Al Consiglio Europeo e all’Eurosummit, svoltisi il 16 dicembre 2021, sono stati trattati temi rilevanti, i cui documenti conclusivi potrebbero essere giudicati poco impegnativi. Una siffatta valutazione è per un verso corretta, per l’altro invece rischia di sminuirli nella loro portata. Infatti, tenuto conto del contesto, le Conclusioni del Consiglio Europeo hanno risvolti piuttosto significativi perché si inscrivono nell’alveo di azioni e decisioni che stanno ancora una volta cambiando il volto dell’Unione Europea (UE). Nell’interpretare le vicende dell’UE, e le scelte delle sue classi dirigenti, ho sempre a mente l’avvertimento di Jean Monnet, per il quale l’Europa si sarebbe fatta nelle crisi e che essa sarebbe stata la somma ‘delle soluzioni che saranno date a queste crisi’ (Mémoires, Fayard 1976, p. 488). Anche nelle due ultime crisi, quella della Grande Recessione e quella in corso da COVID 19, l’UE ha intrapreso iniziative economico-finanziarie e tirate su istituzioni – dal Semestre Europeo al MES, al quantitative easing della BCE, al Next Generation EU, per citarne alcune. Oggi il NextGeneration EU e il variegato strumentario in campo economico-finanziario servono per attuare la duplice transizione verde e digitale, elaborata prima della pandemia, che le ha dato un colpo di accelerazione venendo per di più utilizzata da base di legittimazione delle politiche monetarie e fiscali espansive. Queste politiche sono in discontinuità con quelle dell’austerità degli anni della Grande Recessione, volte ai bilanci pubblici in pareggio e alla stabilità finanziaria. Il Temporary Framework, la clausola di salvaguardia che ha messo in mora del Patto di stabilità e crescita (con il via a ingenti aiuti di Stato a imprese, lavoratori e famiglie), il Next Generation Europe, architrave dei Piani nazionali di ripresa e resilienza (PNRR), e gli interventi della BCE per immettere liquidità nel sistema finanziario (a cui ha aggiunto il PEPP), dimostrano che nei fatti è superato l’impianto dei Trattati di Maastricht e di Amsterdam, sulla cui scia prese avvio il Patto di stabilità e crescita. Essi presuppongono una rigida separazione tra politica monetaria, affidata all’indipendente BCE, e quella fiscale lasciata alla competenza degli Stati membri – competenza accentrata poi nelle mani della Commissione e dell’ECOFIN con il Semestre europeo. Ora, per contenere la crisi economico-sociale e avviare un nuovo ciclo di crescita, politica monetaria e politica fiscale vanno a braccetto.
La costruzione del mercato interno europeo è stata guidata da principi ordoliberali, secondo cui il mercato lungi dall’essere un fatto naturale è il prodotto di decisioni politiche, che hanno scandito la nascita della CECA, della CEE, dell’UE. Il mercato, secondo gli ordoliberali, è un costrutto giuridico, che chiede allo Stato di farsi garante del suo funzionamento, impedendo il formarsi di cartelli e monopoli, privati o pubblici, in modo che la concorrenza possa liberamente esplicarsi. La ‘dea concorrenza’ è stata incensata dalla sua vestale, la commissaria Vestager, che l’ha protetta dagli attacchi sia delle imprese monopolistiche sia degli Stati, sempre inclini a sostenere con aiuti e provvidenze i propri campioni nazionali. Oggi anche lei deve fare i conti con la realtà imposta dalla crisi pandemica e dalla strategia della duplice transizione, le quali richiedono interventi pubblici per orientare le scelte di investimento. Margrethe Vestager, nel presentare la Comunicazione sulla politica della concorrenza ha detto che la stretta osservanza della concorrenza è fondamentale per fruire dei benefici del mercato unico, ‘per offrire le soluzioni più innovative ai consumatori’, le sue regole tuttavia devono essere adattate e, infatti, la clausola di salvaguardia sugli aiuti di Sato, lo State aid Temporary Framework, ha permesso di dare il necessario supporto alle imprese durante la pandemia, cosicché l’UE ha adottato più di 670 decisioni per concedere ad esse 3,1 trilioni di euro (Comunicazione del 18 novembre 2021). A questo supporto finanziario si aggiungono i 750 miliardi del Next Generation EU per indirizzare le imprese verso la duplice transizione, e l’impegno dell’UE di potenziare la propria produzione di semiconduttori e di garantire il flusso delle materie prime e dei semilavorati. Sempre la Vestager ha giustificato gli interventi dell’UE e degli Stati membri per superare i ‘fallimenti del mercato’ in campi dove alto è il rischio per gli investimenti privati o dei singoli Stati, portando ad esempio gli IPCEI, in cui prevalente è l’intervento pubblico per stimolare tecnologie di punta.
