Negli ultimi quattro decenni il processo di accumulazione capitalistico ha cambiato pelle, passando da un regime Fordista-Keynesiano al neoliberismo globalizzato. Tra la fine degli anni ’90 e i primi anni del nuovo millennio, il movimento internazionalista no-global o altermondialista ha articolato analisi critiche del “pensiero unico”, del funzionamento e degli effetti del nuovo regime neoliberista, sviluppando competenze e pratiche antagoniste condivise a livello planetario. Allora il movimento è stato sconfitto, ma oggi, alla luce della pandemia da Covid-19 e dei cambiamenti climatici in atto, appare necessario ripartire da molte di quelle analisi critiche e soluzioni politiche ed economiche proposte. Tra queste ci sono senz’altro quelle relative alla questione della sovranità alimentare.
Dalla fine del Fordismo-Keynesismo all’egemonia neoliberista
Alla fine degli anni ’70, il secondo shock petrolifero – con il raddoppio del prezzo del barile – a seguito della rivoluzione iraniana guidata dall’ayatollah Ruḥollāh Khomeini nel 1978-79 contro la monarchia dello Shah Mohammad Reza Palhavi e contro il “Grande Satana” americano (esemplificata dalla crisi dei 52 ostaggi sequestrati all’ambasciata USA per 444 per giorni, costata la rielezione al presidente Jimmy Carter) e della disastrosa guerra tra Iran e Iraq, ha contribuito a far arrivare l’inflazione al 14,8%, il tasso d’interesse fissato dalla banca centrale americana (FED) al 19% e il prime rate al 20,5% negli USA nel maggio 1981. L’intensificarsi delle criticità, contraddizioni, rigidità, rendite di posizione e conflitti economici, sociali e politici avevano ampiamente inceppato il processo di accumulazione del capitale, fatto esplodere la competizione intercapitalistica in presenza di una crisi di sovraccumulazione di capitali e sovrapproduzione di merci, arrestato il dinamismo del sistema capitalistico e mandato in crisi la struttura sociale dell’accumulazione Fordista-Keynesiana che si era via via consolidata nel dopoguerra nel mondo occidentale durante i “trenta gloriosi”.
La crisi economica e sociale è sfociata in una grave crisi politica negli Stati Uniti, incapsulata nel drammatico discorso sulla “crisi di fiducia” del presidente Jimmy Carter nel 1979 e in un emergente consenso bipartisan dell’establishment sulla necessità di abbandonare il keynesismo. Carter esprimeva un punto di vista sul “malessere della democrazia” che era stato sviluppato a partire dai primi anni ’70 dalla Commissione Trilaterale – un’istituzione élitaria fondata da David Rockfeller nel 1973, della quale Carter aveva fatto parte, come altri uomini d’affari e politici americani, europei e giapponesi di primo piano1 – e che era stato definito dal rapporto elaborato da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki col titolo La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie nel 1975.
È stato a questo punto che si è sviluppata una potente doppia contro-offensiva, una vera e propria “guerra di movimento” conservatrice, pro-capitalista e anti-governativa, controllata da partiti tradizionali di centro-destra, portata avanti da parte di:
- grandi imprese nazionali e multinazionali che hanno avviato una nuova ondata di investimenti in nuove tecnologie, nuove aree geografiche e nuove forme organizzative tese ad intensificare lo sfruttamento del lavoro umano, riorganizzare le catene di approvvigionamento e del valore (supply and value chains), incrementare la produttività e ridurre i costi (a cominciare da quelli relativi a lavoro ed energia) che in breve hanno avuto effetti dirompenti sulle relazioni e strutture di classe, sui livelli occupazionali, sulle relazioni competitive tra imprese e sul coinvolgimento dei territori centrali e periferici dell’economia mondiale;
- forze politiche e culturali anglo-americane più legate e sensibili agli interessi delle grandi imprese che hanno avviato il sistematico smantellamento della struttura sociale dell’accumulazione Fordista-Keynesiana, sostituendo il keynesismo con l’hayekesmo, il neoliberismo, il monetarismo – dall’agosto 1979 il presidente della FED, Paul Volcker, ha imposto il rialzo del tasso di interesse come mezzo per abbassare drasticamente l’inflazione – e abbandonando unilateralmente l’impegno per la piena occupazione (nonostante il mandato politico di piena occupazione sancito negli USA dall’Humphrey-Hawkins Act del 1978) per orientarsi verso la supply-side economics (una dottrina secondo cui la performance economica dipende in gran parte dal mantenimento di basse aliquote fiscali per ricchi e grandi imprese), sposando l’idea di ridurre la disoccupazione attraverso la compressione dei salari invece che attraverso gli investimenti pubblici, recidendo anche il legame tra salari e crescita della produttività.
È stata promossa un’ideologia, una filosofia politica neo-liberale contrassegnata da una “fede” e una glorificazione dell’individualismo, della libertà di scelta individuale, del “free enterprise system”, del “libero mercato” (la “mano invisibile” di Adam Smith), della competizione senza restrizioni come caratteristica che definisce le relazioni umane, della proprietà privata come garanzia per l’iniziativa individuale, nonché da un visione dello Stato keynesiano, roosveltiano o socialdemocratico come inerentemente nemico della libertà individuale e dell’efficienza economica, perché produce benefici per potenti gruppi di interesse (identificati soprattutto nei lavoratori sindacalizzati) e distorce i prezzi, determinando dispotismo politico, una diminuzione della crescita economica, maggiore inflazione e disoccupazione attraverso un eccesso di offerta di moneta. Pertanto, secondo questa visione proto-anarchica e libertaria, lo Stato doveva essere ridimensionato il più possibile (“starve the beast”), trasformato in uno “Stato leggero” (downsizing) che idealmente, oltre ad intervenire contro i nemici del mercato – nazionalismo economico e richieste democratiche -, avrebbe dovuto assicurare poco più che la gestione monetaria finalizzata alla stabilizzazione dei prezzi, la libertà del mercato (come garante del libero movimento di capitali e profitti), la proprietà privata, la sicurezza, interna ed estera, e la giustizia civile per risolvere le controversie2.
Decenni di politiche keynesiane socialdemocratiche avevano prodotto rigidità, inefficienze, sprechi e una “casta” politico-burocratica che, sfruttando gli ampi bilanci pubblici tipici di tali politiche, oltre ad aver dato vita ad una classe media con una base economica relativamente stabile legata alla crescente dinamica della spesa pubblica, aveva sviluppato dei comportamenti istituzionali top-down sistematicamente inclini ad autoreferenzialità, cooptazione, corruzione, clientelismo, affarismo, sprechi e incompetenza. Allorquando la crescita permanente della ricchezza, dell’occupazione e delle entrate fiscali è rallentata e poi si è interrotta, questi comportamenti hanno finito per erodere profondamente non solo l’equilibrio dei bilanci pubblici e il rapporto tra cittadini e istituzioni, ma anche le politiche keynesiane stesse, la percezione della loro efficacia socio-economica. Il diffuso affermarsi di questa “casta” e gli effetti negativi dei suoi comportamenti hanno costituito il miglior argomento per tutti coloro che si sono impegnati nello screditarla e nel rivendicare un ritorno a bilanci pubblici striminziti e a un ruolo della pubblica amministrazione decisamente secondario, accompagnato da un maggiore potere dei mercati.
Secondo il credo neoliberista, il modo per garantire una maggiore crescita economica – di cui avrebbero indistintamente beneficiato tutti, sia detentori di capitali sia lavoratori – era quindi che il governo non si “intromettesse”, che facesse il meno possibile direttamente, soprattutto nei campi dello sviluppo economico e del welfare. L’ampliamento dell’intervento pubblico nelle questioni economiche sarebbe stato giustificato dal New Deal in avanti in base a tesi “completamente insensate: il fatto è che la Grande Depressione, come la maggior parte degli altri periodi di grande disoccupazione, venne causata dalle cattive scelte fatte dalle autorità e non da un’ipotetica instabilità connaturata all’economia privata. […] quella che sarebbe stata una modesta contrazione dell’economia divenne un’autentica catastrofe”3.
È importante, però, tenere presente anche la variante più realistica e pragmatica del pensiero neoliberista, rappresentata dalla scuola tedesca ordoliberista fondata da economisti come Walter Eucken, sociologi come Alexander von Rüstow (che ha inventato il termine Vitalpolitik, poi ribattezzato “biopolitica” da Foucault), Wilhelm Röpke e Alfred Müller-Armack e giuristi come Franz Böhm e Hans Grossmann-Doerth, dall’Università di Friburgo e dalla rivista Ordo (fondata da Eucken nel 1948) che ha abbandonato la via tradizionale del laissez faire, negando la capacità del mercato di autoregolarsi e sostenendo la necessità di un forte interventismo da parte dello Stato – uno Stato forte garante di un ordine competitivo, “ordinatore” perché capace di usare la concorrenza come norma e strumento dell’attività di governo – per assicurare che il libero mercato produca risultati vicini al suo potenziale teorico4.
La doppia contro-offensiva economica e politico-culturale ha contribuito a creare un nuovo ordine sociale e a ristabilire le condizioni favorevoli per l’accumulazione del capitale (la crescita dello stock di capitale fisso a seguito di una nuova ondata di investimenti), consentendo l’emersione di un regime di “accumulazione flessibile”, definito come insieme del perseguimento di mercati di nicchia, del decentramento combinato con la dispersione spaziale della produzione e delle catene del valore, del ritiro dello Stato-apparato nazionale da politiche interventiste, insieme a deregolazioni e privatizzazioni. Sia pure con differenti configurazioni a seconda dei diversi contesti nazionali, ha ripristinato il potere delle élite economiche, ha eroso o annullato il compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro che si era imposto dall’immediato dopoguerra, incarnato nella contrattazione collettiva e nel progressivo equiparamento fra diritti civili e diritti sociali che aveva consentito l’estensione del welfare e l’affermarsi del paradigma Fordista-Keynesiano in Occidente fino alla prima metà degli anni ’70. Il nuovo regime ha fatto entrare il mondo in una nuova “onda lunga” espansiva: la fase storica della globalizzazione neoliberista che sul piano economico è durata fino alla grande crisi finanziaria del 2007-2008 e sul piano politico fino al terremoto iniziato nel 2016.
A partire dalla seconda metà degli anni ’70, il neoliberismo ha rapidamente acquisito lo status di un discorso e di un progetto egemonico perché è apparso come la soluzione efficiente al problema di come stimolare un’economia in ristagno. È diventando la forma politica ed ideologica dominante della globalizzazione capitalistica con il cosiddetto Washington Consensus, un termine coniato dall’economista John Williamson e caratterizzato essenzialmente da tre imperativi: stabilizzare, privatizzare e liberalizzare, ossia dalla convinzione che mercati liberi, libero scambio, disciplina fiscale e liberal-democrazia fossero fattori necessari per far crescere le economie e far rimanere stabili i sistemi politici. Uno scenario preconizzato da Milton Friedman fin dai primi anni ’60, all’apogeo della “nuova frontiera” kennediana, quando era quasi ignorato e aveva sostenuto che: “Solo una crisi – reale o percepita – produce cambiamenti reali. Quando questa crisi si verifica, le azioni che vengono intraprese dipendono dalle idee che si trovano in giro. Questa, credo, sia la nostra funzione fondamentale: sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle vive e disponibili finché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile”5.
