Dakar: risultati del tampone per il Covid-19 entro 24 ore, hotel riconvertiti in unità di quarantena, un progetto all’avanguardia per sviluppare ventilatori a basso costo, campagne di sensibilizzazione estese a livello comunitario, distributori di igienizzante diffusi. Stando alla classifica stilata da Foreign Policy, il Senegal è al secondo posto al mondo come risposta alla pandemia, dietro alla Nuova Zelanda. Un risultato che non è merito del caso, ma viene dal passato.
Il 29 agosto del 2014 uno studente della Guinea Bissau attraversa in macchina la frontiera del Senegal. È un inconsapevole portatore di ebola. Dopo averlo intercettato e testato, grazie alle informazioni fornite da Bissau, le autorità di Dakar decidono di applicare un protocollo di sicurezza senza precedenti. Frontiere aeree e terrestri chiuse, tracciamento di eventuali persone venute in contatto con lo studente, assistendole inoltre con denaro, cibo e consulenze, e il più totale riserbo sull’identità del paziente. Dopo 42 giorni, l’organizzazione mondiale della sanità dichiara, complimentandosi, il Senegal “ebola free”.
È con questa esperienza alle spalle, e quella della lotta per fermare la diffusione dell’Hiv, che quando il 2 marzo del 2020 il Paese registra il primo caso di Covid-19, attiva i suoi protocolli per il contenimento del virus. Nell’arco delle tre settimane successive, Dakar decide di posticipare l’inizio del campionato di basket, impone il divieto di attraccare alle navi da crociera, cerca di trovare un accordo con i rappresentanti religiosi per la sospensione delle celebrazioni, chiude le scuole e restringe al minimo gli accessi aerei. Un iter che porta al 23 marzo, giorno in cui il Presidente senegalese, Macky Sall, impone lo stato di emergenza e il coprifuoco. “Se continueremo a fare finta di nulla il virus si diffonderà ancora di più e in modo più aggressivo”: questa la sintesi del suo discorso.
Dakar giunge a misure simili a quelle italiane meno di due settimane dopo, anche se non si parlerà mai di un vero e proprio lockdown. Ma mentre in Italia i casi totali il 9 marzo, il giorno precedente alla decisione di dichiarare l’intero Paese zona rossa, raggiungevano quota 9.172 e i morti erano già 463, in Senegal, nel giorno delle restrizioni, si contavano 79 casi e nessun decesso. Paesi diversi, situazioni diversi, certo, ma un certo parallelismo si può ritrovare nella distribuzione dei casi. Come in Italia le zone più colpite erano due regioni, il Veneto e la Lombardia, in Senegal la zona più a rischio era, ed è, quella di Touba. Circa un terzo dei contagiati si trovava infatti in quella che è la città santa della confraternita Mourid (un culto sufi musulmano originario del Senegal). Un’area gestita e amministrata dai clerici che talvolta non rispondono all’autorità dello Stato.
Ed è infatti il dialogo con i religiosi uno dei primi punti che la Presidenza di Sall ha cercato di mettere in piedi. In Senegal l’autorità delle confraternite è fuori discussione. Tanto importante da potersi definire Stato parallelo. In questo senso i clerici hanno risposto, in modo diverso, ma con una generale celerità e impegnandosi nella sensibilizzazione e nella diffusione di notizie. Durante i mesi di coprifuoco non sono però mancati i casi di scontri con manifestanti in piazza per la scelta di imporre restrizioni anche alle funzioni religiose – come nel caso di Yoff, quartiere di Dakar.
La velocità con cui ha agito Dakar è stata fondamentale. Secondo le opinioni di diversi esperti il sistema sanitario del Senegal è fragile. Il rapporto tra numero di medici per mille abitanti è di 0,06, mentre sullo stesso numero sono disponibili appena 0,3 posti letto ospedalieri. E questi dati, se considerati nel tempo, comunque mostrano un rafforzamento rispetto al passato, dove gli investimenti sulla sanità pubblica erano nettamente inferiori a quelli privati.