Ė solo pigrizia intellettuale continuare ad usare a mo’ di slogan categorie come ‘Ordoliberalismo’ per dire che l’UE pratica sempre e solo politiche di bilanci pubblici in pareggio e di protezione del libero esplicarsi della mano invisibile nel mercato, perché essa modifica le sue scelte in funzione delle esigenze delle imprese e della loro capacità competitiva. In questa fase, nell’UE si muove la mano visibile delle istituzioni pubbliche, sovranazionali e statali, per sostenere e indirizzare, con politiche dell’offerta, le imprese verso un nuovo paradigma produttivo. Se di tutto questo si vuole una conferma documentale basta leggere il discorso di replica di Mario Draghi al Senato il 15 dicembre in occasione del dibattito che ha preceduto il Consiglio Europeo. Dice a chiarissime lettere Draghi: ‘Quanto è realistico oggi pensare a una riformulazione del Patto di stabilità nei termini in cui è stato in vigore fino a poco prima della pandemia? Secondo me, non è realistico. Le regole del Patto di stabilità si sono dimostrate inefficaci e procicliche, cioè dannose. Ho cominciato a dirlo negli ultimi tre anni della mia permanenza alla Banca centrale europea (BCE) e ne sono sempre più convinto e, quindi, avrebbero dovuto essere cambiate in ogni caso’. A conferma di ciò, Draghi si chiede retoricamente: ‘… si può pensare di fare una transizione ecologica o una transizione digitale senza un ruolo attivo dello Stato nel processo di creazione delle nuove imprese?’ (Senato, Resoconto stenografico, 15 dicembre 2021). Si chiami il ‘ruolo attivo dello Stato’ partnership pubblico-privato, come fa la Confindustria, o developmental State come fa la Mazzucato, non cambia il fatto che le istituzioni pubbliche, a livello sia dell’UE sia degli Stati membri, continueranno a intervenire per promuovere la duplice transizione, verde e digitale. Di ciò c’è chiara traccia perfino nella lettera, inviata il 10 dicembre 2021, dal presidente dell’Eurogruppo a Charles Michel in vista del Consiglio Europeo. Paschal Donohoe, pur essendo considerato un ‘falco’, afferma che rimane fondamentale ‘un supporto fiscale adeguato per proteggere il potenziale produttivo delle nostre economie’ e sottolinea che il superamento delle misure emergenziali non deve significare la fine di sostegni mirati alle imprese. Di sicuro la fiscal stance per il 2022, a parere di Donohoe, deve rimanere espansiva, e in ogni caso occorre per tutto il tempo necessario un’attenzione particolare ‘a finanziare investimenti a supporto della transizione verde e digitale’. A evitare equivoci la Dichiarazione dell’ Eurosummit, pur ‘prendendo atto’ delle lettera di Paschal Donohoe, ribadisce l’obiettivo di una ‘ripresa sostenibile e inclusiva’.
