Giovedì 30 novembre si aprirà presso expo City, Dubai COP28, la Conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico o Conferenza dell’UNFCCC per concludersi il 12 dicembre. Nella rotazione delle sedi quest’anno l’organizzazione è toccata ad uno dei paesi produttori di petrolio. il presidente di turno del summit sarà Sultan Al Jaber (in una COP, in genere, luogo dell’avvenimento e nazionalità della presidenza coincidono), tuttora amministratore delegato della compagnia petrolifera di casa “Adnoc”.
Questa conferenza dovrà fare i conti con il sostanziale fallimento delle due precedenti conferenze, quella di Glasgow e quella di Sharm el-Sheikh. Dal 5 asl 15 giugno si è tenuta a Bonn, sede dell’Unfccc (l’agenzia Onu per la lotta ai cambiamenti climatici) la tappa intermedia dei negoziati sul cambiamento climatico con il duplice scopo di affinare quanto deciso nelle scorse COP (Conference of parties) e di preparare il programma di lavoro della prossima.
La conferenza di Sharm ha fallito ancora una volta nel definire obiettivi concreti e realmente condivisi sul piano della mitigazione ossia della riduzione delle emissioni di gas climalteranti e dell’adattamento alle conseguenze già in atto del cambiamento climatico indotto dal riscaldamento globale. L’unica nota positiva è stata l’istituzione di un fondo “loss and damage” che, finalmente, pone sul tavolo negoziale la questione di come finanziare le perdite e i danni subiti dai Paesi vulnerabili a causa della crisi climatica1, anche su questo siamo ben lontani dal definire una strategia condivisa peri prossimi anni come si sottolinea nell’articolo citato: “Tocca ora vedere come proseguiranno i lavori dai risvolti anche tecnici: cosa si intende per perdite e danni? Siamo sicuri che quell’evento estremo è stato causato o potenziato dalla crisi climatica? Il dibattito sulla definizione resta aperto, ma avendo sforato le 415 parti per milione (ppm) di CO2 in atmosfera, superando così la soglia di sicurezza posta a 350 ppm dalla comunità scientifica, tutto è loss and damage. Ma questo è solo il parere di chi scrive. La speranza, invece, è che i Paesi ricchi vedendosi costretti a pagare i danni accelerino la riduzione delle emissioni. Anche perché già hanno enormi difficoltà nel trovare risorse per il Green climate fund da destinare alle attività di mitigazione e adattamento. Neanche quest’anno, infatti, il mondo ricco riuscirà a mobilitare i 100 miliardi di dollari all’anno in finanza per il clima, promessi ormai dalla Cop del 2009 di Copenaghen. Non lo ha fatto durante la COP 27 e non lo ha mai fatto: si è arrivati al massimo ai circa 83 miliardi di dollari di due anni fa. Un grosso ritardo, basti pensare che l’obiettivo dei 100 miliardi all’anno era posto entro il 2020. Una cifra, tra l’altro, lontana da quella necessaria: secondo i migliori studi scientifici e anche quelli delle istituzioni finanziarie servirebbe almeno dieci volte tanto, 1000 miliardi di dollari l’anno. In generale, se non contiamo solo i finanziamenti che necessitano i Paesi in via di sviluppo, la decisione finale della Cop 27 ricorda che bisogna mobilitare una cifra di almeno 4mila miliardi di dollari l’anno in energie rinnovabili entro il 2030 per avere buone probabilità di centrare la neutralità climatica – si intende che le emissioni antropiche di gas serra dovranno essere totalmente assorbite dai nostri ecosistemi – posta al 2050.”
Uno dei punti fondamentali per giungere ad un accordo globale in grado di contemperare le diverse esigenze di tutti i paesi è quello delle responsabilità in base alle quali definire gli obiettivi che i singoli paesi dovranno perseguire per raggiungere l’obiettivo globale in termini di riduzione del riscaldamento globale, fissato dalla COP di Parigi in un 1,5°2.
“A destare maggiore preoccupazione è il conteggio delle emissioni storiche antecedenti al 2020 (anno in cui è entrato in vigore l’Accordo di Parigi). Una discussione che fa riferimento al “principio delle responsabilità comuni ma differenziate”, istituito con la dichiarazione su Ambiente e sviluppo di Rio del 1992, che in pratica certifica che gli Stati hanno responsabilità diverse nella costruzione dell’attuale degrado ambientale: ciò significa che ciascun Paese deve ridurre le proprie emissioni a seconda delle proprie responsabilità storiche. Un principio che smentisce quel tipo di narrazione che intende frenare l’azione dell’Europa sulle politiche di mitigazione poiché “incidiamo solo per l’8% delle emissioni di CO2”. Un dato veritiero ma su base annuale, che non spiega l’attuale riscaldamento globale formatosi nel corso dei decenni: se confrontiamo le emissioni cumulate (storiche) dal 1750 al 2021 l’Unione europea è infatti al secondo posto tra le nazioni che hanno emesso di più con circa il 17% dei gas serra, al primo troviamo gli Stati Uniti con circa il 24% delle emissioni e al terzo posto la Cina con circa il 14% delle emissioni.”
