La pandemia da Sars-Cov-2 provoca una crisi economica a livello globale, per la prima volta dal 1990 la Cina al Congresso Nazionale del Popolo non quantifica obiettivi di sviluppo economico. I sussidi settimanali di disoccupazione negli Usa salgono di 2,43 milioni, portando il totale dei senza lavoro americani sopra i 38 milioni di unità dall’inizio dell’emergenza coronavirus. Il Brasile di Bolsonaro si è conquistato il secondo posto per diffusione della pandemia dopo gli Stati Uniti di Trump. La pandemia diventa un fenomeno rivelatore dei caratteri delle formazioni sociali in cui si sviluppa dove interagisce con tutti i piani della struttura politica, economica, sociale e culturale. Si evidenzia nelle cronache e nelle analisi il ruolo delle classi dirigenti, da quello dei governi in carica spesso personalizzati da presidenti e primi ministri, sino al confronto ed alle contraddizioni che ne attraversano tutte le articolazioni.
Lo stesso accade nel nostro paese, dove vengono al pettine tutti i nodi di un sistema caratterizzato da una stagnazione più che ventennale e da una assenza di strategie da parte delle classi dirigenti. Si sta sviluppando sulle colonne del Corriere della Sera la discussione sulla classe dirigente nel nostro paese, con interventi di Ferruccio de Bortoli ed Ernesto Galli della Loggia. Quest’ultimo, nel suo articolo del 24 maggio elenca le caratteristiche che una classe dirigente deve avere: “Come e dove si formano le capacità ora dette? Naturalmente e principalmente in una sede elettiva che è l’istruzione scolastica. Un’istruzione che possieda tre caratteristiche: abbia come sua base la cosiddetta cultura generale, cioè quella con forte presenza delle materie umanistiche; sia mirata alle conoscenze proprie delle diverse discipline e non alle cosiddette ‘competenze’, al ‘saper fare’; e nella quale infine si proceda in base esclusivamente a criteri di merito. […]
Il progressivo crollo qualitativo che si è avuto in Italia della classe dirigente, e in specie di quella politica, è una conseguenza diretta dell’implacabile smantellamento che nella nostra scuola si è compiuto del tipo d’istruzione appena tratteggiata. […]
Il ruolo della borghesia produttiva è il terzo aspetto su cui si è soffermata la discussione sulla classe dirigente. Personalmente dubito molto che possano essere le aziende il luogo dove si forma una classe dirigente, così come dubito che possa venire dalla ‘borghesia produttiva’ (industriali e professionalità tecnico-scientifiche) quel ‘progetto per il Paese’ che da tante parti si invoca Il quale può e deve venire, semmai, dall’interlocuzione della suddetta borghesia con la politica”.
Nel suo editoriale Ferruccio De Bortoli afferma: “Quel che rimane della cosiddetta borghesia produttiva ha dato prova di grande generosità personale e aziendale. Non c’è dubbio. Ha, in diversi e lodevoli casi, anticipato e integrato la cassa integrazione quando le aziende sono state costrette ad usarla. Allargato le maglie dei welfare aziendali. Ma manca qualcosa. Manca l’assunzione di un progetto per il Paese”.
Questi articoli offrono lo spunto per una riflessione sulla formazione, composizione, qualità e ruolo delle classi dirigenti del nostro paese e necessariamente sullo stato della democrazia ed il modello di sviluppo del nostro paese.
Di quale stoffa sia fatta la “borghesia produttiva” ce lo dice Roberto Musacchio nel suo articolo Il Mondo sta cambiando, il Padrone no sulle posizioni del neo-presidente di Confindustria Carlo Bonomi, con la sua richiesta di passare dal contratto nazionale a quello aziendale. Alfonso Gianni sul Manifesto ne definisce un profilo più articolato: “Bonomi si presenta quindi come l’alfiere di quello che è stato definito il ‘quarto capitalismo’ ove non dominano più le grandi imprese, che peraltro in Italia sono scomparse in più comparti, quanto le medie e le piccole, legate a filiere che non hanno confini nazionali, capaci di muoversi nei diversi contesti socio politici con la dovuta agilità, ma anche con un baricentro territoriale ben piantato nel fitto tessuto produttivo del triangolo Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna (le regioni, non a caso, che vogliono l’autonomia differenziata)”.