Nell’UE si assiste a un confronto, molto forte sia pur sottotraccia, su come riformulare il Patto di Stabilità, ma non c’è dubbio alcuno, almeno per l’intera durata dei PNRR, che la ‘mano visibile’ delle istituzioni continuerà ad agire per indirizzare gli investimenti verso la duplice transizione. Gli stessi Stati membri che chiedono più attenzione all’equilibrio dei bilanci pubblici, quali l’Olanda e il Lussemburgo, non mettono in discussione il sostegno finanziario pubblico alle imprese private; certo, non si giungerà immediatamente a un bilancio comune a livello UE, comunque non si tornerà indietro rispetto all’emissioni di titoli di debito emessi dall’UE, indispensabili per dare aiuti pubblici alle imprese impegnate nei processi di innovazione.
La transizione, verde e digitale, comporta la riorganizzazione dell’industria soprattutto per quanto riguarda la sicurezza delle filiere della subfornitura, messe in crisi dalla pandemia, dell’approvvigionamento energetico, gravato dall’aumento del costo del gas, e delle materie prime necessarie per il salto di paradigma tecnologico (dal litio, alle terre rare al cobalto per batterie, energie rinnovabile, digitalizzazione).
Ė, a mio avviso, in riferimento anche alla riorganizzazione industriale che l’UE avverte l’esigenza di una Bussola strategica – lo Strategic Compass – per dare vigore alla difesa dei suoi interessi con una più efficace presenza geopolitica a livello globale. Non penso che il varo di una forza di pronto intervento di 5000 soldati, o i programmi di sviluppo di nuove forme di organizzazione militare e della tecnologia degli armamenti, possano essere sufficienti per una politica di grande potenza. Non basta neppure il raggiungimento del 2% dei budget degli Stati membri per la spesa militare per competere a livello militare con gli USA, con la Cina e perfino con la Russia. Non a caso, nelle Conclusioni del Consiglio Europeo del 16 dicembre, si afferma che l’UE ‘si assumerà maggiori responsabilità per la propria sicurezza e nel settore della difesa, perseguirà una linea d’azione strategica e rafforzerà la propria capacità di agire in modo autonomo’ , ma con altrettanta chiarezza si sottolinea che l’UE ‘è determinata a cooperare strettamente con la NATO, nel pieno rispetto dei principi stabiliti nei trattati e di quelli concordati dal Consiglio europeo, compresi i principi di inclusività, reciprocità e autonomia decisionale dell’UE’. Per il Consiglio Europeo ‘le relazioni transatlantiche e la cooperazione UE-NATO sono elementi essenziali per la nostra sicurezza generale. Un’UE più forte e capace nel settore della sicurezza e della difesa contribuirà positivamente alla sicurezza globale e transatlantica ed è complementare alla NATO, che, per gli Stati che ne sono membri, resta il fondamento della loro difesa collettiva’.
Questa linea è stata ben riassunta dal ministro Guerini, un democristiano ora capo di una delle correnti del PD, quando ha spiegato che si sta lavorando alla Bussola strategica con l’obiettivo di ‘garantire l’autonomia strategica all’Europa’, specificando: ‘autonomia di fare qualcosa, non autonomia da qualcuno’ (Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2021) . Il ‘qualcuno’, sono ovviamente gli USA, di cui non si vuol perdere la protezione militare.
