di Stefano Galieni – Il nuovo governo, non appena insediato aveva lasciato intendere di avere, fra i propri propositi fondamentali, l’abrogazione dei Decreti sicurezza, ormai leggi dello Stato, volute dal ministro Salvini. È bastato poco per capire che le promesse sarebbero rimaste tali.
La neoministra Luciana Lamorgese, prefetta di lungo corso, tecnica come tiene spesso a precisare, non intende farsi stritolare in un confronto che è tutto politico. All’interno degli stessi partiti di maggioranza non c’è identità di vedute, il fatto che tali temi impattino con una infinita campagna elettorale offre il pretesto per far prevalere la prudenza ma, da ultimo quello che si percepisce è che, come accade da 30 anni in Italia, non esiste una visione di prospettiva per affrontare problemi che sono tutto tranne che irrisolvibili. Ma prevale il timore di perdere consenso e quindi, per mesi i decreti non sono stati minimamente messi in discussione. Il 6 febbraio è giunto un primo insufficiente segnale. Il precedente governo, nel primo decreto, aveva tagliato drasticamente i fondi per l’accoglienza – i famosi 35 euro al giorno che venivano spesi per accogliere ogni richiedente asilo -portando la cifra in un range che andava dai 19 ai 26 euro. Con una circolare inviata a tutti i prefetti si è deciso di garantire la possibilità di aumentare la spesa fino ad un massimo del 10% (3 euro giornalieri).
La decisione è stata determinata dal fatto che numerosi bandi per la gestione dei centri, soprattutto dei CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) controllati dalle prefetture, stanno andando deserti, con conseguenti problemi tanto per gli ospiti che restano in strada quanto per gli operatori che perdono il lavoro. I prefetti hanno probabilmente sollecitato un intervento almeno minimale e questo è il risultato. Il tutto nonostante un calo sensibile – si è passati dai 132 mila ai 70 mila – delle persone in accogilenza. Si tenga conto che il governo aveva già commesso in materia un errore con una circolare del 19 dicembre in cui si intimava di cessare l’accoglienza ai titolari di protezione umanitaria che sono negli ex Sprar (ora Siproimi) dando valore retroattivo alle leggi salviniane.
Un errore che stava per lasciare in strada e al freddo migliaia di persone entro il 31 dicembre e a cui si è ovviato togliendo la illegale retroattività ad una legge. Ma questo è il solo intervento concreto finora attuato. Per il resto non si fermano più inutilmente le navi di soccorso al largo per giorni o settimane, non si sequestrano le imbarcazioni, di fatto non si applicano le norme vessatorie e propagandistiche imposte dall’ex ministro ma tali norme tuttora sussistono nonostante il suddetto sia più volte indagato perché attraverso la loro applicazione è accusato di sequestro aggravato di persone. Il 17 febbraio sono cominciate a circolare le prime voci di intervento sui decreti. Dal Viminale né conferme né smentite salvo il fatto che la ministra ha garantito di voler seguire le raccomandazioni fatte a suo tempo dal Presidente Sergio Mattarella, ma sembra che una fase istruttoria di discussione che vedrà impegnati esponenti del governo e capidelegazione dei partiti è iniziata. L’intenzione è quella di tornare ad una condizione simile a quella del governo Gentiloni / Minniti in cui il tema immigrazione era separato dalle questioni riguardanti la “sicurezza urbana”. Questi i punti su cui sembra verta la discussione. Intanto le multe alle imbarcazioni delle Ong che Salvini aveva portato ad 1 milione di euro. Le nuove norme dovrebbero portarle ad una cifra che andrà dai 10 mila ai 50 mila euro, con un codice di autoregolamentazione per l’intervento in mare e senza che il sequestro dell’imbarcazione diventi di fatto obbligatorio. Dopo il cambio di governo 3 navi bloccate sono state restituite ai legittimi proprietari e alcune sono già tornate in mare a soccorrere persone. Un altro elemento da rimuovere è legato all’abolizione della “protezione umanitaria”, uno dei tre dispositivi (insieme all’asilo politico e alla protezione internazionale / sussidiaria) per riempire il vuoto lasciato da una legge organica sul diritto d’asilo. La protezione umanitaria, che garantiva almeno il 40% delle persone accolte, non verrà ripristinata e su questo la ministra è stata chiara. Verranno però dati maggiori poteri discrezionali alle Commissioni territoriali incaricate di valutare le richieste d’asilo. Aumenteranno le possibilità per chi proviene da Paesi in cui il rimpatrio si traduce nel rischio di trattamenti inumani e degradanti, per chi è in condizioni di vulnerabilità (donne, persone che hanno subito forti traumi o che manifestano forme di disagio psichico dovute al percorso migratorio). La notizia ha un risvolto positivo, per chi ne beneficerà e uno di carattere generale negativo perché determina ampi margini di discrezionalità. Si rischia che le forme di protezione dipendano dalla fortuna nel trovare una Commissione più o meno competente, più o meno aggiornata, più o meno sensibile in materia, ma questo in parte era già presente nel passato. Il primo decreto conteneva anche un inutile prolungamento dei tempi massimi di trattenimento nei Centri Permanenti per il Rimpatrio da 80 a 180 giorni.
