di Luca De Simoni*
Alla Romanina c’è uno stabile, ormai noto alla cronaca da qualche giorno: palazzo Salem. Ormai occupato dal 2006, ospita più di 500 persone, la stragrande maggioranza sono rifugiati politici, per lo più provenienti dal Corno d’Africa. Il palazzo costituiva la vecchia facoltà di lettere di Tor Vergata, venne occupato in seguito al suo abbandono e per far fronte all’emergenza abitativa che affligge la città di Roma ormai da anni (le persone in emergenza abitativa sono circa 200 mila; 37 mila gli alloggi vuoti e inutilizzati nella Capitale).
La scorsa settimana nel palazzo, si sono verificati alcuni casi di Covid19, ed è stato dichiarato zona rossa, piazzando all’entrata alcune camionette dell’esercito. Le persone che abitano nel palazzo vivono a stretto contatto, ovviamente per mancanza di alternative. I bagni all’interno del palazzo, per esempio, devono essere condivisi tra diverse famiglie, rendendo così decisamente più semplice la propagazione del virus, ma d’altronde non ci sono mai stati interventi strutturali.
Durante l’ultima settimana sono stati accertati altri 16 casi ufficiali di Covid19, ma quelli reali sembrano essere molti di più. Tutti gli inquilini, spesso intere famiglie di 5 persone, sono confinati nelle loro stanze in questi giorni di quarantena nella quarantena, la maggior parte di loro è attrezzata con dei fornelletti da campeggio, perché la struttura non è dotata di cucine. All’interno di queste stanze si cucina, si dorme, si studia, si lavora; una quarantena piuttosto dura, la loro. Alcuni dormono al piano terra, in quelli che dovrebbero essere gli androni del palazzo, senza neanche un letto, ma solamente un materasso adagiato a terra.
In questa situazione, la prima domanda che ci si pone è perché più di 500 rifugiati, che beneficiano della protezione internazionale, con relativi diritti annessi, scappati dai loro Paesi perché in pericolo di vita, chi perseguitato e chi discriminato, si trovino oggi, letteralmente ammassati in un palazzo abbandonato a condizioni bestiali?
Nel tentativo di provare a dare una risposta possiamo risalire ad alcuni dati: i primi, forniti da Amnesty International, mostrano come in qualche modo il sistema di ricollocamento europeo non funziona, “sai che novità” verrebbe da dire. Nel 2018 infatti, dei circa 35.000 richiedenti asilo che dovevano essere trasferiti in altri paesi dell’Unione Europea, secondo il programma di ricollocazione dell’UE stessa, a fine anno soltanto 11.464 avevano lasciato l’Italia, mentre altri 698 dovevano essere trasferiti in tempi brevi. Un sistema che non funziona e che andrebbe rivisto sicuramente, anche se sembra difficile con questa Commissione, non troppo attenta al fenomeno migratorio (vedi Lesbo).
Dal canto nostro, anche l’Italia è colpevole d’ozio. La classe politica è stata con le mani in mano da anni, la legge Bossi-Fini, dopo circa diciotto anni, non due o tre, è ancora in vigore, e nessuno si è preso l’onere di sbarazzarsene.
La L. 189/2002 ha soppresso la corresponsione di un contributo di prima assistenza per 45 giorni da parte del Ministero dell’interno in favore dei richiedenti asilo privi di mezzi di sostentamento, prevedendo invece (commi 2 e 3) forme di sostegno finanziario apprestate dal Ministero dell’interno e poste a carico di un fondo ad hoc (Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo) istituito dal successivo articolo 1-septies, che ricadono a loro volta nelle competenze degli enti locali, che, come sappiamo, sono spesso sono soggetti a ruberie di vario tipo, e che hanno messo su un discutibile modo di fare accoglienza.
Per finire c’è da fare un’ultima valutazione, tanto vera quanto triste. Una buona parte delle persone che si trovano all’interno dell’occupazione lavora. Qualcuno come interprete, molti altri/e come Colf o badanti ecc. Molti quindi percepiscono una sorta di reddito, per quanto ridotto, e magari facendo qualche sforzo riuscirebbero anche a pagare un affitto, per donare ai figli una sistemazione più accogliente. So per certo però, da alcuni racconti di amici ma ormai di pubblico dominio che anche arrivati a quel punto queste persone troverebbero un altro muro, quello del bieco razzismo dei locatori che banalmente e stupidamente preferiscono affittare le loro abitazioni ad italiani o quantomeno a persone con la pelle più chiara. Un problema reale, culturale, figlio di squallidi luoghi comuni che andrebbe però affrontati con più calma.
* Associazione Blackpost