Ad una settimana dall’annuncio del governo israeliano, ancora guidato da Niethaniau, dell’annessione della Cisgiordania, l’epidemia di covid-19 e i problemi politici interni sembrano aver rallentato l’espansionismo di Tel-Aviv, ben più delle minacce di sanzioni internazionali.
A bollare il piano come “progetto illegale” era stato fin da subito l’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, Michel Bachelet; seguito dal Ministro degli Esteri britannico che, appena pochi giorni prima dell’avvio delle operazioni israeliane, ha definito “qualsiasi eventuale ulteriore annessione israeliana dei territori palestinesi occupati, un atto contrario al diritto internazionale e controproducente per la pace della regione”.
Più cauto sull’annessione unilaterale era sembrato invece il co-premier Gantz, secondo il quale era preferibile rimandare ogni iniziativa fino al controllo dell’epidemia. Sul tavolo gli scenari possibili restano tre ed altrettante le incognite.
La prima opzione, anticipata dal “Piano per la Pace e la Prosperità” promosso dal presidente USA, D. Trump, nel gennaio 2020 riguarda l’annessione di tutta la valle del Giordano oltre al 30% dei territori già occupati abusivamente. Altra ipotesi è quella della rivendicazione più simbolica degli insediamenti vicini a Gerusalemme, per poi proseguire l’espansione in modo graduale. Questa pratica del resto viene denunciata da anni, da parte dei contadini palestinesi e delle ONG umanitarie, che cercano di contrastare l’espropriazione di terreni coltivabili ed il dirottamento delle acque dei pozzi, ad opera dell’esercito israeliano. L’ultimo scenario, nonché quello meno probabile è la rinuncia completa dell’annessione, verso una normalizzazione, comunque fatta di occupazioni militari e denigrazione dei diritti del popolo palestinese, che però permetterebbe a Tel-Aviv una distensione dei rapporti con i paesi arabi, oltre alla ripresa dei progetti umanitari europei.
Se sul piano geopolitico, l’obiettivo è l’accaparramento israeliano di terreni fertili e di risorse idriche, perpetrando al tempo stesso lo sbriciolamento di qualunque autodeterminazione palestinese; di fatto il progetto così come annunciato dai leader USA e israeliano creerebbe una nuova apartheid, lasciando i gruppi palestinesi dei territori annessi privi di qualunque diritto di cittadinanza, compresi quelli di ricorso alla giustizia civile per controversie legate alle proprietà.
Per questo motivo, la Giordania, larga parte dei paesi arabi e degli stati europei hanno definito l’azione “contraria al diritto internazionale” e potenzialmente destabilizzante per il Medio-Oriente.
Le principali ricadute per Israele riguarderebbero infatti la revisione degli Accordi di Pace da parte della Giordania, un pericolo tutto sommato affrontabile secondo gli analisti di Tel-Aviv; così come le eventuali sanzioni da parte della comunità internazionale, depotenziate dal veto di Trump in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
L’incognita maggiore è dunque la reazione dell’Unione Europea, principale partner commerciale, con oltre il 30% delle esportazioni israeliane dirette verso il mercato unico UE.
Nonostante il monito del Rappresentante UE per la Cisgiordania, Sven von Burgsdorff, riguardo alla “soluzione dei due stati indipendenti come unica strada percorribile”; e le dichiarazioni dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera, Josep Borrell, che a fine giugno ammoniva come “un simile progetto non possa passare indenne, poiché mette in discussione gli stessi principi della Carta delle Nazioni Unite”; il sistema decisionale all’unanimità adottato dai 27 membri dell’UE pone non poche difficoltà nel contrasto ai piani espansionistici israeliani. Le ultime riunioni del Consiglio Europeo dei Ministri degli Esteri hanno sancito divisioni nette ed una sensibile distanza dallo spirito della convenzione di Venezia del 1980, con la ferma presa di posizione europea a tutela dell’autodeterminazione del popolo palestinese.
In ballo viene tirata l’analogia con il caso internazionale dell’annessione unilaterale russa della Crimea nel 2014, seguita da sanzioni finanziarie e commerciali da parte dell’Unione Europea, che non sembra però mostrare la stessa coerenza e determinazione. Le decine di lobby israeliane operanti a Bruxelles ed i rapporti speciali di Tel-Aviv con alcuni paesi del “Gruppo Visegraad” sembrano infatti rendere un miraggio l’unanimità delle sanzioni.