Da quel giorno sono aumentate le rivolte, gli atti di autolesionismo, i tentativi di suicidio, di fuga e, a quanto dichiarato dai trattenuti, i pestaggi da parte delle forze dell’ordine. Da luglio a gennaio 3 trattenuti, in diverse circostanze, hanno perso la vita e le indagini sono tutt’ora in corso. Le indiscrezioni alternano bastone e carota. Da una parte la riduzione a 120 giorni massimo del trattenimento, dall’altra l’apertura di nuovi centri (Macomer nel nuorese e Gradisca D’Isonzo a Gorizia sono già in funzione, a Milano riaprirà a giorni quello di via Corelli), velocizzazione delle modalità di rimpatrio (difficile comprendere come), aumento nei centri degli ex detenuti (misura che renderà ancora più problematiche le condizioni di vita) e infine pene maggiori per chi durante le rivolte si rende responsabile di danneggiamenti, violenze contro altri “ospiti”, operatori o agenti delle forze dell’ordine eccetera.
La ministra da sempre ha dichiarato di considerare chi finisce nei CPR poco degno di attenzione e di sostegno ma di considerarli in gran parte “delinquenti”. Sembra abbia anche ordinato un’inchiesta per avere un quadro di insieme dell’eventuale passato criminale di chi vi è rinchiuso. La bozza di proposta prevede anche di garantire l’iscrizione anagrafica nei Comuni, ai richiedenti asilo, uno dei punti più critici introdotti da Salvini per cui erano già state inoltrate denunce di incostituzionalità che avevano già prodotto sentenze da parte di tribunali civili e amministrativi. L’ex ministro l’aveva tolta, la nuova si appresterebbe a ripristinarla garantendo in questa maniera la residenza a migliaia di persone. Una delle poche misure che avrebbe un impatto significativo, il passo ulteriore, che neanche viene però preso in considerazione è quello di poter permettere che i permessi ancora validi di protezione umanitaria possano essere convertiti in permessi per ragioni di lavoro.
A chiedere una misura di questo tipo sono numerosi imprenditori che hanno assunto persone di cui non vorrebbero privarsi, nessuna misura rivoluzionaria soltanto la possibilità di garantire in maniera legalizzata forme di lavoro salariato che, nel diffuso subappalto si traduce in sfruttamento. Intanto però la garanzia del diritto all’iscrizione anagrafica è un primo traguardo che ci si augura venga attuato in tempi rapidi. I decreti Salvini hanno poi inutilmente reso più difficile l’ottenimento della cittadinanza, portando da 2 a 4 gli anni di attesa dopo che si è presentata la domanda (10 anni di residenza regolare e un reddito sufficiente a mantenersi). I 2 anni sembra verranno ripristinati reinserendo la logica del silenzio assenso tranne che in caso di imputazione per gravi reati, ma non si vede ad oggi alcuna intenzione di intervenire su una vetusta e punitiva legge sulla cittadinanza che di fatto rende difficoltoso ottenere tale diritto; la stessa proposta di riforma riguardante i minori o i nati in Italia (ius culturae) non sembra per ora presa in considerazione. Un ulteriore intervento potrebbe essere effettuato, stralciandolo dai decreti, rispetto alle norme che riguardano la sicurezza urbana: dovrebbero essere corrette le norme sull’oltraggio a pubblico ufficiale per le quali non era più prevista l’applicabilità dell’esimente della particolare tenuità del fatto e che non distinguevano più tra i diversi tipi di pubblico ufficiale. L’oltraggio verrà previsto solo se espresso nei confronti di forze dell’ordine e non ad esempio per figure come gli impiegati delle poste o gli impiegati amministrativi della pubblica amministrazione. Forse questo è il momento giusto – anche dal punto di vista politico – per proporre interventi in grado di non destare allarme sociale, anche la retorica dell’invasione può fare meno presa rispetto al passato.
Nonostante alcuni approdi e nonostante la situazione in Libia vada peggiorando nei primi due mesi del 2020 sono giunti in Italia 2065 persone, molte di più dell’intero 2019 (227) peccato che nel dato 2019 non siano contemplati coloro che con i cosiddetti “sbarchi fantasma” sono giunti a Lampedusa dalla Tunisia o in Sardegna dall’Algeria. Comunque si tratta di cifre risibili (nel 2016) tali numeri si registravano in un solo giorno) e il tema non è più divenuto tale da riempire i titoli dei giornali e dei programmi televisivi. Quello che invece sta peggiorando, al di là di riforme che non arrivano, è la situazione internazionale. Numerosi sono i segnali che portano a pensare che l’esternalizzazione delle frontiere stia procedendo in maniera molto più preponderante.