Il computo delle emissioni, è affidato al Global Stocktake3 il processo col quale si produce un report ogni 5 anni che per rendere conto dell’andamento reale delle emissioni e di tutte le azioni necessarie per raggiungere l’obiettivo fissato a Parigi nel 2015.
I processi in corso, come abbiamo avito modo di dire in precedenti articoli, sono sideralmente lontani dalla traiettoria necessaria per raggiungere l’obiettivo che sta tra1,5 e 2 gradi centigradi di riscaldamento globale.
Nell’articolo Global fossil fuel reduction pathways under different climate mitigation strategies and ambitions4 si analizzano le strategie necessarie per raggiungere tale obiettivo in base al Intergovernmental Panel on Climate Change’s Sixth Assessment Report che fornisce indicazioni per le politiche degli stati.
In sintesi il giudizio espresso è il seguente.
“La banca dati sugli scenari di mitigazione Intergovernmental Panel on Climate Change’s Sixth Assessment Report è una risorsa l’elaborazione delle politiche in materia di transizioni energetiche. Tuttavia, esiste una grande varietà di modelli, progetti di scenari e risultati risultanti. Analizziamo qui gli scenari limitando il riscaldamento a 2 °C o al di sotto per quanto riguarda la velocità, la traiettoria, e la fattibilità di diversi percorsi di riduzione dei combustibili fossili. Negli scenari limitare il riscaldamento a 1,5 °C con uno sforamento nullo o limitato, carbone, petrolio e l’approvvigionamento di gas naturale (destinato a tutti gli usi) diminuisce in media del 95%, 62% e 42%, rispettivamente, dal 2020 al 2050, ma il ruolo a lungo termine del gas è variabile. I percorsi di gas più elevati sono resi possibili da una maggiore cattura e stoccaggio del carbonio (CCS) e l’eliminazione dell’anidride carbonica (CDR), ma sono probabilmente associati a rappresentazione inadeguata del modello della capacità e della tecnologia di stoccaggio di CO2 a livello regionale l’adozione, la diffusione e le dipendenze del percorso. Se il CDR è vincolato da limiti derivati dal consenso degli esperti, i rispettivi modelli di carbone, petrolio e le riduzioni di gas diventano del 99%, 70% e 84%. I nostri risultati suggeriscono la necessità di adottare parametri di riferimento inequivocabili per la riduzione a breve e lungo termine del carbone, produzione e l’uso di gas insieme ad altri obiettivi di mitigazione dei cambiamenti climatici.”
Le percentuali evocate dallo studio appaiono del tutte irrealistiche rispetto alle politiche messe in atto dai diversi paesi. La cosa è particolarmente evidente quando si prendono in esame i dati relativi alla riduzione nell’uso del carbone, messa a confronto con i provvedimenti e le trasformazioni socio-economiche necessarie al raggiungimento di riduzione sostanziale nel suo uso come fonte energetica primaria. E’ illuminante lo studio Socio-political cost of accelerating coal phase-out5
“Mentre i modelli macroeconomici evidenziano la rapida eliminazione graduale del carbone come misura urgente di mitigazione del clima, la sua fattibilità socio-politica non è chiara. Gli impatti negativi dell’eliminazione graduale del carbone per le imprese, i lavoratori e le regioni dipendenti dal carbone, e l’iniqua distribuzione globale dell’onere dell’eliminazione graduale del carbone hanno scatenato resistenze e richieste di transizioni giuste. Qui, costruiamo un database di politiche e partenariati nazionali e internazionali per una transizione giusta che compensano gli attori colpiti dall’eliminazione graduale del carbone. Confrontando l’eliminazione graduale del carbone nei paesi che hanno piani di compensazione con quelli che non li hanno, dimostriamo che le politiche di compensazione sono essenziali per realizzare il ritiro anticipato del carbone. Il costo che stimiamo associato a queste politiche chiarisce il costo finanziario di rendere politicamente fattibile l’eliminazione graduale del carbone.”
Il costo finanziario, oltre che in termini di trasformazione economico-sociale, è ovviamente maggiore per i paesi che più dipendono dal carbone come la Germania in Europa e soprattutto l’India e la Cina a livello mondiale; per questi ultimi due paesi il raggiungimento di una indipedenza sostanziale dal carbone è proiettato molto in là nei prossimi decenni, ben oltre le soglie temporali fissate per raggiungimento degli obiettivi di Parigi.
