Alla conferenza stampa di presentazione, della manifestazione contro tutte le guerre del 5 novembre, ad un certo punto è emerso un elemento di autocritica: “questa mobilitazione doveva essere lanciata e svolta molto prima”. Assolutamente vero ma di quanto? Ad avviso di chi scrive, questa affermazione dovrebbe considerare una problematicità che ormai sconta quasi 20 anni. Nel 2003 infatti ci fu in Italia e nel mondo quello che venne definito “Oceano pacifico” e che, illusoriamente venne raccontato come un nuovo attore di potenza globale. Quelle grandi manifestazioni rappresentarono nei fatti il canto del cigno, di una tradizione profondamente acquisita nei decenni passati e che era destinata – col senno di poi è semplice dirlo – ad estinguersi. Tanti i fattori di criticità. Nel 2003 c’era un aggressore, gli Usa, un dittatore in cui nessuno si riconosceva, Saddam Hussein, che dominava un popolo aggredito a cui si tentò di offrire, con ogni mezzo, solidarietà. Da allora in poi di conflitti ne sono esplosi molti, alcuni anche più vicini. Eppure, il non aver ottenuto risultati con le precedenti mobilitazioni, la paura della guerra asimmetrica combattuta col terrorismo, il rifiuto verso le persone che da queste guerre fuggivano verso l’Europa hanno portato a ridurre anche l’empatia verso i popoli aggrediti. Le grandi organizzazioni di massa che erano motori organizzativi di tali mobilitazioni, hanno cominciato ad investirci meno, a guardare con timidezza e minore disponibilità all’assunzione di responsabilità verso un movimento contro guerre infinite contro cui non si poteva fare nulla. È passata nella coscienza comune, soprattutto – ma non solo – in Italia, che eliminare con la guerra un dittatore fosse lecito e, perché no, giusto, che se altri popoli volevano lanciarsi e lasciarsi distruggere, bisognava lasciarli fare. L’internazionalismo degli anni Settanta, che portava a creare saldature profonde con gli oppressi, andava mano mano scemando mentre hanno cominciato a prevalere spinte nazionaliste utili ad innalzare muri per difendere il benessere del “Paese” (in realtà dei suoi ceti più abbienti). C’è stata una trasformazione del continente: tranne pochi momenti di solidarietà, come quello iniziale alla diaspora siriana o afghana, è divenuta egemonica che dalla guerra non ci si difende contrastandola ma costruendo una fortezza (Europa) per tenerla lontana.
Non è casuale che se c’è una cosa che è cresciuto in maniera esponenziale e senza alcun tipo di reale contrasto politico, culturale e sociale, è stato l’estendersi di confini blindati, muri, fili spinati, apparati di controllo militare, tanto verso i paesi extra UE quanto all’interno dello stesso spazio europeo. Il respingimento, spesso illegale, è divenuto lo strumento principale con cui affrontare le conseguenze di ogni conflitto, quelle che, in maniera peraltro scarsissima, ricadevano sull’occidente opulento. E questo è uno degli aspetti che hanno favorito – anche grazie ad istituzioni europee pressoché omologate nella logica della chiusura – a modificare sostanzialmente ed in maniera reazionaria, la cultura dominante, il pensiero comune ed egemone. Non serviva, anche se diventa strumento pericoloso, la vittoria elettorale di forze nazional populiste, ma neoliberiste, per rendere ancora più potente tale condizione. Per certi versi i governi che arrivano sono l’effetto e non la causa della crescita di culture e di modelli sociali basati su false mitologie identitarie e di conseguenza reazionarie. Su questo terreno spianato la stessa corsa al riarmo, la trasformazione delle istituzioni nazionali e internazionali in organismi votati all’industria bellica e alla ricerca militare, non hanno incontrato praticamente ostacoli, non sono divenuti motivo di dibattito pubblico, non hanno scalfito la quotidianità della vita. Oggi che la guerra torna ad essere più vicina, che si paventa l’utilizzo dell’arma nucleare superando l’equilibrio basato sulla deterrenza, c’è chi si comincia ad interrogare sulla necessità strutturale di una cultura contro la guerra e per la demilitarizzazione del pianete. Ma questo timore scalda ancora gli animi? L’aggressione russa all’Ucraina e la fase di destabilizzazione che questo ha provocato, ha nei primi tempi, riportato in piazza i volti del passato. Ma si tratta di prese di parola deboli. Non sono sufficienti, a imporre di riportare i contendenti a tavoli di trattative, i sondaggi per cui si dimostra che nei vari paesi UE la contrarietà alla guerra, all’invio di armi, al riarmo, è maggioritaria. Si tratta di una maggioranza, fino ad oggi, quasi silenziosa, che si riconosce negli appelli lucidi di Papa Bergoglio ma poi non va oltre. Pochi gli episodi di disobbedienza civile e questo mentre la gran parte del mondo politico rappresentato nelle istituzioni, giustifica, incentiva, l’invio di armi, emana risoluzioni che diventano come fiammiferi accesi davanti ad un deposito di carburanti, nutrono le popolazioni di propaganda come avviene nei paesi cobelligeranti.