Da un recente reportage della Reuters sul Medio-Oriente si comprende bene la mancanza di condivisione degli stati europei, contrapposti fra un gruppo di garantisti del diritto internazionale, fra i quali: Lussemburgo, Belgio, Irlanda, Portogallo, Slovenia, Svezia, Malta e Finlandia; ed una fazione filosionista, blandita in realtà da crescenti investimenti israeliani in paesi come Ungheria, Repubblica Ceca, Grecia, Cipro, Polonia e Lituania.
Dai resoconti degli incontri fra Ministri degli Esteri europei degli ultimi mesi questa spaccatura è evidente, in particolare rispetto alle posizioni sulla proposta del lussemburghese Asselborn che, dopo la denuncia dello smantellamento graduale e sistematico degli accordi di Oslo, ha chiesto di parlare con “una sola voce, difendendo la preminenza dello stato di diritto e non la legge del più forte”. Sotto molti profili infatti il piano di annessione israeliana viola la Quarta Convenzione Internazionale di Ginevra – sottoscritta da 192 stati – che impedisce lo “spostamento coatto o la deportazione di popolazione civile in/da territori occupati”. Il richiamo alle convenzioni internazionali per il rispetto dell’autonomia territoriale è storicamente una questione cara a paesi di limitata estensione geografica, soprattutto per il timore che un’annessione coercitiva di territori possa aprire la strada ad altri tipi di avventurismi simili, in quell’area e non solo.
La proposta dirompente è stata quella del riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina, azione finora però intrapresa soltanto dalla Svezia. Il Belgio invece ha proposto la messa al bando dei prodotti israeliani provenienti dalle colonie illegali, ribadendo come l’importanza delle relazioni commerciali possa rappresentare un argomento di dissuasione dei piani bellicosi israeliani.
D’altro canto, Spagna e Francia si sono pronunciate in modo contrario all’annessione israeliana, ma solo a supporto dell’iniziativa degli stati europei più piccoli e mantenendo un profilo molto basso. Ago della bilancia restano Danimarca, Paesi Bassi, Germania ed Italia, che sono propensi alla mozione contro l’annessione, ma non sembrano avere particolarmente a cuore la causa palestinese.
Mentre sui media europei la questione è completamente oscurata, il quotidiano Haaretz a fine giugno riportava come migliaia di parlamentari di 25 paesi dell’UE abbiano sottoscritto un appello di opposizione all’annessione unilaterale della Cisgiordania.
Proprio in quel periodo, la strana visita del ministro degli esteri tedesco Heiko Mass, ostacolato dalle autorità di Tel-Aviv per il suo incontro con Abbas in Cisgiordania, ha risentito delle tensioni internazionali rispetto all’intento ostinato di Niethaniau di riconoscere in ogni caso la legittimità delle colonie illegali israeliane.
Riguardo ad una simile questione la Germania, che finora non fa parte del fronte garantista per l’applicazione di sanzioni europee, ha fatto sapere però che potrebbe subire pressioni insormontabili e cedere alle richieste dei soci europei nel contrasto all’espansionismo di Tel-Aviv.
In questo scenario spicca anche la proposta di due eurodeputati della Sinistra Europea (GUE/NGL), impegnati nel coordinamento del Comitato degli Affari Esteri del Parlamento Europeo, che contestano lo scarso effetto delle dichiarazioni di Borrell, proponendo invece di stralciare l’Accordo di Associazione con Israele in base all’art.2 dello stesso, ovvero il mancato rispetto dei diritti umani; invitando la Commissione a stilare una lista di prodotti provenienti dalle colonie illegali da mettere al bando, così come l’esclusione di Tel Aviv dai programmi Erasmus+ ed Horizon.
Di fronte al rischio di un nuovo progetto di apartheid, maturato in decenni di conflitti ed occupazioni israeliane contro una popolazione sempre più inerme; che hanno portato già oltre 600 mila coloni illegali nei territori palestinesi ed un blocco pressoché totale dell’economia di Gaza, ridotta da quasi quattordici anni ad una sorta di campo di concentramento, l’Unione Europea, fondata sugli accordi fra governi, mostra tutta la fragilità di un soggetto internazionale incapace di gestire le politiche di vicinato, totalmente subordinato ai piani NATO in Medio-Oriente e vittima di ricatti da parte delle sue stesse alleanze con molti regimi del Mediterraneo.