Ci sono state scelte esplicite da parte delle classi dirigenti del nostro paese che ne hanno determinato nei decenni la trasformazione sino alla realtà di oggi?
Le variazioni nella dialettica tra il ceto politico e quello imprenditoriale hanno caratterizzato nei decenni le trasformazioni del nostro paese, dai tempi in cui la mano pubblica ha costruito l’ossatura[1] della struttura economica nazionali sino alla stagione delle privatizzazioni dei primi anni ’90. Il capitalismo italiano ha visto sino agli anni ’90 il dualismo tra la FIAT ed il resto del sistema industriale. La nazionalizzazione dell’energia elettrica[2] ha chiuso un’epoca, con uno spostamento di capitali verso l’industria chimica. Il sistema delle imprese, i rapporti di produzione, la composizione tecnologica e di classe sono mutate in maniera radicale dopo il grande ciclo di lotte a cavallo degli anni ‘60 e ’70 entro un processo globale di ristrutturazione con il ciclo nazionale inserito nel ciclo globale, entro una ‘rivoluzione dall’alto’ segnata dalla dichiarazione di inconvertibilità del dollaro e dalla quadruplicazione del prezzo del petrolio. Sino all’intervento nel 1979 della FED di Paul Volcker che impattò il processo inflazionistico globale con l’innalzamento dei tassi sul dollaro a partire dall’ottobre 1979. La risposta allo straordinario ciclo di lotte operaia e sociale è stato un radicale processo di ristrutturazione che in Italia non si è concluso nella formazione di un assetto sociale e produttivo vincente sul piano della competizione globale, la settima potenza economica del mondo si è persa per strada, nonostante uno straordinario patrimonio sviluppato nei gloriosi 30 ed il progresso culturale, civile e sociale indotto da quel ciclo di lotte.
A che pro tratteggiare questa ricostruzione storica?
Essa ci permette di capire cosa è diventato il nostro paese, quali cesure ci sono state nel suo sviluppo ed in particolare nelle sue classi dirigenti. Lo sviluppo della industrializzazione diffusa nel nostro paese, la cosiddetta ‘fabbrica diffusa’, l’espansione territoriale dei cicli produttivi ha corrisposto alla riduzione e frammentazione delle concentrazioni produttive che erano state anche poli di lotta ed organizzazione politica. Di fatto l’eredità è stata la creazione di uno strato intermedio di medie aziende competitive sul mercato mondiale, inserite in filiere globali, a fronte però della riduzione ai minimi termini della grande impresa in tutti i settori o del suo passaggio sotto il controllo di gruppi esteri[3].
Non si può pensare che lo stato della ricerca e delle istituzioni scolastiche ed universitarie sia indifferente al modello di sviluppo così come è impensabile che scelte di parte imprenditoriale e di parte politica non siano correlate. C’è stata una dialettica stringente, che ha prodotto lo stato miserevole in cui si trova il nostro paese. Il confronto con le istituzioni europee, BCE, Commissione, Consiglio si sta facendo sempre più drammatico, con il succedersi di proposte di intervento più o meno straordinario ( su cui stiamo ragionando quasi giorno dopo giorno) ed allora, rimanendo sul nostro argomento, è legittimo chiedersi quale sia la qualità complessiva del tessuto sociale nel nostro paese, quanto siano possibili oggi comportamenti coerenti -almeno parzialmente coordinati- da parte dei diversi blocchi sociali che lo compongono, se ci sia una capacità di governo in queste acque agitate, un luogo dove la si eserciti effettivamente ed efficacemente.
Molte sono le fonti di informazioni o analisi a cui si può attingere per farsi un quadro della situazione, il testo consultato per corroborare il ragionamento svolto sino ad ora è La spirale del sottosviluppo, di Stefano Allievi (Laterza). Per illustrare la situazione riportiamo un buon numero di blocchi informativi estratti dal testo che – con una certa lunghezza, ma senza ridondanza – ne realizzano una descrizione efficace per quanto schematica.
