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Detenzione della democrazia nella Turchia di Erdogan

di Tommaso
Chiti

In Turchia l’annuncio di Erdogan di una nuova opera mastodontica, come quella del maxi-canale artificiale di 45 km navigabili tra il mar Nero e il mar di Marmara, è stato seguito dall’ennesima ritorsione governativa contro alcuni vertici dell’apparato militare, accusati dal sultano di cospirazione e ‘tentato golpe’, per la lettera pubblica di dissenso al progetto ‘Kanal Istanbul’, sottoscritta da un centinaio di ex-ufficiali.

La vicenda è solo l’ultima delle operazioni di criminalizzazione delle opposizioni, perpetrate dal governo turco, non soltanto nei confronti dei servitori dello stato, ma anche verso avversari politici eletti democraticamente.
Eppure è lo stesso governo a parlare paradossalmente di “minacce alla democrazia”, mentre diverse decine di parlamentari hanno condiviso una dichiarazione a sostegno degli ufficiali accusati.
In questo solco si inserisce anche la recente proposta di messa al bando del HDP, Partito Democratico dei Popoli, unione plurale della sinistra turco-curda, il terzo per rappresentanza parlamentare, i cui vertici così come migliaia di militanti sono da tempo detenuti illegalmente in prigione con accuse pretestuose.
Alla fine dello scorso marzo i funzionari di governo hanno formalizzato la richiesta alla Corte Suprema di bandire l’HDP per affiliazione terroristica, accusando il partito democratico di ‘fomentare divisioni fra lo stato e la popolazione’.

La sempre minore indipendenza della magistratura turca e l’utilizzo politico di simili sanzioni ha destato reazioni di sdegno nei governi occidentali, fra cui gli stessi USA, tanto da registrare una svalutazione della lira turca sui listini finanziari, in previsione di nuove tensioni internazionali.
Le preoccupazioni europee insistono sulle minacce ai diritti umani fondamentali, che minano la credibilità delle autorità statali.
L’espediente persecutorio anche in questo caso sarebbero legami pericolosi fra HDP e la formazione del PKK, il partito curdo dei lavoratori, messo al bando come ‘organizzazione terroristica’ da Turchia, USA e fino a poco fa dalla stessa Unione Europea, il cui leader Abdullah Ocalan è ancora detenuto in regime di isolamento nel penitenziario di Imrali.
Su di lui come per tutti gli affiliati del PKK pesa la sentenza politica di ‘insurrezionalismo’ rispetto alle rivolte del 1984 nel sud-est della Turchia, costate la vita a circa 40mila vittime, per la maggior parte civili di origine curda uccisi dall’esercito di Ankara, così come conferma la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Eppure l’ex-portavoce di HDP, Selahattin Demirtas incarcerato dal 2016 per ‘oltraggio al Presidente’ su cui pende la richiesta a centoquaranta anni di carcere, respinge le accuse di cospirazione e nega legami fra la sua formazione e quella del PKK.

Le stesse insinuazioni alla base della massiccia repressione portata avanti con un assedio in quelli stessi anni dei militari turchi alla città di Dyarbakir, con lo sfollamento di oltre 30mila persone e la distruzione di oltre duemila abitazioni.
Anche per il suo caso la CEDU, a cui Ankara è legata dalla convenzione di adesione al Consiglio d’Europa, è intervenuta affermando come la detenzione di oppositori politici “limiti il pluralismo del dibattito”, senza poi però alcuna reazione da parte del governo turco.

Sono oltre 600 i consiglieri eletti dell’HDP perseguitati dal governo turco. Un “attacco scioccante in violazione dei diritti democratici”, per la sistematica demolizione delle garanzie istituzionali, come ad esempio con la rimozione dell’immunità parlamentare per circa 14 deputati.

Per l’Alto Rappresentante della Politica Estera UE, J. Borrell, e per la Cancelliera tedesca, Merkel, “simili provvedimenti mettono in seria discussione lo stato di diritto in Turchia”.

A fronte del recente caso giudiziario, che pone le basi per una messa al bando del HDP, lo stesso leader Demirtas ha deciso di lanciare un appello all’unità democratica, invitando ad una coalizione tutte le forze politiche e sociali, che si oppongono al governo del partito AKP di Erdogan ed ai suoi alleati nazionalisti del MHP.
Secondo Demirtas il principale obiettivo di Erdogan è quello di restare al potere ad ogni costo.
In vista della prossima scadenza elettorale del 2023, riproponendo l’alleanza trasversale vincente alle scorse amministrative del 2019, con l’opposizione che si affermò nelle principali città turche, a scapito del sultano al potere, come ad Ankara, Istanbul, Smirne e Dyarbakir.

La cooperazione fra le opposizioni resta tuttavia piuttosto fragile, specie se si considerano le divergenze fra fazioni secolari, nazionaliste ed internazionaliste o pro-curde, da qui l’urgenza della proposta, che riesca a fronteggiare anche le perduranti persecuzioni.

Vedi anche:

https://www.euractiv.com/section/global-europe/news/jailed-kurdish-leader-calls-on-turkish-opposition-to-unite-against-erdogan/

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