Friedman e gli altri economisti neo e ordoliberisti erano consapevoli che le condizioni che consentono il libero mercato devono essere conquistate politicamente, che lo Stato deve essere attivo nell’organizzazione di un’economia di mercato e che pertanto lo Stato (keynesiano) stesso dovesse essere riprogettato per sostenere il libero mercato in modo costante e continuativo. Sul piano politico, le amministrazioni di Margaret Thatcher (1979-1991) e di Ronald Reagan (1981-1989), entrambi eletti grazie al voto delle classi medie e popolari più conservatrici e all’appoggio aperto dei settori più organizzati ed aggressivi del mondo della grande finanza ed impresa, hanno “venduto” le idee di Friedman e degli economisti neo e ordoliberisti all’opinione pubblica e indicato la strada da seguire alle altre élites politiche – liberal-democratiche, socialdemocratiche, democratico-cristiane – dei Paesi dello schieramento occidentale. Si pensi, ad esempio, a Helmut Kohl (1982-1998) in Germania, a Bettino Craxi (1983-1987) in Italia, ad Aníbal Cavaco Silva (1985-1995) in Portogallo o al presidente francese François Mitterand (1981-1995) che pur essendo stato eletto con un programma radicale di trasformazioni in senso socialista dell’economia, che prevedeva nazionalizzazioni, riduzione dell’orario di lavoro, abbassamento dell’età pensionabile, aumento del salario minimo, etc., si era convertito repentinamente al neoliberismo dopo la fuga di capitali e gli assalti speculativi sulla moneta francese del 1983. Il suo governo – con al ministero delle Finanze Jacques Delors – ha eliminato tutti i controlli sui movimenti di capitale, deregolamentato il sistema finanziario, privatizzato le banche, mantenuto la Francia nel Sistema Monetario Europeo (SME) e perseguito politiche di “austerità dal volto umano”. Un’inversione di marcia del centrosinistra francese che ha consapevolmente e deliberatamente spezzato il suo tradizionale blocco sociale di appoggio, sganciandosi dalla classe operaia, nella speranza di sostituirlo con un “blocco borghese” di classi medie professionali e manageriali del settore pubblico e privato più propenso alle riforme neoliberiste. Lungi dal resistere all’ulteriore neoliberalizzazione del progetto europeo, Mitterrand lo ha promosso attivamente, vedendo nei suoi vincoli sulla politica fiscale, monetaria e redistributiva un’opportunità per indebolire i comunisti – i suoi partner di coalizione di una volta. Una linea politica che ha accelerato il declino delle fortune politiche di questi socialdemocratici revisionisti.
Il neoliberismo ha permeato anche le élites politiche di diverse nazioni dell’Africa, del Sud e Centro America e poi dell’Europa centrale ed orientale. La violenza è stata largamente utilizzata per imporre il neoliberismo nel Sud del mondo. Colpi di Stato, guerre e invasioni sono stati i metodi usati per disciplinare classi dirigenti recalcitranti e favorire l’apertura agli investimenti stranieri, l’estrazione di risorse e la privatizzazione di beni pubblici. Ma, il mezzo principale per imporre l’agenda neoliberista è stata la “trappola del debito”, con istituzioni internazionali come il FMI, la Banca Mondiale e la WTO che hanno svolto un ruolo centrale nello spingere i Paesi in via di sviluppo e post-comunisti ad adottare politiche di “aggiustamento strutturale” basate sul ritiro dell’intervento statale dalla produzione e distribuzione come una necessaria precondizione per la crescita economica. La prima delle ”rivolte contro il FMI” si è verificata a Lima, in Perù, nel 1976, seguita da una escalation continuata durante gli anni ’806. Nel 1982 sono stati cacciati tutti i consulenti economici keynesiani da Banca Mondiale e FMI, sostituiti da teorici neoclassici dell’offerta convinti che a qualunque crisi occorresse rispondere con una politica di “aggiustamento strutturale”, imponendo politiche di austerity a tutti i Paesi in difficoltà.
Questi cambiamenti del paradigma egemonico hanno consentito di spostare l’equilibrio delle forze in netto favore del capitale rispetto al lavoro, rimettendo in moto il processo di accumulazione capitalistico, e di vincere la Guerra Fredda (costata 45 milioni di morti nei vari teatri extra-occidentali dello scontro e della “coesistenza pacifica” dal 1945), dopo un decennio di folle corsa agli armamenti da parte di USA e URSS, portando alla caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989, alla riunificazione delle due Germanie nell’ottobre 1990, alla fine della vecchia sinistra social-comunista antagonista in Europa (che non aveva ancora accettato il compromesso liberal-social-democratico) e alla fine del “socialismo reale” in Russia con la sua economia interamente pianificata entro le rigide maglie dello Stato, a seguito della bancarotta e dell’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991 (definita da Reagan ”Impero del Male” nel 1983). Una vittoria che ha consentito di estendere il modo di produzione capitalistico, impiantando il suo insieme strategico di relazioni, all’intero globo. Il collasso del “socialismo reale” nell’ex blocco sovietico e l’accesso della Cina all’economia di mercato internazionale hanno aggiunto circa 2 miliardi di persone alla forza lavoro salariata globale. Sono stati aperti nuovi mercati di merci, servizi, capitali finanziari, forza lavoro, materie prime e derrate alimentari per le grandi imprese multinazionali.
Nei Paesi Occidentali, inoltre, la vittoria sul “socialismo reale” ha portato le classi dirigenti a pensare che fosse giunto il momento di intensificare l’applicazione dell’agenda neo e ordoliberista e smantellare definitivamente il compromesso socialdemocratico, abbandonando ogni forma di egualitarismo e di redistribuzione della ricchezza e mettendo al centro della società e della vita quotidiana il solo mercato. In particolare, in Europa ha disincentivato l’innovazione del modello di sviluppo socialdemocratico europeo e spinto ad un suo ridisegno secondo i dettami dell’ordoliberismo tedesco basato sulla centralità delle esportazioni, bassi salari, precarietà contrattuale, taglio della spesa e degli investimenti pubblici, estromissione dello Stato dall’economia reale, limitando la sua funzione alla “regolazione” del libero gioco del mercato.
Una vittoria apparentemente totale del binomio neoliberismo-globalizzazione, che lo storico conservatore Francis Fukuyama ha tradotto nella formula della “Fine della Storia”, titolo di un libro che ha avuto uno straordinario successo editoriale globale e che vedeva nel modello politico, culturale e sociale della democrazia liberale (liberalismo politico) realizzata nell’ambito del libero mercato (liberalismo economico) il non plus ultra dell’evoluzione della civiltà umana, la “forma finale di governo umano verso cui ora tutti i Paesi dovrebbero convergere”, mentre gli oppositori dei contro-movimenti no-global la hanno definita come la vittoria del “pensiero unico” (un concetto reso popolare dal sociologo francese Pierre Bourdieu) in ossequio allo slogan preferito della signora Thatcher: “there is no alternative” (TINA) ad un’economia di mercato.
Il movimento no global e la critica della globalizzazione neoliberista
Se negli ultimi decenni la trasformazione capitalistica cinese è stata una delle principali forze propulsive del processo di globalizzazione, movimenti di critica internazionalista e di resistenza no global o anti-globalizzazione neoliberista (di popolo, governativi, pacifici, radicali, violenti, armati e terroristici) sono via via emersi in varie parti del mondo. Tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo millennio, in particolare, abbiamo assistito ad un movimento di opposizione che ha reagito al salto di quantità e di qualità nel processo di mercificazione globale indotto da un capitalismo che, nello sforzo planetario di mettere in campo nuove merci e di accaparrarsi nuovi mercati e ulteriori fonti energetiche o sfruttare fino all’osso quelle esistenti, stava trascinando, in un processo senza precedenti di mercificazione planetaria, anche settori e territori fino a poco prima estranei al conflitto capitale-lavoro e al dominio del profitto privato, cercando di inglobare nel mondo-merce i servizi pubblici, l’istruzione, la sanità, i trasporti, le pensioni, la natura intera, il cibo, l’acqua, la vegetazione, le sementi e qualsiasi potenziale fonte energetica. Da centinaia di milioni di contadini che all’improvviso si sono trovati spossessati, oltre che dell’accesso alla terra, anche dei mercati locali per i loro prodotti7, del diritto d’uso delle sementi8 o con i campi invasi da colture OGM, a intere popolazioni derubate dell’acqua, divenuta da massimo bene pubblico una fonte di profitto per voraci multinazionali, fino ai dipendenti e agli utenti dei beni e servizi pubblici, impauriti dal tentativo, in Occidente, di trasformare persino l’istruzione, la sanità e le carceri in fonti di profitto.
A Seattle, a fine 1999, in occasione della Conferenza Ministeriale della WTO chiamata a ratificare la globalizzazione economica, migliaia di persone in rappresentanza di un migliaio di organizzazioni non governative (ONG) eterogenee e trasversali – sindacali, ambientaliste, religiose, degli agricoltori, dei consumatori, delle popolazioni indigene, dei movimenti delle donne, collettivi antagonisti – di 90 Paesi hanno protestato contro i piani di espansione degli accordi di “libero commercio”, sostenendo che questo avrebbe garantito la libertà delle grandi imprese di scandagliare il mondo alla ricerca di lavoro a basso costo nel contesto di una assenza di restrizioni riguardo ai diritti dei lavoratori e agli investimenti industriali e agroindustriali che avvelenano l’ambiente. A questi piani si contrapponeva la prospettiva di un mondo più equo e solidale.
Un’idea semplice univa insieme le diverse componenti della protesta (inclusi gli anarchici violenti del “black bloc”) contro il summit della WTO di Seattle: che “un altro mondo è possibile e necessario” e che la salute, i diritti e la libertà degli abitanti del pianeta non devono essere sacrificati sull’altare dei profitti di un ristretto gruppo di imprese globali. Il meeting ufficiale della WTO è stato influenzato dal movimento di protesta e le trattative in corso sono fallite.
L’esplosione del conflitto verteva sulla contrapposizione fra le élite finanziarie e governative, dotate di un potere su scala globale distante dal controllo democratico e quindi dalla sua legittimazione, da un lato, e la galassia di realtà associative, sindacali, contadine, indigene dall’altro, che indirizzavano la loro protesta fisicamente contro entità spesso intangibili, per quanto assai potenti. Un contrasto fra la base della piramide sociale, rappresentata dalla cittadinanza attiva e più critica, e il vertice di quell’ordine neoliberista, che si era imposto come monocratico attraverso accordi di vertice in riunioni a porte chiuse, a protezione degli affari economici dal controllo popolare, dopo il fallimento dell’esperienza sovietica e della sua disgregazione. Al confronto fra Occidente capitalista ed Oriente socialista, si era sostituta una relazione paradigmatica basata sullo sfruttamento economico-finanziario “estrattivista” del Nord ricco su un Sud del mondo sempre più impoverito.
Quello di Seattle è stato il primo di una serie di incontri internazionali del popolo no global – a partire dal Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre (gennaio 2001) organizzato in contrapposizione con il Forum Economico Mondiale di Davos (il club dei globalisti) – in opposizione al crescente controllo dell’economia mondiale da parte delle global corporations, accusate di detenere un potere così forte da condizionare le scelte dei singoli governi verso politiche non sostenibili da un punto di vista ambientale ed energetico, non rispettose delle peculiarità locali e dannose per le condizioni dei lavoratori.
Il movimento no global ha rappresentato la nascita di una società civile internazionalista globale, che promuove l’universalizzazione dei diritti, la giustizia sociale e un’economia delle persone, la democrazia partecipativa e diretta, la valorizzazione dei beni comuni, il consumo critico, lo sviluppo locale e globale sostenibile, la tutela dell’ambiente, il pacifismo e l’antiproibizionismo. Un movimento che ha provato a mettere in pratica il motto del pensare globalmente ed agire localmente e che ha prodotto anche una pratica globale coordinata ed un processo di elaborazione di un pensiero critico, facendolo emergere da dialogo tra culture, linguaggi ed esperienze locali.
In particolare, i Forum Sociali, mondiali e continentali, da Porto Alegre, a Mumbai, Nairobi, Caracas, Tunisi e in Europa Firenze (con almeno 500 mila persone coinvolte nel novembre 2002), Parigi, Londra ed Atene, sono stati i luoghi dove quel processo di comunicazione e condivisione della conoscenza si è realizzato. Il movimento dei Social Forum sviluppò una straordinaria capacità di analisi e di critica del modello di sviluppo capitalistico, permettendo la circolazione di idee, progetti conoscenze come mai era accaduto prima. Un processo di alfabetizzazione globale, che ha legato punte della ricerca con l’elaborazione e l’organizzazione dei grandi movimenti, dal Movimento Sem Terra (MST) brasiliano ai movimenti urbani di ogni continente, dai Dalit – gli intoccabili, gli ultimi del sistema delle caste indiane – ai movimenti sindacali, agli attivisti di Occupy Wall Street, del movimento degli indignados spagnoli e delle Primavere Arabe.