La situazione libica è catastrofica, anche il centro dell’Unchr presente nei pressi di Tripoli e che fino a pochi mesi fa serviva a garantire un ricollocamento di qualche centinaio di richiedenti asilo vulnerabili, è stato chiuso e abbandonato. Da mesi non poteva più svolgere le proprie funzioni per sovraffollamento – molti ex reclusi nei centri di detenzione abbandonati vi avevano cercato rifugio – poi il governo Serraj ha deciso di realizzare nei suoi pressi una base militare rendendo la zona obiettivo sensibile per gli attacchi dell’esercito di Khalifa Haftar. Anche altri centri sono stati chiusi e molti richiedenti asilo vivono come possono nei pressi delle maggiori città. L’arrivo dei mercenari jahedisti siriani inviati da Erdogan a protezione e sostegno del governo e seguiti da ufficiali turchi, ha complicato ancora di più la situazione rendendo la tregua dichiarata dopo la conferenza di Berlino fragile e perennemente a rischio.
Su questo si innesta il rinnovo tacito del MoU (Memorandum of Understanding) firmato il 2 febbraio 2017 fra Italia e Libia in cui si definisce un accordo, non passato per il parlamento, che garantisce navi, addestramento militare, finanziamenti al governo di Tripoli in cambio della garanzia di fermare la partenza di richiedenti asilo. Da quel giorno decine di migliaia di persone sono state respinte e trattenute nei campi libici dove torture, stupri, ricatti, uccisioni, sono stati ampiamente testimoniati. Fino a 3 mesi prima della scadenza dell’accordo una delle parti poteva intervenire per modifiche, fino alla scadenza potevano essere ufficialmente presentate proposte o addirittura si poteva far cessare gli effetti del patto. Solo una settimana dopo la scadenza il governo italiano ha mandato agli omologhi dirigenti libici alcune proposte, ma si tratta di proposte senza alcun valore.
Ci sono stati incontri fra il ministro degli affari esteri Luigi Di Maio e l’omologo libico, in Italia e a Tripoli, ma ancora non ci sono segnali che lascino pensare a risultati reali. La bozza inviata a Tripoli parla di sostegno che l’Italia garantirà nelle aree soggette a immigrazione clandestina, a fornire risorse per fermare l’immigrazione con sostegno alla guardia di frontiera e alla guardia costiera libica (in larga parte composta da ex trafficanti) e a garantire formazione a dette forze che si debbono impegnare a operare nel rispetto dei diritti umani. Il governo libico a sua volta si dovrebbe impegnare a garantire assistenza in mare, soccorso, e agibilità piena a OIM e Unhcr, verso i migranti presenti in Libia.
Si chiederà all’UE di contribuire a migliorare gli interventi per il controllo dei confini meridionali terrestri della Libia. Oim e Unhcr dovrebbero poter agire meglio nel programma “Gathering and Departurre Facility) GDF, per sostenere il reinsediamento attraverso limitati corridoi umanitari e i programmi di rimpatrio volontario assistito. Si riaffermano vaghe promesse di sostegno allo sviluppo per mitigare le ragioni dell’immigrazione irregolare nei Paesi vicini, creando opportunità lavorative.
Dove la bozza mostra per intero la propria ipocrisia è quando si preannuncia il “progressivo superamento” dei centri di accoglienza (mai denominati di detenzione) garantendo l’accesso agli operatori umanitari, preannunciando in futuro la liberazione di donne e minori, e annunciando l’utilizzo di risorse provenienti dall’Italia per formare personale in grado di garantire il rispetto dei diritti umani dei trattenuti. Anche gli altri punti dell’accordo si basano su promesse e dichiarazioni di intenti di difficile attuazione in un contesto di guerra accompagnate da esborso di risorse economiche non quantificabili per esternalizzare anche a sud della Libia la frontiera ed evitando ogni tipo di problema per i governi europei, in primis quello italiano.
Il nesso con la riforma dei decreti sicurezza è fondato su almeno due ragioni: da una parte le persone che continueranno ad arrivare in Italia sono in minima parte con le navi Ong, saranno l’effetto di politiche di reale discontinuità col passato, tanto con le decisioni del governo Conte / Salvini quanto e ancor di più col precedente Gentiloni / Minniti. Il secondo aspetto riguarda direttamente gli intenti della ministra Lamorgese che sembra non soddisfatta delle proposte Di Maio, insufficienti e prive di prospettive e che sembra voler ottenere risultati più significativi. Nei prossimi mesi, forse anche in tempi più brevi si potrà capire la reale discontinuità col passato, per ora la prudenza sembra non pagare ma garantire ulteriormente il clima di sofferenze e insofferenze che non promette nulla di positivo