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Come va la COP27?

di Riccardo
Rifici

Una notizia che fornisce il quadro di come si sta svolgendo la COP27 di Sharm el-Sheik e che dà molto l’idea sui probabili risultati finali della conferenza, è il numero dei lobbisti delle fonti fossili presenti all’incontro. Oltre 600, (un centinaio in più di un anno fa). Si tratta della delegazione più grossa dopo quella degli Emirati Arabi Uniti che dovrebbe gestire la futura COP.

Per il resto, in attesa di conoscere i documenti finali e le conclusioni della conferenza, nonostante, alcune dimostrazioni di protesta, molto controllate e delimitate, sembra che il tutto sia stato organizzato come momento di passaggio, in attesa di ciò che succederà nella prossima conferenza. Ciò nonostante i drammatici segnali che il pianeta ci ha inviato nell’ultimo anno e a quanto riportato nel recente rapporto, pubblicato dal Programma ambiente delle Nazioni Unite (Unep), il cui succo è ben riassunto dalle dichiarazioni di Inger Andersen, direttore dell’Unep: “Abbiamo avuto la nostra possibilità di fare cambiamenti progressivi, ma quel tempo è finito. Solo una trasformazione radicale delle nostre economie e delle nostre società può salvarci dall’accelerazione del disastro climatico”.

Infatti, a parte alcuni segnali della UE che vorrebbe aumentare la quota di riduzione delle emissioni entro il 2030 dal 55 al 57%, e alcune promesse (per ora fumose!) dei grandi paesi emettitori sull’incremento delle fonti rinnovabili, accompagnate dalle scuse di Biden, per i passi indietro fatti dagli USA durante la presidenza di Trump, non sembra rilevare alcun risultato realmente significativo.

In realtà ciò che emerge di più significativo riguarda il contrasto tra i paesi occidentali e quelli che un tempo venivano chiamati “paesi in via di sviluppo”, su come aiutare i più poveri.

In sostanza il modo con cui i paesi più ricchi, che sono quelli che hanno sino ad oggi causato i maggiori danni all’ambiente e al clima e che tuttora detengono i record delle maggiori emissioni pro capite, debbano non solo aiutare i più poveri, ma debbano indennizzarli per i danni che gli sono stati provocati in questi ultimi secoli di rapine e di esportazione di inquinamento.

Si tratta del concetto riassunto dalla definizione delle Nazioni Unite di “loss and damage”: che dovrebbe comportare il come compensare tutte le perdite derivanti da eventi improvvisi e da processi più lenti e passati causati dal cambiamento climatico. Si parla quindi di tifoni, di tempeste, ma anche della desertificazione e dell’aumentare del livello dei mari. Il problema è come quantificare questi compensi e con che strumenti fornire i compensi?  Con finanziamenti diretti (ma quanti soldi) o con sistemi di assicurazioni che rimborsano i danni che si generano? Su questi temi è l’attuale discussione.

Per fare un esempio sull’entità dei compensi da erogare, vale la pena di citare i risultati a cui sono pervenuti alcuni ricercatori americani dell’Università di Dartmouth, che hanno stimato che tra il 1990 e il 2014 le emissioni degli USA avrebbero causato 1,9 trilioni di dollari di danni climatici ad altri paesi!.

Comunque, per concludere questo breve articolo e comprendere il significato di quanto riportato all’inizio, circa l’ampia presenza dei lobbisti del fossile alla COP27, vale la pena di ricordare che, dal 2015 al 2021, le grandi banche e i governi hanno concesso finanziamenti per oltre 7.500 miliardi di dollari, alle fonti fossili! Che ci si può aspettare dalle conclusione di questa conferenza?

Riccardo Rifici

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