Dopo Seattle e Porto Alegre, nonostante la dura repressione poliziesca messa in atto a Genova nel luglio 2001 – le cariche violente dei Carabinieri al corteo dei 300 mila del 21 luglio, aperto dallo striscione “Voi G8, noi 6 miliardi“, con l’uccisione di Carlo Giuliani, gli orrori della “macelleria messicana” alla scuola Diaz e delle torture alla caserma di Bolzaneto -, tanto da essere definita come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” da parte di Amnesty International, e la svolta securitaria, militarista, di militarizzazione degli spazi pubblici, di guerra globale al terrorismo e per “l’esportazione della democrazia” impressa alla politica internazionale dagli USA dopo l’abbattimento delle Twin Towers dell’11 settembre, Banca Mondiale e FMI non hanno potuto ignorare questo movimento di protesta e hanno cominciato a dichiarare la loro preoccupazione per l’ambiente e le condizioni dei lavoratori, anche se non sono state definite nuove regole in grado di mettere in discussione il paradigma della globalizzazione neoliberista e l’egemonia delle global corporations.
Nel complesso, però, al “movimento di Seattle” e dei Social Forum è stato rimproverato di aver finito col limitarsi a chiedere ingenuamente ai responsabili della politica mondiale di divenire buoni, gentili e collaborativi, di contrastare il potere crescente della finanza sull’economia reale, di imporre la trasparenza al mondo bancario, di introdurre dei correttivi per avere una globalizzazione “dal volto umano”, e quando questi hanno fatto tutt’altro, di essersi progressivamente sfaldato e disperso in mille rivoli privi di un vero collegamento e di un’effettiva attenzione reciproca. Da questo punto di vista, il canto del cigno del movimento altermondialista è stata la giornata del 15 febbraio 2003 quando quasi 100 milioni di persone in 800 città del mondo manifestarono contro l’imminente (e poi realizzata) invasione americana dell’Iraq, nella più grande protesta globale della storia (in quella occasione il New York Times definì il movimento altermondialista “la seconda potenza mondiale”).
Da allora, però, nel giro di pochi mesi, un movimento che aveva raggiunto in breve tempo un’elevata capacità di mobilitazione in contesti anche molto differenti per situazioni, posizioni e pratiche, sorretto da una corposa elaborazione teorica e accompagnato da lotte di settore e territoriali, è imploso lasciando campo libero al devastante dilagare di ideologie e politiche opposte. I Forum Sociali si sono sciolti, incontrando in sede locale ostacoli e contraddizioni e a livello nazionale un quadro politico molto spesso sfavorevole. Mancando del potere contrattuale per sfidare il capitale internazionale, incapace di produrre vertenze e ogni tanto anche di vincerle, con il sopravvento di alcune pratiche (come l’autorappresentazione, la professionalizzazione della solidarietà, la legalizzazione degli spazi sociali, l’interlocuzione con le istituzioni non in termini di trattativa, ma in termini di collaborazione), il movimento no global non ha ottenuto quasi nulla e il sistema economico globalizzato è rimasto pressoché saldo fino ad oggi, nonostante tutte le devastazioni che ha provocato, anche durante e dopo la crisi finanziaria del 2007-08 e la pandemia da Covid-19 attualmente ancora in corso (2020-2021).
Uno dei più importanti cavalli di battaglia del movimento no global (soprattutto dell’associazione Attac) è stata la campagna per l’introduzione della “Tobin tax”, una tassa mondiale sulle transazioni finanziarie, che era stata proposta dal premio Nobel per l’economia James Tobin nel 1974, allorquando il processo di finanziarizzazione dell’economia era ancora agli albori. L’idea di Tobin era di introdurre uno strumento di regolazione che avrebbe dovuto frenare la corsa verso l’incontrollata espansione di un altrettanto incontrollato dominio della finanza, soprattutto di quella costituita dai flussi di capitali speculativi a breve termine. Inoltre, secondo Tobin, i proventi della tassa avrebbero dovuto essere impiegati nella lotta contro la povertà. Politici e studiosi mainstream hanno combattuto accanitamente questa proposta, formulando ogni genere di obiezioni tecniche sulla sua applicazione e sull’effettivo gettito che essa avrebbe potuto produrre. Alla fine non se ne è fatto nulla perché è stato impossibile arrivare ad una condivisione sulla sua applicazione a livello globale.
Sul piano politico-culturale, però, il patrimonio di conoscenze di quella straordinaria intelligenza collettiva che aveva saputo così prontamente dare vita e animare i movimenti d’inizio secolo non è certo andato disperso. È ancora in corso un vero e proprio attacco alle fondamenta del “sistema”, alle radici del “pensiero unico” e delle politiche neoliberiste che hanno reso possibile la globalizzazione. Una messa in discussione che per anni è stata auspicata dai contro-movimenti sociali popolari no-global o altermondialisti che sono scesi nelle strade e nelle piazze – da Seattle negli USA a Genova in Italia, dal Zuccotti Park a New York a piazza Syntagma ad Atene, da Puerta del Sol a Madrid e Plaça de Catalunya a Barcellona a Tahrir Square al Cairo, da Pearl Roundabout in Baharain a Avenue Habib Bourguiba a Tunisi, da Change Square a Sanaa in Yemen a Gezi Park e piazza Taksim a Istanbul e a largo Majdan a Kiev – e protestato in favore di un allargamento degli spazi di democrazia, partecipazione e giustizia sociale, per la dignità collettiva e contro una globalizzazione senza regole e le sue conseguenze dirette sulla vita degli Stati nazionali, delle società locali, delle famiglie e delle persone, contro le crudeli e distruttive politiche di austerità che hanno messo in crisi i welfare state nazionali, contro lo strapotere del capitalismo finanziario, le liberalizzazioni normative, le “dismissioni” che hanno mercificato i beni pubblici e le delocalizzazioni industriali che hanno distrutto i mercati del lavoro locali e nazionali, sgretolato le classi medie e popolari e disarticolato le economie nazionali.
Negli ultimi due decenni è stato soprattutto in America Latina, Africa e Asia che sono emersi i movimenti sociali più avanzati di opposizione alle feroci logiche estrattiviste e di espropriazione del capitalismo globale in termini di:
- recupero dei beni comuni, come nei settori del gas e dell’acqua in Bolivia e delle lotte sudafricane per i servizi pubblici;
- sviluppo di nuove forme di proprietà collettiva, sia sotto forma di fabbriche gestite da lavoratori in città argentine o di collettivi agricoli nella campagna brasiliana;
- sviluppo di forme più partecipative e deliberative, come hanno fatto i movimenti sociali nelle comunità urbane povere in Venezuela e in Sud Africa.
L’esperienza di democrazia partecipativa realizzata nella città brasiliana di Porto Alegre, da cui partì il movimento del Social Forum con i suoi 70 mila partecipanti ufficiali, è stato uno degli elementi programmatici più discussi nei movimenti di inizio secolo. Un progetto straordinario che vedeva l’ingresso dei cittadini, delle rappresentanze di tutte le classi sociali, nel governo della grande macchina urbana. Sulla scia di quella esperienza ancora oggi migliaia di cosiddetti movimenti civici si mobilitano localmente (anche grazie alle opportunità offerte dai social networks) in giro per il mondo per difendere la qualità della vita, l’ambiente urbano, i beni comuni (ossia contro la costante degradazione delle risorse pubbliche a causa del loro sfruttamento da parte dei diversi interessi privati), i servizi pubblici e i diritti delle comunità locali. Urbanizzazione e accumulazione di capitale vanno di pari passo e adesso oltre la metà della popolazione mondiale vive in città. Pertanto, le questioni relative alla vita quotidiana nelle aree urbane sono una fonte di continue contraddizioni e conflitti. Molti dei principali movimenti sociali fanno leva su forze sociali di opposizione che dal basso si battono per “diritto alla città”9 e contro le iniziative imposte dal mercato o dalle istituzioni che possono generare gli effetti negativi e destrutturanti che caratterizzano i processi di trasformazione urbana. Per questo nella maggioranza dei casi questi movimenti vengono bollati dai media e i politici mainstream come semplici reazioni del tipo NIMBY – not in my backyard. In realtà, questi movimenti dimostrano l’esistenza di società civili sempre più determinate e consapevoli a far sentire la loro voce riguardo al perseguimento del diritto alla città e alla qualità della vita urbana.
Negli ultimi anni, questo tipo di attivismo spontaneo, reattivo, orizzontale e non professionalizzato ha ottenuto importanti risultati in tanti contesti locali: quando i cittadini, appartenenti alle classi sia medie sia popolari, si mobilitano per una causa concreta, scoprono che mettendo in comune le loro forze possono davvero cambiare le cose. In altre parole, come sostiene Harvey, ”il conflitto assume inevitabilmente la forma dello scontro fra flussi del capitale e luoghi dell’autoproduzione dei mondi vitali”, dove si svolge la vita quotidiana, si stabiliscono i rapporti affettivi e le solidarietà sociali e dove si costruiscono le soggettività politiche e i significati simbolici.
Molti dei movimenti emersi, però, non hanno né la volontà né la possibilità di andare al di là degli obiettivi concreti che si sono dati. Solo di rado passano ad occuparsi di politica in senso più ampio o a formare alleanze con movimenti politici. Ma, il fatto che movimenti simili esistano è già una buona notizia. Dimostra, infatti, che nonostante l’egemonia esercitata dal binomio neoliberismo-globalizzazione, in giro per il mondo l’energia collettiva non si è esaurita e che le richieste di un livello di vita migliore e di cambiamenti politici non si fermeranno presto.
Una delle più importanti conseguenze è che ormai sempre più le autorità locali si rendono conto della necessità di dover dialogare con i cittadini. Soprattutto nelle grandi città stanno cambiando le dinamiche politiche e sta crescendo la consapevolezza del fatto che, per risolvere i problemi, l’amministrazione comunale deve cercare di collaborare quotidianamente con i cittadini attraverso consultazioni, dibattiti pubblici e percorsi partecipati di progettazione o bilancio.
Le lotte che riguardano questioni legate alla qualità della vita e alla quotidianità non solo sono del tutto legittime, ma fanno anche da catalizzatore per un più ampio processo di politicizzazione. Le esperienze condivise creano quelle basi di solidarietà e spirito collettivo che mancano a cittadini oggi molto spesso depoliticizzati, privi di esperienza di mobilitazione e partecipazione politica. Il superamento della separazione tra la sfera individuale, quella domestica, quella civica e quella politica consente di promuovere azioni collettive e rappresenta una vera sfida per società ormai sempre più sfilacciate e liquide, rimaste chiuse da anni nella dimensione privata e dominate da sfiducia, rassegnazione e diffidenza verso il concetto stesso di bene comune. I movimenti civici che si sono imposti in questi anni hanno dato voce al desiderio dei cittadini di avere una vita migliore e hanno permesso di mettere le autorità locali di fronte alle loro responsabilità. Inoltre, una volta che le persone hanno capito che unire le forze porta risultati concreti, trovano sempre altri motivi, altre cause per cui vale la pena battersi e tornare a mobilitarsi collettivamente.
Negli ultimi anni, un tema all’ordine del giorno dei movimenti sociali in Europa, come altrove nel mondo, è stato quello relativo del riscaldamento globale. Il movimento di disobbedienza civile e di resistenza non violenta Extinction Rebellion (XR) e il clamoroso fenomeno mediatico della 16enne attivista svedese Greta Thunberg hanno avuto il merito di imporlo nell’agenda politica (a livello sia nazionale sia continentale). Si sono mobilitati milioni di adolescenti europei che hanno partecipato ai cosiddetti Fridays for Future e anche a due scioperi globali del clima (15 marzo e 24 maggio 2019) rivendicando che la vera priorità europea (e non solo) è proteggere l’ambiente e agire subito per fermare i cambiamenti climatici10.
I timori del movimento no global sono perlopiù diventati realtà: lo strapotere delle multinazionali e il neocolonialismo liberista sono ormai fenomeni sotto gli occhi di tutti11, confermati dalle pur timide reazioni anche di tanti politici mainstream negli ultimi tempi. Il collasso climatico in corso, le crescenti diseguaglianze sociali, lo svuotamento delle democrazie e da ultimo l’esplosione della pandemia da Covid-19 – effetto diretto dell’attacco agli ecosistemi e alla dignità della vita animale – dimostrano quanto oggi abbiamo bisogno di un radicale cambio di rotta. Di una risposta/proposta autenticamente internazionalista, di pensieri nuovi, di modelli sociali diversi, fuori dal paradigma disegnato dall’ideologia neoliberista con le sue consunte parole d’ordine: crescita, mercato, deregulation, consumi privati, servizi sanitari privatizzati, tecnocrazia e meritocrazia.