Istruzione e formazione
“L’Italia investe in istruzione e formazione il 3,9% del PIL, mentre la media europea è del 4,7% e quella OCSE del 5,1% (De Santis, Pirani e Porcu, 2019). Curiosamente, a quel livello ci eravamo in passato: era il 4,6% nel 2009 e addirittura il 9% nel dopoguerra. Segno che si può sempre peggiorare, quindi; ma anche che nulla è ineluttabile e, volendo, si potrebbe invertire la rotta. Insomma, dipende dalle politiche che adottiamo; sono scelte, di cui siamo responsabili e che, giustamente, si pagano. Investono meno di noi solo Slovacchia (3,8%), Romania (3,7%), Bulgaria (3,4%) e Irlanda (3,3%). E abbiamo il 13% in meno di laureati giovani rispetto alla media europea. Tra il 2014 e il 2017 i laureati italiani fra i 30 e i 34 anni sono passati dal 23,9% al 26,9%; ma nello stesso periodo la media europea è salita dal 37,9% al 39,9%, sfiorando già l’obiettivo del 40% fissato per il 2020, da cui noi invece siamo lontanissimi (CENSIS, 2018). Le cose vanno peggio quanto al lavoro: nella fascia 20-34 anni il tasso di occupazione di coloro che sono (almeno) diplomati da 1 a 3 anni prima è di 25 punti inferiore alla media europea. Da noi è del 55,2% nel 2017; la media europea è dell’80,2%. sconfortante gli abbandoni precoci dei percorsi di istruzione: il 14% dei giovani tra 18 e 24 anni, contro una media europea del 10,6%”.
“In Italia solo il 13% degli studenti è esonerato dai pagamenti: dovrebbero essere i capaci e meritevoli che non hanno i mezzi per proseguire gli studi. In compenso le tasse universitarie sono le più alte d’Europa, dopo l’Olanda: in Germania sono molto più basse, altrove l’intera formazione universitaria è gratuita, con facilitazioni (alloggio, libri) importanti, e una politica di borse di studio (o di reddito garantito) molto generosa; nella convinzione – corretta – che quanto lo Stato spende in istruzione superiore produce manodopera più qualificata, che a sua volta produce una quota più alta di PIL pro capite, ottiene redditi più alti, quindi paga più tasse, e con le tasse, in pochi anni, restituisce allo Stato quanto quest’ultimo gli ha anticipato, per giunta a beneficio di tutti, incluso di chi laureato non è”. In merito vale anche la pena di leggere l’articolo di Internazionale Per uscire dalla crisi serve un’università gratuita.
La ricerca
“L’ISTAT (2018c), nel suo rapporto sull’economia della conoscenza, entra maggiormente nel dettaglio. Nel 2015 la spesa totale per R&S sostenuta in Italia, come visto, è stata pari a circa l’1,3% del PIL; nell’UE la quota si è mantenuta di poco superiore al 2%. L’intensità di R&S dell’economia italiana è inferiore rispetto ai principali paesi europei tranne la Spagna (1,2%). Il divario è particolarmente ampio per le imprese (meno dello 0,8% rispetto a oltre l’1,3% dell’UE), ma sussiste anche per l’università e i centri di ricerca pubblici. Negli ultimi dieci anni l’intensità di ricerca è cresciuta dello 0,25% nell’UE, di oltre lo 0,5% in Cina, dello 0,2% in Italia, e solo grazie all’investimento privato, passato dal 52 al 58% del totale. Il pubblico è assente. E le distanze, come si vede, aumentano”.
“L’Italia, denuncia l’osservatorio CPI di Carlo Cottarelli, mette a bilancio per l’università solo lo 0,3% del suo PIL, la metà della media dell’Unione Europea: appena 5,5 miliardi di euro – e con una tendenza in calo, anziché in crescita, che prosegue da un decennio. Manco a dirlo, ultimi in classifica nell’Europa a 28. La Germania investe cinque volte tanto in cifra assoluta (corrispondente allo 0,8% del PIL), la Francia tre volte tanto (corrispondente allo 0,6% del PIL), la Svezia quanto noi, in cifra assoluta, ma corrisponde all’1,1% del PIL. Un report Link-Openpolis aggiunge la ciliegina sulla torta. Il FFO (finanziamento statale agli atenei) è calato da 7,44 a 6,98 miliardi: quindi il trasferimento del carico, cioè degli oneri, è passato dallo Stato alle famiglie. Il gettito delle tasse universitarie in compenso è salito da 1,38 a 1,63 miliardi: un +18% pagato interamente dalle famiglie”.