“I cinque paesi (Corea del Sud, Polonia, Indonesia, Vietnam e Germania) con gli impegni più ambiziosi per l’eliminazione graduale del carbone e le più grandi flotte di carbone (> 20 GWe) prevedono una compensazione di oltre 10 miliardi di dollari ciascuno e rappresentano oltre il 95% della compensazione odierna. Lo scopo principale delle politiche di compensazione è quello di finanziare la ripresa economica e ambientale delle regioni carbonifere aumentando la diffusione delle tecnologie e delle industrie rinnovabili e di sostenere i lavoratori del carbone licenziati. Nonostante la diffusione globale dell’eliminazione graduale del carbone e delle politiche di transizione giusta, né la Cina né l’India, i due paesi con le più grandi flotte di carbone, si sono impegnati a eliminare gradualmente il carbone. La Cina si è impegnata a rallentare l’espansione del carbone e a “iniziare a ridurre gradualmente l’uso del carbone a partire dal 2026″34 e a smettere di finanziare le centrali elettriche a carbone all’estero35, tuttavia la flotta a carbone cinese è ancora in espansione con 86 GW di capacità di carbone in costruzione e altri 106 GW autorizzati36. Inoltre, l’obiettivo di zero emissioni nette della Cina (2060) è da due a tre decenni più tardi rispetto all’eliminazione graduale del carbone descritta nei percorsi compatibili dell’IPCC con 1,5 °C e 2 °C (Tabella 3, Metodi). In India sono in corso discussioni per una strategia nazionale per una transizione giusta37 e un partenariato per una transizione energetica giusta, tuttavia l’obiettivo di zero emissioni nette del paese (2070) è anche diversi decenni dopo l’eliminazione graduale del carbone nei percorsi compatibili con IPCC a 1,5 °C e 2 °C (Tabella 3, Metodi). Nel complesso, la Corte rileva che le emissioni evitate per raggiungere gli obiettivi di 1,5 °C e 2 °C richiesti in India+ e Cina+ sono 13-18 volte superiori a quelle di tutti i paesi con impegni di eliminazione graduale del carbone a livello globale.
(…)
Dopo aver controllato l’effetto delle caratteristiche minerarie e nazionali, scopriamo che in Cina, una strategia di compensazione simile alle politiche esistenti si tradurrebbe in 2,3 trilioni di dollari (stima centrale, intervallo IQR e 1,7-2,6 trilioni di dollari) per 1,5°C, 1,7 trilioni di dollari (1,5-2,2 trilioni di dollari) per 2°C e in India 1 trilione di dollari (0,8-1,1 trilioni di dollari) per 1,5°C e 0,8 trilioni di dollari per 2°C (0,6-0,9 trilioni di dollari)”
Queste poche note mostrano, se ancora ce ne fosse stato bisogno, di come siamo lontani in termini di risorse finanziarie e di trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali dal raggiungimento degli obiettivi fissati nel 2015 a Parigi per restare a di sotto dei 2 gradi centigradi di riscaldamento medio globale del pianeta. Nel frattempo stiamo già sperimentando a tutte le latitudini ed in tutte le regioni del globo gli effetti devastanti del riscaldamento globale. Purtroppo il contesto globale non è certo in grado di favorire la collaborazione mondiale, il convergere delle strategie dei diversi paesi. Al contrario lo sviluppo tecnologico, l’accaparramento tanto delle risorse finanziarie quanto di quelle naturali, fisiche, minerali e ambientali costituiscono le poste in gioco di una competizione che è a somma meno di zero, poiché gli ecosistemi si frammentano è perdono di vitalità di capacità di contribuire efficacemente agli equilibri climatici.
In questo contesto possiamo aspettarci un aumento dei conflitti e delle diseguaglianze in una spirale negativa sempre più avvolta su sé stessa. Le ragioni stesse della vita sul nostro pianeta vengono messe in discussione, corrono un rischio definitivo, una spirale che induce trasformazioni radicali a livello antropologico, nelle attese e nelle visioni del mondo delle diverse popolazioni e culture.
Ne discende una logica distruttiva, autodistruttiva, nemica di ogni solidarietà e riconoscimento reciproco che ritroviamo nei conflitti che marchiano le cronache di queste settimane, con le loro atrocità e negazione di ogni speranza per il futuro.
Nel tessuto delle relazioni sociali e naturali ogni cosa si connette ad ogni altra cosa, ogni essere vivente ad ogni essere vivente. La costruzione della speranza per il futuro, la realizzazione concreta, non solo l’evocazione, di un principio della speranza per l’umanità non può ignorare alcun processo, alcun momento della riproduzione delle forme di vita, degli ecosistemi delle società umane su questo pianeta. La riscoperta, la ridefinizione di ciò che è sacro per noi tutti è una esigenza fondante al di là di ogni filosofia, di ogni religione, di ogni credenza, a fondamento di un comune orizzonte futuro capace di ospitare la più grande diversità di forme di vita e culture umane.
Roberto Rosso
- https://asvis.it/editoriali/1288-13929/cop-27-senza-il-rapido-taglio-delle-emissioni-i-danni-da-pagare-saranno-inestimabili [↩]
- https://asvis.it/editoriali/1288-17077/proseguono-a-rilento-i-negoziati-sulla-crisi-climatica-in-vista-della-cop-28 [↩]
- https://unfccc.int/topics/global-stocktake[↩]
- https://doi.org/10.1038/s41467-023-41105-z [↩]
-
https://www.researchgate.net/publication/370120519_Socio-political_cost_of_accelerating_coal_phase-out [↩]