“Ho visto emettere una ordinanza per scacciare senza tetto che chiedevano un po’ di attenzioni ai turisti e alla gente ricca che festeggiava Natale e il nuovo anno. Ma ho visto anche dei fratelli continuare ad aiutare gli scacciati, passando silenziosi oltre le minacce delle autorità o della maggioranza del popolo. (…) Ci sono occhi che vedono e passano oltre… e ci sono mani che firmano ingiuste condanne. Ma ci sono Pastori che ci richiamano a vincere le nostre ‘paure’ per affrontare insieme le fatiche. Ci sono uomini e donne che lavorano per costruire ponti e dialoghi di giustizia. Fa che, sostenuti dalla tua grazia, non scartiamo nessuno”. Sta in questo passaggio della preghiera, che don Roberto Malgesini scrisse per le celebrazioni del venerdì santo di due anni fa, il senso del suo agire e, sopratutto, del suo essere.
Don Roberto Malgesini è stato ucciso a Como la mattina di martedì 14 settembre poco dopo le 7. L’uccisore è un senza tetto tunisino che lo ha accoltellato perché, così pare, lo riteneva complice del decreto di espulsione, sospeso per ora a causa del blocco dei voli per Coronavirus, che lo avrebbe rimandato in Tunisia.
Un prete di “frontiera” don Roberto, che viveva la sua fede ed il suo apostolato sopratutto con le persone “scartate” dalla società. Non è la prima volta che succede nella mia dolente città. Nel 1999 a Ponte Chiasso, in periferia, sul confine con la Svizzera, venne ucciso don Renzo Beretta, un altro prete “di frontiera”, per mano di un uomo che viveva ai margini della società.
Ho conosciuto don Roberto durante il mio impegno di volontariato presso il campo profughi di Como, aperto dal governo nel settembre 2016 in via Regina adiacente l’area ferroviaria di arrivo dei migranti, l’ho di nuovo incontrato nella mensa per i poveri del Don Guanella,per la quale don Roberto era punto di riferimento, ed ho avuto modo di parlare con lui, alcuni mesi fa, di un possibile progetto educativo rivolto alle bambine ed ai bambini di famiglie immigrate, delle quali e dei quali ben pochi si occupano. Un prete schivo, timido, di poche parole e di grandi azioni. Non chiedeva a nessuno chi fosse o da dove arrivasse ma “versava il vino e spezzava il pane per chi diceva ho sete, ho fame”.
Don Roberto è stato ucciso vicino alla “sua” Chiesa, in quella piazza San Rocco ormai senza più panchine, fatte togliere dalla giunta comunale di destra per impedire ai senza tetto di utilizzarle, né bagni chimici che proprio lui aveva fatto mettere ma che sono stati rimossi anche quelli, né l’acqua potabile della fontanella chiusa tempo fa sempre da una giunta assai solerte nel rendere difficile la vita a chi una vita difficile già ce l’ha.
Povertà, degrado, immigrazione sono un mix esplosivo reso ancor più drammatico da scelte politiche nazionali, volute in particolare dalle destre, che dopo aver creato la figura del “clandestino” ne hanno peggiorato le condizioni con i famigerati “decreti sicurezza” mentre laddove governano a livello locale, come è a Como, cercano in tutti i modi di esasperare, in una società scossa da incertezze e paure, il senso di precarietà per creare un clima sociale di odio e rancore.
Don Roberto sapeva bene i rischi che correva, non era né sprovveduto né temerario, aveva scelto la sua missione e la svolgeva con consapevolezza. Benchè abbandonato dalle istituzioni, non era solo. A Como tante persone sono capaci di azioni quotidiane di solidarietà. Come scrive Idapaola Sozzani (“La situazione di migranti e senzatetto a Como”- La città futura) “alle presenze storiche come la mensa delle suore di San Vincenzo de Paoli e degli istituti Guanelliani fondati da San Luigi Guanella, sostenute da tanti donatori anonimi e alla Caritas diocesana, si è aggiunto un grande prete come Don Giusto della Valle, parroco di periferia, divenuto uno dei punti di riferimento per l’accoglienza (…) C’è poi dal 2016 l’Osservatorio giuridico sui diritti dei migranti, che animato da avvocate/i volontari e giuriste/i svolge un servizio di consulenza gratuita e tutela giuridica. Negli anni più recenti molti volontari durante i mesi invernali dell’emergenza freddo (e non solo, ndr) si sono avvicendanti nei turni di assistenza notturna al tendone-dormitorio di via Sirtori, alternandosi ai volontari dei gruppi spontanei, Como Accoglie e Como Senza Frontiere in azioni di sostegno e rifornimento di coperte e presidi alimentari”.
Dopo il lockdown alcuni giovani attivisti hanno dato vita a “Cominciamo da Como” che hanno lanciato la campagna “Fuori dal Comune” dando vita a presidi, flash mob musicali per denunciare lo stato di degrado e abbandono in cui sono lasciati i senzatetto a Como, per chiedere l’apertura di un dormitorio pubblico ed ottenere l’apertura 24/24 h dei bagni pubblici cittadini ora aperti poche ore al giorno e di difficile fruizione da parte dei senza fissa dimora. Proposte portate avanti, da molto tempo, anche dalle forze politiche di opposizione in Consiglio comunale. Azioni ed iniziative importanti, che consentono di non disperdere l’insegnamento di don Roberto e di mantenere vivo il suo ricordo.
Per essere all’altezza dell’esempio di vita di don Roberto credo che accanto a proposte concrete, come quella per un dormitorio pubblico, giuste e ineludibili per garantire ad ogni persona in situazione di fragilità, sul piano materiale, diritti e vita dignitosa debbano affiancarsi politiche in grado di riconoscere i bisogni di relazioni umane fondate sulla fiducia ed il rispetto di sé e degli altri. Per colmare il disagio esistenziale che accompagna e impoverisce ulteriormente la vita di chi vive per strada, ancor di più se migrante, sarebbe necessario un piano di educativa di strada che affianchi le persone in difficoltà e fornisca loro un sostegno relazionale. I problemi dei senza fissa dimora e, più in generale, della grave emarginazione non sono un fenomeno di cui occuparci in maniera emergenziale, ma andrebbero affrontati con soluzioni strutturali e di lungo periodo capaci di assumere la complessità della vita e della condizione umana. Don Roberto sapeva farlo, sta anche qui la sua grandezza. Riposa in pace ora caro don.