religiosa di Toubeh, che consiste nella volontà di pentirsi di un peccato, arrivando a considerare ogni atto di ribellione all’ordine islamista come un peccato che sporca il corpo della “ummah”.
Questa stessa visione è alla base della santificazione della discriminazione sessista e della violenza sessuale all’interno dell’ordine islamista.

Nel tuo libro Islam politico, sesso e genere alla luce dell’esperienza iraniana (PUF), tutto inizia con il velo. Questo pezzo di tela nera rivela come la questione del posto delle donne sia al centro del progetto sociopolitico islamico. Dal 16 settembre 2022 “Donna, Vita, Libertà” diviene il grido  contro un ordine repressivo, discriminatorio e corrotto.

All’inizio, come decine di migliaia di donne senza velo, pensavo che la questione del velo fosse trascurabile rispetto alla posta in gioco della rivoluzione. Gli islamisti ci hanno chiesto di indossarlo durante le manifestazioni come segno di unione con le donne velate nella lotta contro i nemici comuni: lo Shah e i suoi alleati imperialisti.
Non ho mai risposto positivamente alla loro richiesta e , al contempo, non ne ho compreso il pericolo. Tuttavia, appena salito al potere, Khomeini ha indicato la priorità islamista del nuovo regime rendendo obbligatorio il velo nelle amministrazioni. Migliaia di donne hanno poi manifestato per le strade di Teheran, nell’indifferenza della maggioranza dei movimenti di sinistra che hanno ritenuto secondaria, di fronte alla necessità di rafforzare le avanzate antimperialiste della rivoluzione, la questione del velo. Gli slogan dei manifestanti in risposta agli islamisti furono: “Non abbiamo fatto la rivoluzione per tornare indietro”, o anche: “La libertà non è né occidentale né orientale, è universale”.
Il regime alla fine renderà obbligatorio il velo in tutti gli spazi pubblici.
Sono arrivata a ritenere che il velo risulta essere uno specchio dei conflitti socio-politici in Iran e poi nel mondo nel 20° secolo. Promuove il concetto di identità per aggirare l’idea di uguaglianza e laicità e quindi per rifiutare i valori democratici.
Se si interroga l’islamismo a partire dal rapporto tra religione, politica, sesso e genere, si scopre, ovunque viviamo, che il velo obbligatorio è ben lungi dall’essere un argomento minore. Simbolo di un ordine al quale le donne devono sottomettersi, ne annuncia la funzione sociale e politica, ben oltre il riferimento religioso al pudore. Segna la volontà del potere di stabilire regole sessiste in tutti i settori del diritto delle persone e della proprietà.
“Donna, vita, libertà”, questo grido delle donne non è il primo in Iran. Negli ultimi decenni, altri movimenti sono esplosi prima di essere violentemente repressi. Se il rifiuto dell’obbligo del velo è il punto di partenza è soprattutto la messa in discussione del regime e del sistema l’obiettivo delle rivolte popolari. Per quarantatré anni le donne hanno resistito in vari modi ad esempio con il “cattivo velo”che lascia sfuggire le ciocche di capelli.
Oggi la loro rivolta ha saputo riunire tutte le lotte sociali perché i giovani non vogliono più sottomettersi all’ordine morale liberticida dei mullah. Nel mio ultimo saggio, “L’incontro iraniano di Simone de Beauvoir (ed. iXe, 2019)”, descrivo lo slancio di queste giovani donne e uomini per la libertà.

Il 16 settembre avete avviato un  percorso sulla giustizia democratica di fronte ai crimini che la  Repubblica islamica ancora cerca di cancellare.

A Stoccolma si è svolto per nove mesi un processo contro un torturatore che ha partecipato all’esecuzione di migliaia di prigionieri politici nell’estate del 1988, a seguito di una fatwa lanciata da Khomeini contro i suoi oppositori – pochi mesi prima dell’altra sua fatwa contro Salman Rushdie. Il 14 luglio 2022 il verdetto ha condannato Hamid Nouri all’ergastolo.
Le testimonianze ascoltate durante questo processo forniscono spunti di riflessione sulle cause e sui meccanismi dei crimini politici commessi in nome della religione.
Se, a partire dagli anni ’90, abbiamo assistito all’erosione dell’utopia islamista, alla sconfitta dell’Islam liberatore, propugnato da Khomeini fin dal 1979, le aspettative di uguaglianza e giustizia incarnate dalla rivolta popolare iraniana dal 16 settembre 2022 ci mostrano che è urgente combattere la barbarie e impedire che essa si dispieghi  nella totale impunità, con il complice silenzio delle potenze occidentali.
La diaspora iraniana ha un ruolo fondamentale da svolgere nello svelare all’opinione internazionale la natura profondamente disumana di questa teocrazia. La spietata e sanguinosa repressione che si sta abbattendo, ancora una volta, sui manifestanti è la prova di tale disumanità.
Una disumanità che fa parte dell’ideologia islamica, fondamento  della Repubblica islamica.
Oggi la lotta della società iraniana fa sentire quanto sia fondamentale il legame tra democrazia e laicità per una libertà che abbia dimensione universale.


Scheda a cura di Soad Baba-Aissa: Il processo di Stoccolma: una svolta contro l’impunità per reati politici

L’anno 2022 segna il 34° anniversario del massacro di prigionieri politici in Iran. Nell’estate del 1988 la Commissione della morte, seguendo la fatwa più genocida emessa da Khomeini, deve eliminare tutti i prigionieri, oppositori della Repubblica islamica considerati “nemici di Dio”, “miscredenti” o “ipocriti”. È necessario ricordare che le vittime sono anche scolari, studenti e accademici.
Nel novembre 2019, a seguito di denunce presentate al sistema giudiziario svedese, l’ex procuratore Hamid Nouri è stato arrestato al suo arrivo all’aeroporto internazionale di Stoccolma.
Una procedura è stata avviata nell’agosto 2021, 92 sessioni e 101 testimonianze in undici mesi. Questo è il primo processo contro un funzionario iraniano implicato nelle purghe del 1988.
Egli è riconosciuto colpevole di “crimini aggravati contro il diritto internazionale” e “omicidio” per la morte di migliaia di prigionieri politici iraniani.
Il 14 luglio 2022, la giustizia svedese, sotto giurisdizione universale, ha condannato Hamid Nouri all’ergastolo nel rigoroso rispetto delle regole democratiche. Questa storica decisione è un passo importante verso la giustizia per i crimini commessi in Iran e invia un messaggio inequivocabile alle autorità iraniane che gli autori di crimini contro l’umanità in Iran non sfuggiranno alla giustizia. Una bella risposta che nega l’impunità agli autori delle più gravi violazioni dei diritti umani a livello internazionale.

L’intervista in francese e la scheda sul processo di Stoccolma sono disponibili sul sito di Clara-magazine

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