Sullo stato dell’economia
“Rispetto al 2010 gli investimenti sono ancora all’89,4% del valore di allora, i consumi delle famiglie al 97,4%, la spesa delle amministrazioni pubbliche al 99,1%. E il PIL è negativo: il 99,7% del valore registrato nel 2010, a fronte di un dato medio europeo del 110,6%. Il Rapporto del 2019 non fa che confermare questa percezione, e non potrebbe essere altrimenti. Il 69% degli italiani è convinto che la mobilità sociale sia bloccata, il 63,3% degli operai crede che resterà nella sua attuale condizione, il 63,9% degli imprenditori e dei liberi professionisti teme invece di scivolare verso il basso. Il sentiment prevalente, il mood più diffuso, è questo”.
“L’Italia, di fatto, è messa male. Il PIL italiano è aumentato del 45,2% negli anni Settanta, del 26,9% negli Ottanta, del 17% negli anni Novanta, ma solo del 2,5% negli anni Duemila: una dinamica che non ha paragoni negli altri paesi sviluppati. Peggio ancora: l’aumento della produttività – un indicatore chiave – è precipitato dal 2,8% degli anni Settanta allo zero dei Duemila. […] La produttività è bassissima. L’Italia è l’unico paese del mondo sviluppato in cui è ferma dagli anni Novanta: un quarto di secolo senza alcun progresso. L’innovazione c’è, in alcuni ambiti, e lo prova l’andamento positivo dell’export in settori fortemente concorrenziali. Ma è largamente insufficiente al bisogno”.
Di particolare attualità è lo stato delle facoltà di medicina
“E così arriviamo a paradossi come quello – eclatante – delle facoltà di medicina, cui abbiamo accennato anche in un precedente capitolo, che già oggi non producono un numero di laureati sufficienti al fabbisogno interno, per cui saremo costretti a importare medici dall’estero, mentre i nostri, già in numero insufficiente, se ne vanno, attratti da salari più alti, inserimenti più rapidi – praticamente immediati – nei vari livelli professionali, prospettive di mobilità maggiori. Il caso dei medici ha davvero del clamoroso, ed è sintomatico dell’incapacità del paese di fare una sia pur minima programmazione dei bisogni e di attivare quella capacità previsionale […], pur essendo in possesso di tutte le informazioni necessarie. Già oggi mancano all’appello 8 mila medici, e secondo alcune stime saranno il doppio nel 2025, cioè domani. Abbiamo – neanche a dirlo – l’età media dei medici più alta d’Europa (oltre 55 anni), eppure siamo riusciti nel capolavoro di mandarne una quantità in pensione con Quota 100, cosicché varie regioni (capofila il Veneto), necessitate dalle carenze, li hanno richiamati al lavoro con contratti privatistici – con il risultato che lo Stato li paga due volte. Abbiamo in compenso il numero chiuso nelle facoltà, ne abbiamo 10 mila in attesa di rientrare nei percorsi di specializzazione (il vero collo di imbuto del sistema), sempre di più si laureano all’estero per rientrare insieme ai medici stranieri, mentre i nostri, già inseriti, vanno via attratti da aggressive campagne di scouting – verso l’Europa, “Non ci soffermiamo sui dati relativi alla immigrazione, alle sue caratteristiche ed i suoi effetti sull’economia, e sulla comparazione con gli altri paesi europei, rispetto a cui le politiche adottate sono state quanto di più contraddittorio, disumano e inefficiente si possa immaginare”.
Viceversa l’emigrazione verso l’estero e le migrazioni interne meritano un minimo di quadro informativo
“Ufficialmente negli ultimi sei anni, tra il 2014 e il 2019, oltre un milione di italiani si è trasferito all’estero (Fondazione Migrantes, 2019). È l’equivalente di una città come Napoli. Ma, come detto, sono solo i dati ufficiali, misurabili dalle cancellazioni all’anagrafe e dagli iscritti all’AIRE, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero. In realtà sono molti di più. Nel solo 2018 sono stati oltre 128 mila gli italiani espatriati, sempre ufficialmente; ma alcune stime ipotizzano quasi 300 mila expat (mentre sono abbastanza costanti negli anni i dati dei rimpatri: circa 47 mila nel 2018). Questo perché l’iscrizione all’AIRE non viene mai fatta subito, ma spesso solo dopo almeno un paio d’anni o più: quando si è sufficientemente sicuri di non rientrare, e il percorso di emigrazione si è stabilizzato”.