Gli interessi strategici, da difendere con una maggiore assertività della propri sovranità nei confronti di paesi alleati (USA) e di paesi competitori (Cina e Russia), sono quelli delle imprese, che possono essere danneggiate nella loro capacità competitiva se le filiere produttive diventano troppo dipendenti dagli Stati competitori o se l’approvvigionamento energetico e delle materie prime diviene instabile o insicuro. La Bussola Strategica, oltre alle necessità di difesa militare da garantire fondamentalmente attraverso la NATO, mira, attraverso l’autonomia della politica UE sui diversi scacchieri geopolitici, ad allentare la dipendenza da paesi competitori riguardo alla fornitura di componenti chiave quali i semiconduttori per l’automotive o quelli chimici per la farmaceutica, e delle risorse energetiche. Infatti, mentre nel confronto con la Russia, sia in Ucraina sia in Bielorussia, l’UE si stringe intorno alla NATO, nei confronti della Cina persegue un’autonoma politica commerciale entrando in competizione con la Via della Seta attraverso la Global Gateway, e mediante il parziale ‘rimpatrio’ di produzioni e l’attivazione di tariffe doganali per contrastare le merci sovvenzionate o prodotte con l’uso di energie fossili. L’UE rimane un grande mercato sovranazionale, con l’insediamento di aziende competitive, ma fragile a causa della dipendenza dalle importazioni di petrolio e gas, di materie prime, di semilavorati, ma anche a causa degli obiettivi della transizione, fissati per esempio dall’agenda FIT 55, che mettono in forse i destini di interi settori come l’automotive. Per questo con il loro ultimo documento, Confindustria, BDI e MEDEF, pur condividendo pienamente la scelta della Bussola Strategica, chiedono di rivedere tempi e modi della transizione energetica per adattarli all’esigenza prioritaria della competitività delle imprese UE.
Nella lettera di convocazione, il presidente Charles Michel indicava nell’energia e nei suoi elevati costi tra i punti all’attenzione del Consiglio Europeo, di essi tuttavia non c’è traccia nelle Conclusioni pur essendo avvenuto un confronto tra i capi di Stato e di governo. Il perché è presto detto: sui modi, tempi, e costi della transizione energetica l’UE è profondamente divisa. Ė divisa sui tempi dell’abbandono delle fonti fossili, sulla tassonomia di quali fonti considerare ‘verdi’ o comunque necessarie per la transizione, sulla distribuzione dei costi. Basta leggere l’articolo del primo ministro della Polonia, Mateusz Morawiecki, per cogliere i punti di divergenza (Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2021). Il primo riguarda i tempi di fuoriuscita dal carbone, utilizzato soprattutto in Polonia ma anche in Germania e negli altri paesi UE; il secondo riguarda la tassonomia delle fonti ‘verdi, che per alcuni Stati membri deve includere anche il nucleare come sostengono tra gli altri la Francia, la Polonia e i paesi dell’Est in generale; il terzo è il mercato degli ETS – il sistema di trading delle emissioni – divenuto campo di scorrerie finanziarie che con rispondono più a una logica industriale.
Al primo punto delle Conclusioni del Consiglio Europeo sono i vaccini. L’UE ha ribadito la scelta di schierarsi contro la richiesta dei paesi del Sud del mondo di bloccare i brevetti per consentire il trasferimento delle tecnologie e della produzione dei vaccini in loco, mentre l’UE rimane ferma sulla difesa del Big Pharma, ritenuto l’unico in grado di garantirli ai paesi … ricchi. La mobilitazione contro i brevetti deve continuare fin a quando in sede WTO non si arrivi ad accettare la proposta di India e Sud Africa per almeno la loro sospensione.
Sulle migrazioni l’UE continua nella retorica dei valori – l’accoglienza, la tolleranza, del diritto di asilo, l’uguale dignità delle persone –, nei fatti persiste nella linea dell’innalzamento di muri e fili spinati, come succede in Polonia nei Paesi Baltici in Ungheria, e della discriminazione e dell’affossamento del diritto di asilo e protezione internazionale, come accade in tutti gli Stati membri. Anzi, l’UE, approfittando delle provocazioni della Bielorussia, accentua la politica dei rimpatri e del sovvenzionamento di campi profughi in Turchia e in Libia. Ė stata, invece, rinviata la discussione sulla Strategy on the future of Schengen, che in ogni caso prevede il rafforzamento delle frontiere esterne e, perfino interne, in caso di ‘crisi migratoria’. L’UE non cambia linea sulle migrazioni, viste come una minaccia alla sua ‘civiltà’ e ai suoi modi e livelli di vita, e non come un’occasione per sviluppare un altro modello di società, meticcia ed egualitaria.
Franco Russo