La pandemia ha reso evidenti tutte le fragilità di un modello che in molti credevano essere immutabile, ha reso evidente il disastro ecologico e sociale implicito nell’economia della crescita illimitata e incontrollata e ha quindi minato molte certezze, ma il tempo della riflessione e della critica sembra essere durato poco. Il campo è di nuovo occupato dal “pensiero unico” e dall’affannosa ricerca di nuove promesse di “sviluppo” (spesso dipinte con una leggera patina di vernice verde) da parte della politica mainstream e del potere finanziario.
Oggi, come a cavallo del millennio, il modello neoliberista deve essere messo a nudo per spingere milioni di persone, attraverso i continenti, a scendere in piazza per dire che un altro mondo è possibile e necessario. C’è un patrimonio di esperienze e di idee sviluppato dei movimento altermondialista che è ancora a disposizione. La catastrofe ecologica non è un’astrazione e la ricerca di un nuovo modello di società sarà il tema dominante dei prossimi anni, almeno per quella fetta di società che non si rassegna al disastro annunciato e all’obbligo di acquiescenza prescritto dall’ideologia neoliberista. Molte esperienze sono cresciute e si sono trasformate, nuovi movimenti sono nati e si stanno sviluppando. Sappiamo che va condotta una lotta politica sul piano delle idee e facendo tesoro di quanto imparato negli anni del movimento del Social Forum, occorre fare leva sulla forza delle reti sociali, la creatività dei movimenti e la generosità delle persone.
Contadini, imperi del cibo, GDO e oligopoli chimico-sementieri
Uno delle grandi questioni globali è oggi quella agricola, relativa alla produzione di cibo. Sappiamo che nel 2050 sarà necessario dar da mangiare a oltre 10 miliardi di persone. Oggi, nel mondo ci sono almeno circa 850 milioni di persone denutrite, mentre circa 2 miliardi di persone hanno problemi di obesità (la maggioranza di questi sono poveri dei Paesi ricchi) e circa un terzo del cibo globale viene sprecato (prima o dopo essere arrivato alla tavola). Occorre preservare la salute umana, preservare l’ambiente e, in particolare, la biodiversità e la qualità/fertilità dei suoli (che è in peggioramento, mettendone in discussione la produttività), garantire equità e giustizia sociale. Sappiamo che la produzione di cibo è responsabile del 30% delle emissioni di gas climalteranti, utilizza il 40% della terra e consuma il 70% dell’acqua dolce12. Oggi, si discute di una agricoltura più moderna, più conservativa, più naturale, ma anche di una agricoltura più industrializzata e più tecnologica (la cosiddetta “agricoltura di precisione”). Su tutti questi temi, oggi, sembra essersi aperto uno scontro più aspro che nel passato. In particolare, sembra emergere una posizione che tende a confinare l’agricoltura biologica a un settore nicchia, quando va bene descrivendola come una pratica apprezzabile, ma troppo cara ed inefficiente dal punto di vista della produttività, quando va male come una pratica esoterica ed irrazionale.
È bene ricordare che ancora oggi è l’agricoltura contadina che sopporta gran parte, circa il 70-80%, del peso di nutrire il pianeta. Si tratta di un’agricoltura fatta di micro-imprese individuali e familiari (il 94% ha a disposizione meno di 5 ettari) in cui il lavoro è prevalentemente svolto dal titolare, dai suoi familiari e conviventi e che coinvolge oltre 500 milioni di famiglie nel mondo (circa 3,5 miliardi di persone, con 230 milioni di famiglie in Cina e 90 milioni in India), utilizzando meno del 25% delle terre agricole e quasi nessun combustibile fossile e prodotto chimico. Questo mentre il 70% di campi coltivati, allevamenti e frutteti nel mondo viene gestito solo dall’1% delle aziende agricole, secondo le ricerche condotte da International Land Coalition, Oxfam e World Inequality Lab. Dagli anni ’80, il controllo della terra è diventato molto più concentrato (soprattutto in Europa e USA) sia direttamente attraverso la proprietà che indirettamente attraverso l’agricoltura a contratto, il che si traduce in forme di agricoltura intensiva ed industriale, in monocolture più distruttive e in meno piccole aziende agricole coltivate con cura. Fenomeni che stanno accelerando il declino della qualità del suolo, l’uso eccessivo delle risorse idriche e il ritmo della deforestazione.
I piccoli agricoltori, gli agricoltori a conduzione familiare, le popolazioni indigene e le piccole comunità sono molto più cauti nell’uso della terra. Per loro non si tratta solo di una questione legata al ritorno sull’investimento, ma di cultura, identità e di lasciare qualcosa per la prossima generazione. Si prendono molta più cura della terra attraverso pratiche agroecologiche e, a lungo termine, producono di più per unità di superficie e distruggono meno.
Negli anni ’60, il modello dell’agricoltura contadina è stato messo in discussione dalla “Rivoluzione Verde”, promossa da governi nazionali ed organizzazioni interntazionali, che si basava su un “pacchetto di pratiche” che includevano i semi di varietà ad alto rendimento (soprattutto per grano e riso), fertilizzanti chimici e pesticidi, con irrigazione assicurata. Grazie all’introduzione di queste pratiche, Paesi come l’India sono diventati autosufficienti per i cereali, ma questo ha portato alla contaminazione dei suoli, all’impoverimento delle falde acquifere e alla monocoltura. In sostanza, ad un modello di agricoltura insostenibile. D’altra parte, la Rivoluzione Verde ha aumentato la produzione alimentare mondiale, ma non ha “risolto” il problema della fame nel mondo13.
Ma, è soprattutto l’agricoltura industriale – quella realizzata dagli imprenditori agricoli e dalle aziende dell’agrobusiness su grandi estensioni di terreni arabili con molta disponibilità di acqua e con forti input energetici – che sfrutta le risorse naturali disponibili del nostro pianeta in modo insostenibile attraverso la strategia di sostituire il lavoro umano con macchinari agricoli, agrochimica ed energia fossile e di allevare in modo intensivo miliardi di suini, bovini e polli14, si è trasformato in un vicolo cieco in tempi di cambiamenti climatici, crescente inquinamento (di suolo, aria e acqua), degrado ambientale, distruzione degli habitat, pressione demografica, crescita dell’urbanizzazione, riserve petrolifere in diminuzione, deforestazione e risorse naturali sovrasfruttate. Secondo l’analisi satellitare, negli ultimi anni sono stati distrutti milioni di ettari di foresta pluviale tropicale incontaminata (per la maggior parte in Amazzonia) per fare posto alla produzione di carne di manzo, cioccolato, soia e olio di palma. Le foreste immagazzinano enormi quantità di carbonio e abbondano di fauna selvatica, rendendo la loro protezione fondamentale per rallentare la corsa del cambiamento climatico e evitare una sesta estinzione di massa.
Oggi, la piccola agricoltura familiare è sempre più vessata da norme e vincoli creati ad arte per ridurre a rassegnazione e silenzio. L’agricoltura contadina, infatti, è sempre più schiacciata sia dagli imperi del cibo e dell’agrindustria formati da global corporations del calibro di Nestlè, Cargill, Archer Daniels Midland, Louis Dreyfus, Bunge, Unilever, Coca-Cola, Pepsico, Mondelez, Mars, Hershey, Kellogg, General Mills, Danone, Fonterra, Friesland Campina, Associated British Food, McDonald’s, Kraft-Heinz, Anheuser-Busch Inbev, Campbell, Heineken, Tyson Foods, Shuanghui, Del Monte, Olam, McCormick, Lactalis, Cofco (China National Cereals, Oils and Foodstuff Corporation) per citare alcune delle maggiori detentrici di brand agroalimentari, sia dalle pervasive e proliferanti catene della grande distribuzione organizzata (GDO) – 7Eleven, Walmart, Spar, Auchan, Carrefour, Tesco, Sainsbury, Lidl, Rewe, Metro, Aldi, BiM, CBA, Ahold Delhalze, etc. – che si garantiscono a loro volta i profitti a partire dalle materie prime veicolate direttamente o trasformate dagli imperi del cibo. Nei Paesi ricchi, le catene della GDO controllano dal 90 al 95% del mercato dei prodotti alimentari consumati, con centrali di acquisto, come la Tesco-Carrefour, che fatturano 150 miliardi di euro. Supermercati, ipermercati, discount e altre strutture delle catene della GDO competono per le quote di mercato con la moltiplicazione delle superfici di vendita, prezzi permanentemente “bassi”, “fissi”, “scontati” o addirittura “sottocosto” che pesano sui produttori (si veda Liberti S. e Ciconte F., Il grande carrello. Chi decide cosa mangiamo, Editori Laterza, Roma-Bari, 2019), condizioni di lavoro che peggiorano e orari che si allungano alle 24 ore.
Qualsiasi tipo di coltura prendiamo in considerazione, scopriamo che ci sono 4 o 5 aziende che controllano più della metà di quel mercato a livello mondiale. Sono queste grandi aziende che gestiscono il commercio internazionale. Sono loro a decidere cosa si deve coltivare. Sono sempre loro a plasmare i gusti dei consumatori finali in modo da promuovere il consumo di quantità crescenti di alimenti sempre più ultra processati (cibi pronti, barrette di cereali, “cibo spazzatura”, bevande gassate, etc.) che rappresentano una minaccia per la salute in quanto sono una delle cause principali della sovralimentazione e dell’obesità, ma che generano maggiori profitti.
C’è poi l’oligopolio delle sementi, dei pesticidi e dell’agrochimica (erbicidi selettivi, fertilizzanti, etc.) formato dalla americana Dow Chemical-DuPont (frutto di una fusione da 110 miliardi dollari), dalla sino-svizzera ChemChina-Sinochem-Syngenta (frutto di una fusione da 43,5 miliardi di dollari nel maggio 2017 e dell’acquisizione di due enormi produttori di fertilizzanti canadesi che poi sono stati fusi per formare una nuova società, ora chiamata Nutrien), dalle tedesche BASF (Badische Anilin und Soda Fabrik) e Bayer che nel giugno 2018 ha acquisito l’americana Monsanto per 62,5 miliardi di dollari. Le autorità antitrust di 90 Paesi hanno dato il via libera all’acquisizione, anche se la Bayer ha dovuto cedere a BASF attività nei settori delle sementi (cotone, colza, soia e verdure), degli erbicidi e dell’agricoltura digitale (che combina sensori, software e macchine di precisione e potrebbe rendere più mirato l’uso dei pesticidi nel prossimo futuro) per circa 8 miliardi di euro.
Ora, queste 4 global corporations controllano il 63% del mercato mondiale dei semi (nel 1981 c’erano al mondo ancora 7 mila aziende sementiere, mentre oggi sono sparite quasi tutte), sempre più brevettati e OGM, e il 72% di quello dei pesticidi. In ognuno dei 5 principali rami dell’industria agroalimentare – agrochimica, semi, farmaceutica per animali, genetica e macchinari agricoli – le 4 multinazionali più grandi controllano oltre il 50% del mercato e sono quindi nelle condizioni di imporre standard, varietà e modalità di coltivazione. In Europa, detengono i diritti del 72% delle varietà dei semi di pomodoro coltivati, del 95% dei cetrioli e del 95% delle carote. Inoltre, questi giganti puntano sull’innovazione assistita dalle tecnologie digitali, investendo nella ricerca di nuove applicazioni e metodiche (agricoltura di precisione, stalle robotizzate, cristallografia delle piante, editing genomico con tecnologia Crispr, etc.), ma anche di nuovi spazi di coltivazione (colture idroponiche, zeoponiche, su lana di roccia o cristalli polyter, etc.) che rendono irrilevante il fattore terra, potendo così scegliere la localizzazione in funzione della convenienza economica.
La “banda dei 4” riesce a sovvertire attivamente ricerca e risultanze scientifiche per promuovere prodotti e profitti, come hanno mostrato i cosiddetti “Monsanto Papers” e il processo in cui una giuria californiana ha riconosciuto la Monsanto responsabile di aver causato il cancro ad un giardiniere che per anni ha utilizzato i prodotti erbicidi a base di glifosato con marchi Roundup e Ranger Pro, condannandola a pagare 289 milioni di dollari di danni, poi ridotti a circa 80 milioni. Dalla sua parte l’azienda ha la Environmental Protection Agency (EPA) e il Dipartimento di Giustizia americano che continuano a negare che il glifosato possa causare il cancro. In ogni caso, la nuova Bayer-Monsanto ha patteggiato un accordo da 10,5 miliardi di dollari per risolvere circa 95 mila cause simili, ma ne rimangono aperte altre 25 mila. Tra risarcimenti, spese legali e multe, Bayer rischia di dover pagare altri 5 miliardi di euro, mentre in Borsa il titolo ha perso oltre 40 miliardi di valore tra il 2018 e il 2019. Per fare fronte alle spese, Bayer ha deciso di vendere ad Elanco il ramo d’azienda che che si occupa della salute degli animali per 7,6 miliardi dollari.