“Le regioni più ricche e produttive, con un reddito pro capite più alto e maggiori opportunità di lavoro sono dunque ai primi posti per emigrazione. A dimostrazione che non si tratta solo di semplice ricerca di un lavoro che non c’è (in questo caso dovremmo vedere in testa le regioni del Sud), ma di ricerca di migliori opportunità. Il 2014 è stato l’ultimo anno che ha visto le partenze degli italiani essere inferiori alle 100 mila unità. È ipotizzabile che non accadrà più, per molto tempo”.
“Aggiungiamoci un banale dato demografico, di cui in Italia non si ha coscienza: nel 2018 sono andati in pensione meno di 200 mila diplomati e laureati; ma il sistema educativo ne ha prodotti il doppio – e nel settore pubblico da anni non solo non ci sono investimenti espansivi in termini di occupazione (qualificata, e anche no), ma non si compensa nemmeno il turnover. Credo diventi pleonastico, a questo punto, domandarsi perché tanti giovani decidano di andarsene da questo paese. Semmai, c’è da domandarsi perché non siano molti di più”.
Poi ci sono le migrazioni interne
“Dopo alcuni anni di stabilizzazione, ormai lontani, e una ripresa delle migrazioni verso nord in anni più recenti, oggi leggiamo nei dati una migrazione ancora più a nord, attraverso la ripresa delle migrazioni anche verso l’estero: tra il 2012 e il 2017 gli spostamenti verso il Nord Italia si sono ridotti da 132 mila a 110 mila unità; in compenso l’ammontare dei flussi migratori dalle regioni del Sud verso l’estero è praticamente raddoppiato, da 25 mila a 43 mila unità (ISTAT, 2019a)”.
“Nel periodo 2008-2017, le regioni meridionali evidenziano un sistematico deflusso: Campania, Puglia, Sicilia e Calabria perdono complessivamente oltre 282 mila giovani, l’80% dei quali con un livello di istruzione medio-alto. […] Specularmente, le regioni del Centro-Nord guadagnano invece parte significativa del capitale umano perso al Sud: la Lombardia e l’Emilia-Romagna hanno un attivo di oltre 175 mila giovani provenienti da altre regioni d’Italia, che nell’88% dei casi sono in possesso di un titolo di studio medio-alto. Complessivamente negli ultimi dieci anni si sono spostati circa 483 mila giovani di 20-34 anni contro i 174 mila che hanno invece percorso la rotta inversa (ci sono anche questi, come ci sono le emigrazioni dalla Germania o dal Regno Unito, anche se non ne parliamo mai). Il saldo migratorio del periodo, dunque, mette in evidenza una perdita netta di 309 mila giovani, di cui 117 mila laureati, pari al 38%, e 132 mila diplomati, pari al 43%”.
Alle dinamiche migratorie e di sviluppo sono correlate quelle demografiche
“La popolazione italiana è in calo, e continuerà a calare: se fino al 2030 il calo sarà modesto (da 60,4 a 60,3 milioni di abitanti), al 2050 il calo sarà di 2,2 milioni di abitanti, portando la popolazione a 58,2 milioni. […] La popolazione complessiva, infatti, cala poco, perché si vive di più e si muore quindi più tardi; ma se guardiamo solo alle nascite, il calo è stato impressionante. […] E non solo diminuisce il numero di donne in età riproduttiva: il 45% di quelle tra 18 e 49 anni non ha ancora figli (anche se, tra di loro, solo meno del 5% dichiara di non includere la genitorialità nel proprio progetto di vita: e in questo scarto si misura la differenza tra desideri e realtà, l’italica drammatica sottovalutazione della questione femminile e familiare, del resto intrecciate). […] I giovani tra i 20 e i 34 anni sono 9 milioni e 630 mila al 1° gennaio 2018: oggi rappresentano solo il 16% della popolazione – in un decennio sono calati di 1 milione e 230 mila unità e di tre punti percentuali. In totale gli under 35 sono il 33,8% della popolazione, mentre erano oltre la metà della popolazione nel periodo del miracolo economico, di cui il loro stesso numero è stato una precondizione (CENSIS 2019).[…] Quanto agli anziani, nel 2050 gli ultrassessantacinquenni potrebbero passare dall’attuale 23% al 32% o addirittura al 37% della popolazione, a seconda degli scenari.