Centrale per il contenimento del virus è stato, ed è tuttora, il COUS, il centro delle operazioni per le emergenze sanitarie, un’organizzazione che coordina le risposte d’emergenza, già entrata in azione nel 2014 con ebola. Il COUS, emanazione del ministero della Sanità, ha nelle prime settimane implementato i posti letto negli ospedali, creato luoghi di quarantena riconvertendo hotel e organizzato cliniche e laboratori mobili per arrivare laddove la carenza di personale sanitario era endemica, come le zone rurali o le province più povere. Un’azione tempestiva, ma che comunque non sarebbe riuscita se fosse stata limitata alla cosa pubblica.
Il coinvolgimento dal basso è stato fondamentale. Diverse associazioni presenti sul territorio hanno lavorato per la sensibilizzazione e la distribuzione di materiale sanificante. È il caso della “Rete delle Bajenus Gokh” (“Zie di quartiere” in lingua Wolof), un’associazione di donne operante a Dakar e in altre città del Senegal che in passato si è occupata di sensibilizzare su educazione sessuale, HIV, assistenza domestica e vaccinazioni. Vista la fiducia che il gruppo aveva acquisito sul campo il ministero della Sanità e dell’azione sociale ha deciso di sviluppare dei programmi coordinati anche sul Covid-19. Ma questo non è l’unico caso. Alla scuola politecnica di Dakar un gruppo di studenti, ricercatori e professori hanno sviluppato un robot, Dr. Car, capace di misurare pressione e temperatura ai pazienti, in modo da limitare i contatti tra personale medico e contagiati. Un impegno trasversale, che ha toccato anche i privati. La casa di moda senegalese Touty ha poi lanciato prontamente uno slogan, “Un/una senegalese, una mascherina”, e un progetto per diffonderne il più possibile l’uso.
Nel parcheggio davanti alla spiaggia di Ngor, controllata dalla gendarmeria perché vietato accedervi, sostano diverse persone. “No, il coronavirus non ci può fare nulla, noi siamo più forti”, l’uomo di mezza età aspetta il proprio turno davanti alla piccola panetteria di quartiere, non indossa la maschera. Come lui in molti non credono nel coronavirus, oppure tendono a mitigarne la pericolosità. La prova che un misto di fake news e informazioni parziali persistono comunque nel Paese. Eppure anche su questo punto molto è stato fatto. A metà marzo il Governo ha infatti emanato una legge draconiana sulla diffusione di fake news. Chi viene scoperto a diffondere notizie false che mettono in pericolo la comunità rischia da 1 a 3 anni di carcere, oltre a una sanzione pecuniaria molto elevata. Anche se nell’effettivo pochi sono stati coloro che hanno subito realmente un giudizio finale, i procedimenti avviati hanno avuto un effetto deterrente. Ma come nel caso della sensibilizzazione, anche, e soprattutto in questo, la legge da sola non poteva bastare.
Ad esempio, dopo la notizia circolata a metà aprile in tutta l’Africa Occidentale, e anche in Europa, di 7 bambini morti a causa dell’iniezione di un vaccino per il Covid-19, per evitare derive istituzioni e privati si sono mossi prontamente creando tra le varie cose l’app Allerte Santé Senegal, fornita di news, statistiche, numeri diretti a laboratori e ospedali, e il forum Sunucity, sviluppato dal politecnico di Dakar.
Dalla tecnologia alle arti visive: molti sono scesi in campo per promuovere una comunicazione semplice e diretta a tutti, anche a chi non ha un accesso internet. È il caso dei graffiti. Arte diffusa in tutto il Senegal che trova a Dakar il suo centro. Il primo aprile sui muri dell’università di Fann e su quelli dell’ospedale di Guadiawaye sono apparsi diversi murales che raffigurano artisticamente la realtà durante la pandemia e promuovono l’utilizzo di maschere, gel sanificante e distanza fisica. Ovvero un corretto comportamento sociale per fronteggiarla.
Ed è così che arriviamo a oggi. Il Senegal conta più di 14mila casi, oltre 10mila guariti, quasi 300 decessi e un trend che si attesta sui 30 nuovi contagiati al giorno. Una situazione non certo rosea, ma che senza gli interventi fatti avrebbe potuto degenerare, come in altri Paesi del mondo. A riprova ci sono i dati diffusi dalla ricerca fatta da People and Data. Stando alle percentuali, tutto il lavoro di sensibilizzazione e campagna mediatica ha portato l’83% delle persone a indossare regolarmente le mascherine, e l’80% della popolazione ha seguire le notizie della diffusione del virus tramite i media ufficiali.