Come sostiene l’attivista indiana Vandana Shiva, la difficile condizione e la resistenza delle popolazioni contadine sono un avvertimento che se non c’è la sicurezza del diritto alla terra e la sicurezza del diritto ai semi, la colonizzazione delle campagne del mondo da parte dell’agricoltura industriale e degli imperi del cibo costituisce una grande minaccia per l’esistenza umana perché rappresenta una delle principali cause del cambiamento climatico. Agricoltura industriale, imperi del cibo, GDO e oligopolio dei semi e della chimica formano un complesso industriale agricolo fortemente energivoro, spinto dalla ricerca del profitto, che ha interesse a procurarsi le materie prime ovunque nel mondo si trovino ai prezzi più bassi (speculando anche sulla loro volatilità) per utilizzarle come ingredienti per varie tipologie di alimenti. Ma, noi sappiamo che per ogni prodotto ci sono grandi differenze: i 12 litri di latte di una vacca Bruna Alpina che trascorre buona parte dell’anno al pascolo e i 40 litri di latte di una Frisona rinchiusa in un allevamento intensivo portano lo stesso nome e soprattutto vengono pagati lo stesso prezzo. Inoltre, poiché il più delle volte si tratta di materie prime deperibili, si deve trovare il modo di farle viaggiare in fretta e di farle durare a lungo. Ad esempio, con il latte viene adottato il sistema di “termizzarlo”, pastorizzarlo o di ridurlo in polvere per poi ricostituirlo, ma con l’aggiunta di additivi, emulsionanti, aromi e correttori, per cui il prodotto industriale finale non è certo uguale a un formaggio fatto con il latte “crudo”.
La GDO è un attore che, governando i flussi dell’intera filiera agroalimentare, ha contribuito in maniera strutturale alla costruzione di un mondo che dà ai consumatori la percezione che qualsiasi cosa vogliano mangiare sia sempre disponibile, che sia accettabile la standardizzazione dei prodotti, e che siano garantite l’efficienza (derivante dalle economie di scala) e la sicurezza igienico-sanitaria. La GDO offre anche il parcheggio per le macchine e il carrello per spostare comodamente la spesa. Il bar code che, attenuando le code alle casse, fa toccare con mano al consumatore l’efficienza della supply chain. Tutti elementi che plasmano e strutturano l’immaginario del consumatore. La comunicazione supporta tutto questo, a partire da canali mainstream, che ci inducono a pensare che questo è il solo modo per soddisfare i fabbisogni alimentari.
Le interazioni tra gli attori della GDO, attraverso il bar code, sono orchestrate grazie ad un’infrastruttura informativa specifica che permette, una volta raccolte le informazioni sui consumi tramite le casse, di generare automaticamente i riordini ai produttori. Il tutto tramite un sistema di trasporto e logistico, con centri di smistamento ampiamente automatizzati. Le carte fidelity raccontano le abitudini di consumo e molto altro sugli utenti, consentendo di orientare marketing e comunicazione in modo da contribuire ad aumentare la pervasività ed efficacia dell’intero ecosistema. Questo crea abitudini che strutturano i comportamenti di tutti gli attori economici della filiera agroalimentare che, lavorando in un processo così codificato, arrivano a considerare una minaccia tutto quello che li porta a dover fare azioni diverse.
L’idea che il consumatore non debba rimanere senza cibo e che possa mangiare quello che vuole quando vuole, porta a concepire il territorio agricolo come un’immensa piattaforma nella quale viene prodotto tutto quello che si trova a scaffale. Si tratta di un’abbondanza reale in termini quantitativi, visto il continuo riapprovvigionamento degli scaffali, ma assai limitata in termini delle differenze qualitative delle varietà. La GDO è un attore rilevante di quell’economia dei flussi che sta portando all’abbandono di tutto quello che non è standardizzabile (come le piccole produzioni agroalimentari non intensive, non industriali, di nicchia) e che contribuisce a promuovere la concezione di un mondo agricolo caratterizzato da grandi spazi morfologicamente omogenei in grado di produrre enormi quantità di poche varietà di materie prime che poi un tessuto di trasformazione, ormai concentrato in pochissime mani, confeziona in modi che danno la sensazione di sicurezza alimentare e rafforzano la percezione di un alto grado di benessere. Le strutture della GDO sono concepite come strutture gerarchiche top-down che hanno un centro a cui fare affluire tutte le energie in modo da assorbire un parte sempre maggiore del valore creato dai coltivatori e trasformatori agroalimentari.
Gran parte della ricerca nelle università è orientata a trovare i metodi più efficaci per far viaggiare il cibo nello spazio e nel tempo, con diverse conseguenze negative: deprimere i prezzi delle materie prime pagate ai coltivatori e allevatori; produrre cibo sempre più elaborato (alimenti che tendono ad essere a basso contenuto di nutrienti essenziali, ma ricchi di zucchero, olio e sale e suscettibili di essere sovraconsumati) che contribuisce alla diffusione dell’obesità, del diabete e di altre malattie legate all’alimentazione; aumentare i rischi della contaminazione del cibo; introdurre nell’alimentazione additivi (conservanti, coloranti, edulcoranti, dolcificanti, grassi, sali, etc.) di cui non si conoscono le interazioni e gli effetti sulla salute umana a lungo termine.
Il forte sbilanciamento del potere decisionale e contrattuale verso gli ultimi anelli della filiera agroalimentare, porta ad una distribuzione del guadagno tutt’altro che equa. Il sistema produttivo alimentare è fortemente squilibrato: chi produce guadagna poco, chi consuma spende molto e in mezzo c’è chi – gli imperi del cibo e della GDO – spende poco e guadagna molto. Ogni passaggio ed intermediario presente lungo la catena del valore porta ad un rincaro del prezzo finale proposto poi al consumatore. La materia prima prodotta da coltivatori e allevatori non viene valorizzata per la qualità e le peculiarità organolettiche, ma in base agli standard imposti dal mercato vigente. Il valore aggiunto di questo processo è dato da fattori come la trasformazione e dalla capacità capillare di distribuzione.
Questo significa che le aziende agricole sono diventate delle semplici fornitrici di materia prima e che ricevono una frazione minima del prezzo finale pagato dal consumatore. La loro sopravvivenza dipende dalla quantità di prodotto e dal prezzo che riescono a garantire. Sono costrette, in concorrenza tra loro, a tagliare i costi, aumentare le ore di lavoro, intensificare lo sfruttamento dei terreni attraverso coltivazioni sempre più intensive, OGM e trattate chimicamente, oppure allevare sempre più animali sulla terra o in giganteschi capannoni (concentrated animal feeding operations), e usare prodotti chimici per non farli ammalare, gonfiarli artificialmente ed ingrassarli, trasportarli (in molti casi vivi, imponendo loro enorme stress e aumentando i rischi di una contaminazione sanitaria) in giro per il mondo per poi macellarli in prossimità dei grandi mercati di consumo.
Molto spesso i produttori agricoli, oltre a prezzi troppo bassi, subiscono comportamenti non corretti – ritardi nei pagamenti, disdette di ordini mentre stanno consegnando le merci, imposizioni di sconti sui prezzi, aste al doppio ribasso, modifiche unilaterali e retroattive di contratti di fornitura. La filiera alimentare in Europa è fatta da decine di milioni di agricoltori e centinaia di migliaia di imprese di trasformazione (con un ristretto gruppo di giganti) che devono passare attraverso la strettoia di poche migliaia di acquirenti (con un ristretto gruppo di giganti) che a loro volta rivendono a centinaia di milioni di consumatori di tutti i Paesi europei. Proprio per cercare di mettere fine a comportamenti inaccettabili, la Commissione Europea ha approvato la “Direttiva UE contro le pratiche commerciali sleali nel settore agroalimentare” (25 aprile 2019) che gli Stati europei dovranno recepire entro 2 anni. Inoltre, per cercare di proteggere i piccoli e medi agricoltori locali, otto Paesi membri dell’Unione Europea – tra cui Grecia, Finlandia, Lituania, Italia e Francia – hanno varato programmi nazionali di etichettatura obbligatoria di origine delle materie prime alimentari, principalmente latte, carne e cereali utilizzati negli alimenti trasformati. Tali etichette obbligano i trasformatori a dimostrare, ad esempio, che il grano usato per fare la pasta venduta in Italia è prodotto in Italia e non in Canada o Ucraina. Gli oppositori di tali programmi affermano che queste misure rappresentano forme subdole di protezionismo che distorcono il mercato, esortando i consumatori a scegliere di acquistare prodotti locali (che è in effetti l’obiettivo per cui sono state introdotte).
La strategia sulla sostenibilità al 2030 della Commissione Europea (From Farm to Fork e Biodiversità 2030), che prevede di valorizzare biodiversità e settore agroalimentare nell’ambito del Green Deal europeo, ha posto come targets una riduzione del 50% dell’uso dei fitorfarmaci in agricoltura, del 20% dei fertilizzanti, del 50% dei consumi di antibiotici per gli allevamenti e l’acquacoltura e un incremento al 25% delle superfici coltivate a biologico, oltre all’ulteriore estensione dell’etichetta d’origine sugli alimenti. Bruxelles punta anche a raggiungere una quota di almeno il 30% delle aree rurali e marine europee protette, e a trasformare il 10% delle superfici agricole in aree ad alta biodiversità. Ma, questa strategia è stata in gran parte affossata da Parlamento e Consiglio Europeo che hanno messo insieme proposte per la Politica Agricola Comune (PAC) ancora rivolte a massimizzare la produzione e i profitti dell’agricoltura industriale, slegando l’erogazione di gran parte dei sussidi da obiettivi ambientali.
La lotta per la sovranità alimentare
Uno dei temi principali su cui si è sviluppata a partire dagli anni ’90 la lotta contro globalizzazione neoliberista è stato ed è quello della sovranità alimentare, ossia la rivendicazione in favore di un approccio che implica il controllo politico necessario ad un popolo nell’ambito della produzione, distribuzione e consumo del cibo. Secondo i sostenitori della sovranità alimentare, i Paesi (governi e parlamenti) devono poter definire una propria politica agricola ed alimentare in base alle proprie necessità, rapportandosi alle organizzazioni degli agricoltori e dei consumatori.
I sostenitori della sovranità alimentare si contrappongono sia allo strapotere degli imperi del cibo, della GDO e degli oligopoli chimico-sementieri che impongono il modello di agricoltura industriale sia al programma sul (libero) commercio dell’alimentazione e dell’agricoltura promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). La sovranità alimentare, infatti, prevede che vi sia un legame essenziale tra alimentazione, agricoltura, accesso alla terra, ecosistemi, culture, e distribuzione del potere economico, valorizzando bio e agro-diversità e il lavoro legato alla produzione alimentare nel mondo realizzata secondo il modello dell’agroecologia.
Questo sistema riguarda direttamente le popolazioni contadine e indigene colpite da problemi di produzione e distribuzione del cibo, a causa l’adozione della Rivoluzione Verde tra gli anni ’40 e ’70 del secolo scorso, delle politiche di privatizzazione e appropriazione delle terre, dei cambiamenti climatici, dello strapotere degli imperi del cibo, della GDO e degli oligopoli chimico-sementieri, e dei percorsi alimentari perturbati che influiscono sulla loro capacità di accesso alle fonti alimentari tradizionali e contribuiscono all’aumento delle malattie. Queste esigenze sono state affrontate negli ultimi anni da diverse organizzazioni internazionali, tra cui le Nazioni Unite (in particolare dalla FAO), con diversi Paesi che hanno adottato politiche di sovranità alimentare.