Anni di crisi economica, di impoverimento, di perdita di senso e valore degli spazi democratici, anni in cui è pesata come una cappa di piombo anche la falce della pandemia, hanno contribuito ad allontanare la necessità di affrontare il tema etico e politico dell’espulsione della guerra dalla storia come utopico, marginale, irrealizzabile. Il conflitto in Ucraina fa sentire – e siamo ancora agli inizi – il suo peso, unicamente per la dipendenza energetica o di materie prime, per l’interruzione di molte attività produttive del proprio spazio di esportazione, per un inflazione che sale con conseguente rallentamento dei consumi. Ma ad oggi questo non ha cambiato quasi per nulla il modo di guardare il mondo di gran parte della popolazione di questo continente opulento. L’attenzione principale, ed è comprensibile, va verso la crescita delle diseguaglianze, l’impoverimento di ampi settori di società, l’assenza di reti di protezione sociale o di un welfare degno di questo nome. Non solo in Italia. In Francia si svolgono da tempo grandi mobilitazioni contro il “governo dei ricchi” ma in cui il fattore guerra è poco o per nulla presente. Nella campagna elettorale da poco conclusa, chi ha vinto ha rivendicato puro atlantismo guerrafondaio, lo stesso di chi governava precedentemente e, al di là di una crescita dell’astensione – dovuta in gran parte ad una percezione dell’inutilità di sapersi rappresentati in parlamento o, ad una rassegnazione / rancore di stampo individualista – e la contrarietà alla guerra non ha mietuto consensi. Il M5S che ha riguadagnato quota nelle ultime settimane, soprattutto nel sottoproletariato meridionale, non lo ha fatto perché si è scoperto pacifista – mentre i suoi ministri continuavano a votare la corsa al riarmo draghiana – ma perché ha difeso il solo strumento di difesa sociale prodotto nell’ultimo ventennio, il reddito di cittadinanza, con tutti i suoi limiti. E non ci si lasci cullare dal sogno che questo è accaduto perché, “prudentemente”, i media mainstream hanno messo in secondo piano il conflitto durante la campagna elettorale. Le conseguenze della guerra smuovono gli animi e i portafogli, il conflitto in quanto tale è percepito come roba che riguarda altri, di cui non dobbiamo e non possiamo interessarci.