Oggi la sfida si espande e abbraccia altri temi. Le conseguenze sociali ed economiche sono infatti enormi. La prima categoria a essere investita è quella delle donne. Stando ai dati forniti dal Ministero della donna, della famiglia e dello sviluppo sociale sul suo sito, prima delle restrizioni il 60% delle donne in Senegal aveva subito violenza di genere. Oggi quel dato potrebbe essere ancora più alto. “È una delle mie più grandi preoccupazioni. Abbiamo una situazione in cui intere famiglie sono state rinchiuse e bloccate nelle loro case. Oggi la mancanza di denaro provoca tensioni”, sono queste le parole di Khardiata Ndoye Pouye, dell’ufficio “Diritti delle donne” dell’Ong sudafricana. Spostando il focus su un discorso puramente economico, il 44% delle donne ha risentito della perdita totale delle attività rispetto al 33% degli uomini. Anche se i dati non tengono conto del lavoro informale, bacino forzato di posti di lavoro per le donne.
Ma la crisi abbraccia più categorie, travalicando i confini di genere. In generale tutta l’economia senegalese ha risentito in modo massivo della perdita della stagione turistica. Senza considerare tutta la parte sommersa e informale collegata a essa, il settore alberghiero e della ristorazione hanno perso complessivamente circa 150 milioni di euro, mentre trasporti e commercio più di 160. A completare un quadro in cui gli interventi del Governo sono stati relativamente pochi, c’è il calo del 30% delle rimesse, che rappresentano il 10% del Pil della nazione.
Una situazione quindi a livello di guardia, e in questa condizione di crisi la corruzione – che negli ultimi anni era migliorata, raggiungendo il 66° posto al mondo per percezione (dati di Transparency) – potrebbe riacutizzarsi. Il rischio è che in una situazione di fragilità complessiva il Senegal possa trovarsi impreparato sul mercato, cedendo a interessi stranieri e privati. In questo senso, per motivi diversi, Pechino e Parigi sono attenti osservatori del continente africano, e in particolar modo del Senegal. Il primo ha una lunga storia coloniale e di penetrazione economica nel Paese, mantenendo da sempre stretti legami politici con lo stesso. Il secondo è invece un suo fresco creditore, e suo primo investitore. Nonostante in passato la Cina abbia puntato più sull’Africa Orientale e su quella australe, come dimostrano i debiti contratti dai vari Paesi, l’accordo con Dakar sulla beat road del 2018 è un passo importante e unico nella regione. Le nuove esigenze sanitarie potrebbero quindi portare Pechino a puntare ancora di più su Dakar e sugli investimenti infrastrutturali del Senegal.
Il prezzo di tutto ciò potrebbe essere pagato dall’ambiente. Dakar è il centro di una già dilagante speculazione edilizia e i nuovi progetti della città e del Paese non lasciano presagire un’inversione di tendenza. Le autorità hanno infatti programmato la costruzione di un nuovo porto a Sud della città e nuove arterie ferroviarie per facilitare il trasporto delle merci. Piani di sviluppo che, se da una parte risolvono problemi legati al traffico o puntano alla crescita del Paese, in realtà non ne garantiscono uno sviluppo omogeneo. A dimostrazione di ciò la crisi di un settore trainante come quello ittico, causata dalle flotte di pescherecci cinesi al largo delle coste, che depauperano il fondale e aree che storicamente erano sempre state di pesca senegalese, per cui nessuno fa niente.
In un circolo vizioso, da questo tema dipende la pace sociale. Fino a oggi Dakar è stata sempre considerata un’eccezione in una regione sconvolta dai problemi legati al banditismo, allo jihadismo, alla desertificazione e all’instabilità politica ed economica. Insieme a Ghana e Costa d’Avorio, era considerata uno dei tre motori dell’Africa Occidentale. La pandemia e gli effetti economici connessi a essa, se non affrontati in modo estensivo e comunitario, potrebbero minare alle basi quanto è stato creato con impegno fino a oggi, dando un’ulteriore spinta all’emigrazione e quindi alla perdita irreparabile di capitale umano necessario alla stabilità della nazione.
Articolo di Davide Lemmi Marco Simoncelli, già pubblicato su thevision.com