La locuzione sovranità alimentare fu coniata nell’aprile 1996 dai membri di La Via Campesina, un’organizzazione/coalizione internazionale di contadini, durante la sua conferenza internazionale svoltasi a Tlaxcala (Messico), per poi essere stata proposta in modo ufficiale durante il Forum parallelo al World Food Summit della FAO a Roma, nel novembre dello stesso anno. Il concetto di sovranità alimentare nasce come proposta in contrapposizione al modello neoliberista del processo di globalizzazione delle imprese, fornendo una chiave per la comprensione della governance internazionale sull’alimentazione e l’agricoltura. In particolare, la sovranità alimentare è stata proposta in risposta sia al termine “sicurezza alimentare“15 sia a quello di “diritto al cibo”16 utilizzati da FAO, ONG e governi sui temi di alimentazione e agricoltura.
La Via Campesina, introducendo il concetto di sovranità alimentare, ha individuato sette principi basilari: 1) il cibo come diritto umano fondamentale; 2) la riforma agraria; 3) la protezione delle risorse naturali; 4) la riorganizzazione del commercio alimentare; 5) la fine della globalizzazione della fame; 6) la pace sociale; 7) il controllo democratico. Il Forum sulla sovranità alimentare del 2002 ha proseguito l’analisi di questi elementi, che sono stati poi sintetizzati dall’International NGO/CSO Planning Committee for Food Sovereignty in quattro “aree prioritarie” o “pilastri” per promuovere l’azione politica: il diritto al cibo; l’accesso alle risorse produttive; il modello di produzione agro-ecologico; il commercio e i mercati locali.
Il concetto di sovranità alimentare è stato adottato da diverse organizzazioni internazionali, tra cui la Banca mondiale e le Nazioni Unite17. Nel 2007, al primo Forum per la sovranità alimentare a Sélingué (Mali), 500 delegazioni di movimenti contadini e organizzazioni della società civile, provenienti da 80 Paesi, hanno adottato la “Dichiarazione di Nyéléni” che ne ha fornito una definizione:
“La sovranità alimentare è il diritto dei popoli a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto con metodi ecologicamente corretti e sostenibili, e il loro diritto a definire i propri sistemi alimentari e agricoli. Mette coloro che producono, distribuiscono e consumano cibo al centro dei sistemi e delle politiche alimentari piuttosto che le richieste dei mercati e delle aziende. Difende gli interessi e l’inclusione della prossima generazione. Offre una strategia per resistere e smantellare l’attuale regime commerciale e alimentare aziendale e dà indicazioni per i sistemi alimentari, agricoli, pastorali e della pesca determinati dai produttori locali. La sovranità alimentare dà priorità alle economie e ai mercati locali e nazionali e potenzia l’agricoltura guidata dai contadini e dalle famiglie, la pesca artigianale, il pascolo guidato dai pastori e la produzione, distribuzione e consumo di cibo basati sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica. La sovranità alimentare promuove un commercio trasparente che possa garantire un reddito dignitoso per tutti i popoli e il diritto per i consumatori di controllare la propria alimentazione e nutrizione. Essa garantisce che i diritti di accesso e gestione delle nostre terre, dei nostri territori, della nostra acqua, delle nostre sementi, del nostro bestiame e della biodiversità, siano in mano a chi produce gli alimenti. La sovranità alimentare implica nuove relazioni sociali libere da oppressioni e disuguaglianze fra uomini e donne, popoli, razze, classi sociali e generazioni.”
Questa definizione sintetizza le rivendicazioni dei movimenti che, fin dagli anni ‘60 del secolo scorso, manifestano e agiscono contro le politiche e le pratiche dello sviluppo perseguite dalle agenzie internazionali che nei decenni hanno fatto del cibo un bene economico di scambio (una commodity); contro l’aiuto alimentare, considerato una forma alternativa di sovvenzione alle esportazioni dei Paesi ricchi donatori; contro il monopolio commerciale delle multinazionali dell’agribusiness; contro il potere degli Stati forti che sovvenzionano le loro agricolture. Rappresenta un invito a tutti a prendere in mano la propria relazione con il cibo, interrogandosi su cosa si mangia, cioè da dove viene, cosa contiene, come è preparato il cibo.
Nel 2011, tale definizione è stata ulteriormente perfezionata dai Paesi europei18, dopo che movimenti, associazioni e cittadini avevano iniziato a riflettere in forma collettiva sul cibo inteso non come merce, bensì come diritto fondamentale, in piazza Rossetti nello spazio dell’AltrAgricoltura in occasione del G8 di Genova, confrontandosi con leader internazionali come Bové (Confédération Paysanne), Nicholson (La Via Campesina), Dos Santos e Vieira19. A partire dal 2020, almeno sette Paesi hanno integrato la sovranità alimentare nelle loro costituzioni e legislazioni20.
Al centro della sovranità alimentare ci sono le persone e non le politiche, i mercati o le imprese: contadini, pescatori, popoli indigeni, popoli senza terra, lavoratori rurali, migranti, allevatori nomadi, comunità che vivono nelle foreste, donne, uomini, giovani, consumatori, movimenti ecologisti, organizzazioni sociali. Per far in modo che tutte le persone possano avere diritto ad un cibo “sano, nutriente e culturalmente appropriato” sono necessarie alcune condizioni di partenza per le quali La Via Campesina sta lavorando insieme ad altre organizzazioni di tutto il mondo:
- la gestione diretta dei sistemi e delle attività agricole da parte di contadini, pastori e pescatori locali, cioè la possibilità di dare in mano a coloro che producono gli alimenti l’accesso e la gestione delle terre, dei territori, dell’acqua, delle sementi, del bestiame e della biodiversità;
- il ruolo centrale dell’economia e dei mercati locali e nazionali;
- il potere ai contadini, all’agricoltura familiare, alla pesca e l’allevamento tradizionali;
- una maggiore attenzione alla produzione, distribuzione e consumo di alimenti nel rispetto dell’ambiente, delle società e delle economie locali;
- un commercio leale e trasparente in grado di garantire a tutti un reddito dignitoso;
- la possibilità per i consumatori di controllare la propria alimentazione e nutrizione.
La sovranità alimentare quindi punta sull’agricoltura familiare e sostenibile21, ma altrettanto sulla crescita della consapevolezza, della capacità di scegliere, di poter esercitare un controllo sul proprio cibo e sulla propria alimentazione sia a livello individuale che di comunità sociale22, coerentemente con l’affermazione di Weldell Berry “Mangiare è un atto agricolo”. Si cerca di far crescere sistemi di produzione e scambio secondo i principi del “commercio equosolidale”: agricoltura biologica, gruppi di acquisto consapevole, favorendo prodotti di stagione, a km 0, con il giusto riconoscimento economico ai produttori che agiscono al di fuori della grande distribuzione, riduzione dei consumi energetici, orientati a fonti rinnovabili.
Inoltre, la sovranità alimentare si estende anche alla sovranità delle colture, intesa come il diritto “di coltivare e scambiare diverse semenze in modalità open source“, ossia senza pagare royalties alle multinazionali delle sementi. Questo diritto è strettamente connesso alla sovranità alimentare, poiché la pratica del seed-saving è in parte un mezzo per aumentare la sicurezza alimentare. Gli attivisti sostengono che il risparmio delle semenze consente un sistema alimentare chiuso che può aiutare le comunità a ottenere l’indipendenza dalle principali aziende agricole. Sostengono che il risparmio delle semenze ricopre un ruolo importante nel ripristinare la biodiversità nell’agricoltura e nella produzione di varietà vegetali più resistenti al mutamento delle condizioni ambientali territoriali alla luce del cambiamento climatico.
La Via Campesina e le organizzazioni che la compongono lottano per ottenere una modifica degli accordi commerciali di libero scambio in cui chi controlla è un’oligopolio commerciale e finanziario composto da WTO, Banca mondiale, FMI e dalle multinazionali che influenza i governi dei Paesi, in particolare di quelli meno potenti che per rispettare le regole internazionali pregiudicano il benessere delle proprie popolazioni. A questo si unisce la lotta contro la dominazione dei sistemi alimentari ed agricoli da parte delle multinazionali e contro l’uso incontrollato di tecnologie e pratiche distruttive dell’ambiente e dei gruppi umani (prodotti transgenici, acquacoltura industriale, pesca distruttiva, agricoltura industriale e meccanizzata, monoculture industriali per gli agrocarburanti ed altre piantagioni, sequestro di terre, etc.).
L’approccio della sovranità alimentare è fortemente critico verso il progetto neoliberista globalizzato e spinge a concentrare l’attenzione sul tema della governance internazionale del cibo e dell’agricoltura e sulle cause politiche della fame e delle malnutrizione. In tal modo incoraggia una discussione sullo spazio politico che deve esistere per permettere la creazione di politiche nazionali volte a ridurre la povertà ed eliminare la fame e la malnutrizione che si oppongano a politiche internazionali basate esclusivamente sulla deregolamentazione dei mercati. Le chiavi per ridurre la fame e la povertà rurale sono dunque individuate nella de-mercificazione del cibo e della riproduzione sociale e in una maggiore attenzione verso lo sviluppo locale rurale, dal momento che secondo le previsioni, anche nei decenni a venire la maggior parte dei poveri vivranno nelle aree rurali. L’approccio della sovranità alimentare rappresenta in tal senso un importante contributo alla discussione sulla questione alimentare che si origina dalle voci e dai bisogni di coloro che quotidianamente combattono la fame e la malnutrizione. Sovranità e diritto al cibo sono ridefiniti nella prospettiva delle comunità locali attraverso il riconoscimento sostanziale dei diritti locali, indigeni e comunitari al controllo delle risorse – terra, semi, acqua, credito, mercati, saperi – per la produzione di cibo e alla definizione delle proprie scelte alimentari.
La sovranità alimentare si propone come un approccio per riformare i sistemi alimentari locali, del Sud come del Nord del mondo, mettendo innanzitutto in discussione il paradigma neoliberista, alla base del modello agro-alimentare dominante, industriale, produttivista, monoculturale, estensivo, ad alto contenuto tecnologico (con uso di OGM), orientato all’esportazione, incorporato nelle catene di trasformazione e commercializzazione su larga scala controllate dalle global corporations agro-alimentari. I sistemi di produzione alimentare contadini, di tipo familiare, tradizionali, su piccola scala, sono indicati come le alternative da tutelare e promuovere, attraverso riforme agrarie, sostegni diretti, subordinati alla transizione verso pratiche agro-ecologiche e sostenibili, e poi con la protezione dei mercati locali, contro il dumping di prodotti importati, garantendo prezzi stabili e remunerativi attraverso le forme di organizzazione di mercato a filiera corta, di Green Public Procurement, le diverse “reti agroalimentari alternative”, che coinvolgono insieme produttori, consumatori e a volte attori istituzionali – gli AMAP in Francia (Associations pour le Mantien de l’Agricolture Paysanne), le CSA (Community Supported Agriculture) o la Community Food Security Coalition negli USA e in Canada, i Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) e i Distretti di Economia Solidale (DES) in Italia. In essi, alla domanda di “cibo di qualità” sono spesso associati obiettivi di sviluppo, interessi ecologico-ambientali, bisogni di socialità.