[…] Siamo ufficialmente, da anni ormai, in recessione demografica; anche calcolando gli stranieri! Se non ci fossero stati gli immigrati, infatti, le cose sarebbero andate ancora peggio. Non solo la popolazione invecchia, ma diminuisce a ritmi tali che l’unico precedente calo così ampio risale al biennio 1917-1918, in piena prima guerra mondiale, e sotto gli effetti dell’epidemia di febbre spagnola. […] Le culle si svuotano: i 577 mila nati del 2008 sono diventati 439 mila nel 2018, il minimo storico dall’Unità d’Italia. […] Lo sancisce del resto anche il Rapporto ISTAT (2019a): la crescita della popolazione degli ultimi vent’anni è avvenuta unicamente grazie all’aumento della componente di origine straniera”. Il contributo degli stranieri è peraltro stimato al ribasso, dato che al 1° gennaio 2018 ben 1 milione e 350 mila stranieri hanno ottenuto la cittadinanza italiana, facendo crescere appunto la componente italiana della popolazione, e riducendo contestualmente quella straniera. […] I decessi invece – essendo la popolazione sempre più anziana – sono arrivati a 633 mila nel 2018 (nel 2017 erano stati ancora di più, 649 mila, raggiungendo il dato più alto in assoluto dal 1945). Il saldo naturale è negativo per 190.910 unità, ma se non ci fossero gli immigrati il dato sarebbe più grave: è infatti positivo tra la popolazione straniera residente in Italia, per 61 mila unità, e negativo tra gli italiani per 251.537 unità”.Le dinamiche demografiche tratteggiate (il testo di riferimento è ricchissimo di dati) implicano profonde trasformazioni territoriali, con la marginalizzazione e spopolamento crescente di una parte del territorio nazionale, la concentrazione di ricchezza, sviluppo economico e demografico in alcune aree metropolitane, con la crescita delle diseguaglianze tra aree con opposti indici di sviluppo, entro il quadro di diseguaglianze crescenti a livello globale, quasi una struttura frattale che si riproduce e si inoltra anche nei luoghi della crescita. Esistono certo molteplici esperienze che vanno in direzione opposta a quanto descritto, tuttavia i dati generali non segnalano ancora una inversione di tendenza rispetto al quadro che abbiamo appena tratteggiato; ciò che risalta è la correlazione tra stagnazione pluridecennale, incapacità di valorizzare i milioni di immigrati residenti ormai in Italia e di offrire prospettive di vita ai giovani italiani.
Quale progetto, quale processo di trasformazione è anche solo pensabile per un paese in queste condizioni? Non sono pensabili scorciatoie, con questa composizione sociale, questa composizione del capitale industriale e finanziario, la sua collocazione nel contesto internazionale e la sua classe dirigente. Certo è una bella sfida per chi vuole rivoluzionare questo paese e nulla si può rivoluzionare se non si percorrono tutte le pieghe del suo tessuto sociale.
In questi giorni il gruppo cinese FAW produttore di auto annuncia l’investimento di un miliardo nella Motor Valley emiliana, legata alla produzione di auto elettriche, mentre a Marcianise la Jabil conferma il licenziamento di 150 dipendenti. Così vanno le cose, nel pieno dello sconquasso creato dalla pandemia.
Questo articolo è dedicato, con un atto simbolico, ai lavoratori della Jabil.
[1] L’industria siderurgica, l’infrastruttura per il trasporto delle merci e delle persone su gomma (la costruzione dell’autostrada del sole in pochi anni), la nazionalizzazione della produzione di energia elettrica. L’industria petrolifera. Il sistema bancario nel suo complesso era composto in gran parte da istituti di proprietà pubblica o da Casse di Risparmio.
[2] Nella nazionalizzazione fu fondamentale la remunerazione delle società, controllate da quote azionarie ridottissime e caratterizzate da partecipazioni incrociate, in alternativa al pagamento degli azionisti.
[3] Pensiamo al settore degli elettrodomestici bianchi dove Zanussi è acquisita dalla svedese Electrolux , l’Ignis dalla Whirpool, l’ultima rimasta L’Indesit Company (ex-Merloni) è stata anch’essa acquisita dalla Whirpool.