A questo si aggiungano due fattori che hanno agito in perfetta sintonia. La complessità dei conflitti ha fatto si che i corpi intermedi, ad esempio della società italiana, già da tempo avviluppatisi in una crisi di identità condizionata dal non voler realmente disturbare il libero mercato in quanto manovratore, hanno perso il proprio ruolo sociale di formazione. Sindacati e grandi associazioni si sono indebolite e in tale condizione hanno preferito fermarsi, non riaprire il vaso di Pandora del no alla guerra senza se e senza ma, accontentarsi di incontri liturgici, convegni, dibattiti, anche di alto profilo ma che non ricadevano su una discussione allargata che vedesse partecipi cittadine e cittadini. Il racconto, quando avviene, delle guerre, è complesso e guardato con distacco, le connessioni sentimentali con chi lotta, magari per liberare il proprio popolo da un’oppressione o da una occupazione militare, sono divenute via via sempre più flebili. La loro complessità, la difficoltà di assegnare, come in un B movie, il ruolo del buono e del cattivo, ai diversi contendenti, gli interessi nazionali, hanno fatto prevalere un’idea destinata a produrre metastasi. Non potendo criticare le ragioni profonde e le cause di un conflitto ci si schiera, nelle rare occasioni in cui questo accade, attraverso una rappresentazione embedded e teatralizzata di quanto ci viene raccontato. Agli uomini e alle donne per cui è venuta meno una reale rappresentanza politica, le cui istanze raramente vengono difese dai sindacati, la cui formazione raramente avviene in partiti in cui non si riconoscono o in macro associazioni con finalità definite e rassicuranti, per quale ragione, le persone, dovrebbero sentire l’impulso di lasciare ogni cosa e decidere di scendere in piazza contro una guerra non compresa, contro tutte le guerre che affliggono il pianeta e che spesso sono dimenticate o rimosse? C’è oggi, almeno da noi, una minoranza consapevole che coglie gli infiniti nessi fra la scelta di partecipare ai conflitti e la conseguenza di deprivare, in nome delle spese che ne derivano, i propri concittadini dei diritti essenziali. Ma c’è una maggioranza, forse più grande di quella emersa dalle urne, che non prova neanche ad identificarsi con chi è in mezzo ai missili che esplodono, che li guardano come si guarda un videogioco, che hanno ormai introiettato l’idea che nei “popoli altri” tutto possa accadere. Una distanza infinita rispetto a quanto si è provato durante un conflitto ancora più lontano nello spazio come quello in Vietnam o nelle fasi che offrivano maggiori aspettative delle ribellioni palestinesi all’occupazione israeliana. Oggi la guerra, per quanto esecrabile, appare per i più inevitabile. Ci si approccia ai conflitti con un disperante fatalismo alla stessa maniera con cui si considera il nostro modello di sviluppo, quello che potrebbe portare in poche generazioni, alla distruzione del pianeta, come immodificabile. Non c’è alternativa alla guerra come non c’è alternativa al modello neoliberista, alla fine e le costituzioni che fungono da argine, almeno nei principi, tanto allo strapotere del libero mercato quanto all’utilizzo della guerra come mezzo per risolvere le controversie, sono percepite come lacci. Le superpotenze utilizzano, per eliminare i propri avversari, il terrorismo di Stato e tutto accade senza che questo generi indignazione, rifiuto, tentativi, anche flebili, di protesta. Se non si parte da questo e se non si cercano di riannodare i fili del lavoro certosino compiuto nel secolo scorso da organizzazioni di massa, intellettuali, strumenti di informazione, per rendere valore fondante l’antimilitarismo, il rifiuto a priori della guerra, come dello sfruttamento, difficile immaginare possa nascere qualche antidoto alla drammaticità del presente.
Chi scrive si augura di essere travolto il 5 novembre da una manifestazione oceanica che segni solo il primo passaggio di qualcosa di duraturo e destinato a crescere. E questo nonostante le mille ambiguità con cui si costruisce una piattaforma di mobilitazione atta ad includere e contemporaneamente a scontentare tutte/i. Se un segnale positivo dovesse giungere dal 5, con la partecipazione intergenerazionale ma profondamente segnata dalla presenza dei millennial, allora si potrà ricominciare a discutere e a progettare. Se questo non dovesse accadere e se ci ritrovassimo in un ennesimo momento in cui si ritrovano gli stessi volti stanchi, la stessa ritrosia al confronto, lo stesso bisogno di compatibilità col sistema che ha nelle proprie corde una parte del mondo pacifista, avremo forse momentaneamente sottoposto a lavacro le nostre coscienze, torneremo a casa consolati di aver partecipato. Ma per la pace, come per le conquiste sociali da riprendersi, non è la consolazione che serve e disseta ma la radicalità capace di dissetare e di seminare, quella di cui abbiamo estremo bisogno. Prima che sia troppo tardi.
Stefano Galieni