- Si vedano Sklar H., a cura di, Trilateralism. The Trilateral Commission and élite planning for world management, South End Press, Boston, 1980; Gill S., American hegemony and the Trilateral Commission, Cambridge University Press, Cambridge, UK, 1990.[↩]
- Nozick R., Anarchy, state and utopia, Basic Books, New York, NY, 1974.[↩]
- Friedman M., Capitalism and freedom, The University of Chicago Press, Chicago, IL, 2002 (1962):82.[↩]
- La caratteristica principale dell’ideologia ordoliberista è quella di essere una proposta sociale, politica ed economica che si presenta come una “terza via” centrista tra il liberismo e l’economia pianificata. L’ordoliberalismo non presume che l’uomo sia tutto calcolo. Il pensiero ordoliberista si struttura attorno al concetto di ordine: inteso sia come ordine di mercato sia come regole del gioco capitalista. Con l’ordoliberismo, non si tratta di limitare, ma in un certo senso di ampliare l’intervento statale e di trasformare lo Stato in impresa per estendere e rafforzare la logica e i meccanismi del mercato, trasformare la società in mercato, mettere le imprese e le persone in situazioni di concorrenza, svolgere un’azione disciplinare e pedagogica sulle regole del mercato e tutelare ope legis le operazioni del mercato da interferenze di natura politica o sociale – ad esempio, da parte dei sindacati, ma anche dei monopoli, dei cartelli e, in generale, delle concentrazioni di potere all’interno dei mercati causati non da fattori endogeni, ma da politiche di privilegio e di protezione portate avanti da uno Stato controllato da qualche grande gruppo di interesse privato. Lo Stato deve definire un quadro giuridico istituzionale, una vera e propria “costituzione economica” con l’obiettivo di non lasciare alcuno spazio ad un discrezionale interventismo amministrativo che possa disturbare o intralciare la libertà di azione delle imprese e il meccanismo di formazione dei prezzi. Lo Stato deve attivamente creare “a good business environment”, ossia garantire la stabilità monetaria, difendere l’economia dall’inflazione, imporre il pareggio di bilancio, promuovere la concorrenza nel mercato, ma deve anche agire da riequilibriatore per contrastare i fallimenti del mercato e la desocializzazione provocata dal capitalismo attraverso il rafforzamento del ruolo della famiglia, dei piccoli paesi e delle piccole comunità sociali, ad esempio, favorendo l’integrazione del singolo in quartieri con vincoli di vicinato o in organizzazioni di volontariato, in modo da consolidare il senso di appartenenza e di responsabilità verso gli altri. La variante ordoliberista ha permeato profondamente la società tedesca, dando origine alla “economia sociale di mercato” (soziale Marktwirtschaft), che si presenta come una vera e propria utopia, una economia “morale” tesa a dare una risposta alla “questione sociale” e fondata su un mix di spirito imprenditoriale – trasformare i proletari in proprietari, risparmiatori, piccoli imprenditori indipendenti -, valore comunitario e ordine sociale armonico. Ad esempio, prevedendo la codeterminazione tra datori di lavoro e lavoratori e il benessere aziendale, in modo da garantire un certo grado di stabilità e sicurezza ai lavoratori in cambio della rinuncia ad una ridistribuzione ugualitaria. È stata questa impostazione ideologica che ha sostenuto il Germania il Wirtschaftswunder nel dopoguerra, realizzato sotto la direzione politica del democristiano Ludwig Erhard (i cui slogan erano: “Benessere per tutti!” e “La concorrenza prima di tutto”), allievo dell’Università di Friburgo, membro della Mont Pèlerin Society e ministro dell’economia dal 1949 al 1963 e poi cancelliere fino al 1966. L’ordoliberismo è anche divenuta l’ideologia che ha governato la Bundesbank (dalla “svolta monetarista” del 1970), le politiche economiche dell’Unione Europea e la gestione dell’euro da oltre due decenni. L’articolo 3 del Trattato di Lisbona (di fatto una sorta di costituzione dell’Unione Europea) delinea l’obiettivo dell’UE come “un’economia sociale di mercato altamente competitiva” col riconoscimento delle quattro libertà del mercato interno – libertà di movimento delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali – come diritti fondamentali dei cittadini europei.[↩]
- Friedman M., Capitalism and freedom, The University of Chicago Press, Chicago, IL, 2002 (1962):xiv.[↩]
- Le politiche di aggiustamento strutturale sono state implementate nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo dalla metà degli anni ’80. Queste politiche erano costruite intorno a quello che la Banca Mondiale ha definito il trade-based food security policy package (il pacchetto di misure per la “sicurezza alimentare basata sul commercio”). Attraverso di esse la Banca Mondiale e il FMI hanno spinto i Paesi in via di sviluppo ad aprire i loro mercati agricoli ad importazioni a basso costo, fornendo la vecchia raccomandazione economica di concentrare la produzione verso prodotti in cui i singoli Paesi avevano un vantaggio comparativo. Quando la WTO è stata creata nel 1995, le sue politiche nel settore agro-alimentare sono diventate vincolanti per molti Paesi. Tali regole definite dall’Accordo sull’Agricoltura (Agreement on Agriculture) non erano diverse in maniera significativa da quelle precedentemente definite dalla Banca Mondiale e dal FMI. La differenza consisteva solo nel fatto che regole commerciali erano ora fissate in un accordo internazionale vincolante a cui gli Stati aderenti dovevano obbedire per non incorrere in penalità e sanzioni stabilite in precisi termini legali. Dalle questioni relative alla sicurezza alimentare (safety) alla regolazione della protezione della proprietà intellettuale, dai sussidi agricoli al supporto ai prezzi per le principali produzioni, le regole della WTO influenzano profondamente il quadro delle politiche agro-alimentari nazionali e internazionali. L’implementazione di queste regole ha portato all’esplosione di numerose “rivolte del cibo” in diversi Paesi del Sud del mondo causate dagli aumenti dei prezzi degli alimenti di base di cui questi Paesi sono diventati nel tempo da produttori produttori, soprattutto grazie alla liberalizzazione del mercato dei prodotti agricoli.[↩]
- Uno dei maggiori problemi connessi con l’Agreement on Agriculture del WTO è lo squilibrio che esso ha creato nel livello di obbligo di liberalizzazione per i diversi gruppi di Paesi. In particolare, i Paesi in via di sviluppo sono stati spinti ad aprire i loro mercati dopo il 1995, e i loro piccoli produttori si sono trovati quindi a competere con le esportazione sussidiate provenienti dai Paesi industrializzati. L’ammontare dei sussidi forniti all’esportazione permette ai Paesi industrializzati di vendere i loro prodotti ad un prezzo più basso del costo di produzione (dumping). Questo meccanismo ha spinto gli agricoltori più poveri dei Paesi in via di sviluppo in una condizione di estremo svantaggio competitivo ed ha un impatto fortemente negativo sulla produzione locale e familiare. Infatti, nella maggior parte dei Paesi poveri, gli agricoltori, che hanno un accesso limitato ai fattori di produzione (come le strutture di supporto, il credito, la terra e l’acqua, i semi, i capi di bestiame e i fertilizzanti), si trovano spesso a competere con i produttori agricoli dei Paesi industrializzati. Come risultato i contadini stanno scomparendo o si trovano ad affrontare condizioni di vita estremamente difficili, perché i loro prodotti non sono in grado di competere sul mercato globale, e neppure di nutrire le loro comunità.[↩]
- L’ Accordo sulla Proprietà Intellettuale (Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Right) della WTO richiede che tutti i membri dell’organizzazione rendano effettiva la legislazione sulla protezione delle varietà vegetali attraverso brevetti o altri sistemi di protezione della proprietà intellettuale allo stesso livello dei Paesi più avanzati. Il sistema dei diritti di proprietà intellettuale fornisce alle compagnie multinazionali che hanno la capacità tecnica e la possibilità economica di comprare brevetti un privilegio monopolistico e costituisce un ulteriore ostacolo alla diffusione della conoscenza, della tecnologia, delle sementi e delle varietà animali tra piccoli coltivatori.[↩]
- Lefebvre H., Il diritto alla città, Ombre Corte, Verona, 2014.[↩]
- In effetti, l’Unione Europea è diventato uno degli attori principali non solo contro il global warming, ma anche per arginare l’inquinamento da plastica e migliorare la qualità dell’aria che si respira. È stata la forza che ha condotto in porto gli Accordi di Parigi nel 2015 sul taglio delle emissioni di gas serra. Per un Paese come l’Italia, ad esempio, l’Unione Europea è stata un fattore di cambiamento decisivo per la tutela ambientale. Senza la UE la città di Roma porterebbe i rifiuti ancora in discarica, mentre Milano non avrebbe costruito nel 2002 il suo depuratore per le acque reflue. Le multe della UE per decine di milioni di euro stanno costringendo a realizzare altri depuratori in 91 aggregati urbani e a bonificare 80 discariche abusive. Per evitare altre sanzioni si dovrebbe chiudere il ciclo dei rifiuti in Campania, smettendo di spedire al Nord l’immondizia, e migliorare la qualità dell’aria che respirano i 20 milioni di italiani che vivono nella Pianura Padana. Questo in misura diversa vale per tutti i Paesi europei. Senza l’UE non ci sarebbero politiche ambientali nazionali. Due direttive antiplastica impongono entro il 2025 almeno il 25% di plastica riciclata e mettono al bando il monouso (cannucce, piatti, posate, etc.). Sulle emissioni di CO2 si avanza più lentamente perché le potenti lobby dei petrolieri, gasisti e carbonari resistono al cambiamento. Negli ultimi 20 anni, l’Unione Europea è riuscita a ridurre le emissioni di circa il 20%, quasi un 1% all’anno. Da oggi al 2030 si dovrebbero ridurre di un altro 20%, ossia del 2% all’anno.[↩]
- Ad esempio, basta guardare i drammatici impatti che ha avuto l’accordo NAFTA (entrato in vigore il 1° gennaio 1994) sull’agricoltura messicana negli ultimi 27 anni. Originariamente, il NAFTA escludeva i beni agricoli, ma sono stati inclusi per l’insistente richiesta del governo messicano che voleva “modernizzare” i suoi contadini trasferendoli dall’agricoltura ai circuiti urbani dell’industria. È bene ricordare che in Messico il NAFTA fu accolto da una rivolta armata: i ribelli contadini indigeni (popolazioni Tzotzil, Tzeltal, Ch’ol e Tojolabal) dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), con il volto coperto da bandane e passamontagna, occuparono alcune città del Chiapas, nel sud del Paese. Il loro leader, il subcomandante Marcos, definì l’accordo una condanna a morte, perché avrebbe distrutto l’economia agricola del Paese, costringendo il Messico a dipendere dalle importazioni dagli USA e facendo aumentare le disuguaglianze tra ricchi e poveri. Dopo 27 anni, mentre il movimento zapatista ha consolidato forme di autogoverno comunitario in gran parte del Chiapas (con un proprio sistema sanitario e di educazione, così come proprie pratiche di produzione basate sulla proprietà collettiva delle terre e sul lavoro collettivo), l’economia messicana è molto cambiata, soprattutto al nord, e si è formata una nuova classe media. Ma, alcune delle tesi degli zapatisti si sono dimostrate corrette. Il settore agricolo, concentrato nelle regioni meridionali a maggioranza di popolazione indigena, è stato pressoché distrutto dal calo dei prezzi imposto dalle importazioni dei prodotti dell’agricoltura intensiva americana. Città, villaggi e campesiños che vivevano grazie alla vendita dei prodotti agricoli hanno visto crollare i loro mercati e, in molte zone, l’economia criminale imposta dai narcotrafficanti ha preso il sopravvento. Tra il 2001 e il 2008, l’occupazione agricola in Messico è diminuita da 10,7 milioni a 8,6 milioni di persone. Molti sono andati in città per lavorare nell’industria pesante o nelle fabbriche delle maquiladoras gestite da compagnie straniere, vicino al confine. Altri hanno varcato la frontiera e sono diventati parte della manodopera priva di documenti dell’America. In meno di 10 anni, il numero dei clandestini messicani negli Stati Uniti è aumentato del 144%, passando da 4,8 milioni nel 1993 a 11,7 milioni nel 2002. Allo stesso tempo, l’economia messicana dipende totalmente dagli Stati Uniti. Mentre le comunità agricole indigene faticano a sopravvivere, il Paese importa pollame, formaggi e granoturco dal vicino nord. Il mais è stato dapprima addomesticato in quello che è oggi il Messico, diffondendosi in tutte le Americhe come coltura base delle civiltà indigene. Resta il cibo principale dei messicani. Il NAFTA ha inondato il mercato messicano di mais OGM americano, mettendo fuori dal mercato gli agricoltori messicani che utilizzano metodi preindustriali e semi “antichi”. Questa dipendenza ha reso i messicani anche una delle popolazioni più obese del pianeta (il 73% dei messicani è considerato sovrappeso), perché ora consumano in massa cibo spazzatura che viene dagli USA. Circa il 29% dei bambini messicani tra i 5 e gli 11 anni risulta sovrappeso, così come il 35% dei giovani tra gli 11 e i 19 anni, mentre un bambino su 10 in età scolare soffre di anemia. Lo Stato meridionale di Oaxaca ha vietato la vendita di bevande zuccherate e snack ad alto contenuto calorico ai bambini, una misura volta a frenare l’obesità (agosto 2020). La Federazione messicana del diabete afferma che oltre il 7% della popolazione messicana ha il diabete, che è ora la terza causa di morte più comune in Messico, direttamente o indirettamente. Inoltre, il NAFTA ha contribuito a produrre una classe di miliardari formata da una ventina di “grandi famiglie” legate al potere politico e ha creato 53 milioni di poverissimi, per i quali l’unica soluzione è emigrare in massa negli USA e mandare i soldi a casa alle loro famiglie impoverite.[↩]
- Le grandi quantità d’acqua utilizzate per l’irrigazione dalle grandi aziende che applicano il modello dell’agricoltura industriale, oltre a ridurre drasticamente le riserve idriche, peggiorano la qualità dei suoli e ne riducono la fertilità. Gli effetti più gravi riguardano in particolare la progressiva salinizzazione dei terreni, la riduzione progressiva della resistenza all’erosione e della capacita di trattenere e scambiare i nutrienti con le piante e infine la minore capacità di trattenere l’acqua. A questi problemi l’attuale modello risponde con una maggiore quantità di fertilizzanti e antiparassitari. Insomma un vero e proprio circolo vizioso.[↩]
- La Rivoluzione Verde, che si riferisce agli sviluppi nella selezione delle piante tra gli anni ’60 e ’80 che hanno migliorato i raccolti delle principali colture di cereali, è ritenuta da alcuni sostenitori della sicurezza alimentare come una storia di successo nell’aumento dei raccolti e nella lotta alla fame nel mondo. Ma, la politica si è concentrata principalmente sulla ricerca, sviluppo e trasferimento di tecnologia agricola, come semi ibridi, fertilizzanti e pesticidi, attraverso massicci investimenti pubblici e privati che hanno trasformato l’agricoltura in un certo numero di paesi, a cominciare da Messico e India. Tuttavia, molti nel movimento per la sovranità alimentare sono critici nei confronti della Rivoluzione Verde e accusano coloro che la sostengono di seguire oltre misura un programma tecnocratico della cultura occidentale che non è in contatto con le esigenze della maggioranza dei piccoli produttori e contadini. Sebbene la Rivoluzione Verde possa aver prodotto più cibo, la fame nel mondo continua – ci sono almeno 850 milioni di persone che soffrono la fame – perché non ha affrontato i problemi di accesso. I sostenitori della sovranità alimentare sostengono che la Rivoluzione Verde non è riuscita ad alterare la distribuzione altamente concentrata del potere economico, in particolare l’accesso alla terra e il potere d’acquisto. I critici sostengono anche che l’aumento dell’uso di erbicidi da parte della Rivoluzione Verde ha causato una diffusa distruzione ambientale e una riduzione della biodiversità in molte aree. Il fatto è che la fame e la malnutrizione non sono causate oggi dalla mancanza o dalla scarsità di cibo, bensì dall’impossibilità di accedere al cibo (a causa della sua iniqua distribuzione), ad un’adeguata retribuzione economica, e alle risorse produttive che permetterebbero anche alle popolazioni più povere di produrre o comprare cibo a sufficienza. Metà della popolazione affamata del mondo è costituita da contadini che vivono di quanto riescono a produrre in piccoli appezzamenti di terreno, senza un adeguato accesso alle risorse produttive necessarie (come l’acqua, i nutrienti per il terreno, i semi di buona qualità). Nel corso del tempo essi sono stati progressivamente spinti ad occupare aree marginali e è stato loro intenzionalmente consentito di possedere solo piccoli appezzamenti di terreno, troppo piccoli per raggiungere l’autosufficienza alimentare. Due terzi di loro, quindi, abitano e lavorano in condizioni ambientali difficili, su terreni scoscesi o minacciati dalla siccità e da altri disastri naturali (allagamenti, frane, etc.). Inoltre, il 22% degli affamati nel mondo sono famiglie che non possiedono neppure la terra e vivono di quanto riescono a guadagnare in condizioni di lavoro molto precarie come manodopera agricola; mentre un altro 8% fa parte di comunità di pescatori, cacciatori o allevatori. La loro condizione è aggravata dal fatto che le forze che guidano le politiche agricole e alimentari a livello internazionale e nazionale, sia nell’industrializzato Nord che nel vasto Sud del mondo, sono quelle dell’agricoltura industriale, dell’allevamento intensivo e della pesca commerciale, e non il bisogno dei piccoli produttori, dei pastori e pescatori di avere accesso alle risorse produttive.[↩]
- Gli allevamenti industriali hanno permesso di produrre carne e derivati animali, come latte e uova, in quantità maggiori a prezzi più bassi, ma comportano una miriade di effetti negativi: un uso smodato di antibiotici per gli animali. (i medici sono molto preoccupati per la prossima crisi sanitaria provocata dallo sviluppo della resistenza agli antibiotici); la sottrazione di terreni all’agricoltura per produrre mangimi (oltre un terzo delle terre arabili del modo sono destinate a produrre soia e mais per gli animali); l’aumento dell’inquinamento delle acque per gli scarichi zootecnici, dell’aria per i particolati, e dell’emissione dei gas serra (la FAO stima nel 14% delle emissioni totali di gas serra provengono dagli allevamenti).[↩]
- La sovranità alimentare è nata in risposta alla disillusione degli attivisti per la sicurezza alimentare, il discorso globale dominante sull’approvvigionamento e la politica alimentare. Quest’ultimo enfatizza l’accesso a un’alimentazione adeguata per tutti, che può essere fornita dal cibo del proprio Paese o dalle importazioni globali. In nome dell’efficienza e di una maggiore produttività, è quindi servito a promuovere quello che è stato definito il “regime alimentare aziendale”: un’agricoltura aziendale industrializzata e su larga scala basata sulla produzione specializzata, la concentrazione della terra e la liberalizzazione degli scambi. I critici del movimento per la sicurezza alimentare affermano che la sua disattenzione per l’economia politica del regime alimentare aziendale lo rende cieco agli effetti negativi di quel regime, in particolare la diffusa espropriazione dei piccoli produttori e il degrado ambientale globale. La sovranità alimentare va oltre il concetto di sicurezza alimentare che significa che tutti devono avere la certezza di avere abbastanza da mangiare ogni giorno, ma non dice nulla sulla provenienza di quel cibo o sul modo in cui viene prodotto. La sovranità alimentare include il sostegno ai piccoli proprietari terrieri e alle aziende agricole di proprietà collettiva, alla pesca, etc., piuttosto che industrializzare questi settori in un’economia globale minimamente regolamentata. La sovranità alimentare deve essere intesa come una piattaforma per la rivitalizzazione rurale a livello globale basata su un’equa distribuzione dei terreni agricoli e dell’acqua, il controllo degli agricoltori sulle colture e le fattorie produttive su piccola scala che forniscono ai consumatori cibo sano e coltivato localmente.[↩]
- Il Diritto al Cibo è stato sancito dalla Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 che recita all’articolo 25.1: “Everyone has the right to a standard of living adequate for the health and well-being of himself and of his family, including food”. Tale diritto è stato poi incluso nei Patti sui Diritti Economici, Sociali e Culturali del 1967, all’articolo 11.2: “The States Parties to the present Covenant, recognizing the fundamental right of everyone to be free from hunger”. Il fatto stesso che questo bisogno sia caratterizzato come diritto permette una tutela individuale, garantita dal Diritto Internazionale, e dà origine ai relativi obblighi da parte dello Stato di soddisfare il bisogno e tutelare il diritto. In questo senso l’affermazione dell’esistenza di un Diritto al Cibo conferisce potere alle comunità più povere e agli individui nei confronti dello Stato e degli altri attori della scena internazionale. Il Diritto al Cibo rientra, però, tra i diritti specificati nei Patti sui Diritti Economici, Sociali e Culturali che, tra i diritti umani, hanno finora ricevuto minore attenzione in termini di giustiziabilità e il loro utilizzo è stato relativamente limitato e recente nelle Corti.[↩]
- Nell’aprile 2008 l’International Assessment of Agricultural Science and Technology for Development (IAASTD), un panel intergovernativo con il patrocinio dell’ONU e della Banca Mondiale, ha adottato la seguente definizione: “La sovranità alimentare è definita come il diritto dei popoli e degli Stati sovrani a determinare democraticamente le proprie politiche agricole e alimentari.“[↩]
- Nel 2011 più di 400 persone provenienti da 34 paesi europei si sono incontrate dal 16 al 21 agosto a Krems (Austria), per dare forma allo sviluppo di un movimento europeo per la sovranità alimentare. Questi rappresentanti miravano a sviluppare le fondamenta del Forum per la Sovranità Alimentare del 2007. Gli obiettivi erano rafforzare il coinvolgimento locale, costruire un obiettivo comune e comprensione, creare un’agenda comune per l’azione, celebrare la lotta per la sovranità alimentare in Europa e ispirare e motivare persone e organizzazioni a lavorare insieme. Il forum del 2011, organizzato sui principi della partecipazione e del processo decisionale consensuale, ha sottolineato l’inclusione delle popolazioni emarginate nella discussione. Il forum ha consentito agli agricoltori e agli attivisti di progetti in tutta Europa di condividere competenze, coordinare azioni e discutere prospettive. Il forum è culminato nella dichiarazione Nyéléni Europe. Dal 2011 sono continuati gli incontri e le azioni a livello europeo, inclusa la Good Food March, in cui cittadini, giovani e agricoltori si sono riuniti per chiedere una politica agricola più equa in Europa, affrontando le preoccupazioni climatiche e la riforma democratica della Politica Agricola Comune (PAC) europea. L’ultimo forum di Nyéléni Europa si è tenuto nel 2016 a Cluj-Napoca, in Romania. Uno degli obiettivi principali era quello di consolidare i movimenti per la sovranità alimentare nell’Europa orientale e in Asia centrale, rafforzando la capacità dei contadini dei paesi di queste regioni a sostenersi a vicenda.[↩]
- A Genova nel luglio 2001 per giorni nei seminari e negli incontri pubblici, oltre che di sovranità alimentare e agricoltura contadina, si parlò della crisi del debito pubblico e dei possibili rimedi, di una tassa sulle speculazioni finanziarie, dello strapotere di Banca Mondiale, FMI e WTO, di diritto d’espatrio e di migrazioni, di guerre incombenti, dell’acqua come bene comune e di esclusione dei brevetti dai farmaci essenziali per affrontare le malattie epidemiche.[↩]
- Nel settembre 2008, l’Ecuador è diventato il primo Paese a sancire la sovranità alimentare nella sua Costituzione. Alla fine del 2008, è stata elaborata una legge per ampliare la disposizione costituzionale vietando gli OGM, proteggendo molte aree del Paese dall’estrazione di risorse non rinnovabili e scoraggiando le monocolture. La legge così redatta protegge anche la biodiveristà come proprietà intellettuale collettiva e riconosce i Diritti della Natura. Da allora Venezuela, Mali, Bolivia, Nepal e Senegl e, più recentemente, l’Egitto (Costituzione del 2014) hanno integrato la sovranità alimentare nelle proprie costituzioni o leggi nazionali.[↩]
- A questo proposito, l’anno 2014 è stato dedicato dall’ONU all’agricoltura familiare con lo scopo di valorizzarne l’enorme potenziale nella lotta alla fame e alla preservazione delle risorse naturali; in molti Paesi le piccole aziende agricole e a gestione familiare rappresentano l’80% del totale delle aziende agricole. Valorizzare però non è una condizione sufficiente per facilitare il superamento delle difficoltà di entrare in un mercato competitivo che non sempre tiene conto delle specifiche esigenze delle piccole realtà produttive. Il riconoscimento dell’importanza dell’agricoltura familiare necessita anche di politiche agricole e accordi giuridici e commerciali in grado di creare le condizioni adeguate perché i piccoli contadini possano sopravvivere e creare opportunità di crescita sociale ed economica nelle loro comunità di appartenenza.[↩]
- Paradossalmente, anche i Paesi ricchi convivono, in modo non sempre consapevole, con un cibo che di “sano, nutriente e culturalmente appropriato” in molti casi ha ben poco. Infatti, le politiche agricole nazionali o internazionali incentivano l’agricoltura industriale a scapito di quella familiare; il cibo industriale viene venduto come sano, ma nel senso di igienicamente pulito, sterilizzato, quasi asettico, convincendoci, abituandoci al cibo “sicuro”; anche il packaging e le etichette rispondono più a logiche estetiche e di marketing (cioè comunicazione finalizzata alla vendita) che informative o conoscitive, senza contare i problemi ambientali di smaltimento degli imballaggi; il cibo di bassa qualità, come quello dei fast food, detto anche junk food è una delle cause dell’incremento di problematiche come obesità, diabete e malattie cardiovascolari; infine, ma non da ultimo, lo spreco di cibo (prima e dopo essere arrivato alla tavola) – circa il 30% di tutto quello prodotto, uno dei più eclatanti paradossi del problema della fame – è tale da diventare una campanello d’allarme su qualcosa che non può certo continuare a funzionare così.[↩]
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