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Ci salverà una rivoluzione? Sì, ma quale, come, quando…?

di Sandro
Morelli

Dopo il suicidio ‘non assistito’ del PCI, penso anche io − come suggerisce transform! italia− che un bilancio delle scelte prevalse, a sinistra, negli ultimi 30 anni e del loro rapporto con la cultura politica prevalente negli anni precedenti, non sia stato compiutamente ed esplicitamente tratto, per opportunità politica degli artefici di quella scomparsa (difficile sconfessare le proprie scelte!) e, penso, anche per un’altra connessa ragione, sulla quale soprattutto vorrei soffermarmi in questa mia testimonianza: a sinistra − salvo le dovute ma minoritarie eccezioni − si è (almeno parzialmente) perduta non solo la volontà ma persino la capacità di analizzare le tendenze strutturali e le ipocritamente rinnegate tendenze ideologiche che danno vita all’origine delle diverse fasi politiche e persino storiche, sicché è tutt’altro che fuori tema l’esigenza di ‘cercare ancora’ propostaci da Transform!.
Nell’attualità di questa esigenza è condensato il senso del dramma che, a sinistra, viviamo: 32 anni corrispondono (in una pura logica di calendario, beninteso) al periodo che divise, ad esempio, il 1938 dal 1970, il ‘prima’ della seconda guerra mondiale dal ‘dopo ‘68’: una trasformazione epocale nella geopolitica (armata e di pace), nei principi regolatori della ricerca culturale, della convivenza sociale e della politica, nella composizione, nello stato, nel ruolo delle classi sociali, nei modi e negli ambiti della produzione e della tecnologia, della tutela della salute, dell’istruzione, negli assetti istituzionali costituzionalizzati, nei costumi…e chi più ne ha, più ne metta!

Ebbene, ovviamente io non voglio qui suggerire nessun parallelismo fra due periodi storici così diversi e lontani, ma mi chiedo e chiedo: abbiamo esaminato − con la profondità e, soprattutto, con l’oggettività necessarie − le trasformazioni gigantesche di questa epoca nostra, traendone tutte le conseguenze? O ci siamo soprattutto divisi, a sinistra, fra chi ha prevalentemente coltivato la nostalgia di un passato irripetibile e chi si è, invece,  prevalentemente adattato al mero compito di ‘emendare’ un contrapposto presente, apparentemente vincente e ritenuto, ormai, senza possibili alternative?
In 30 e più anni di esperienze, rari avanzamenti e frequenti disfatte, a sinistra, è divenuto ormai un obbligo morale trarre un bilancio critico, spassionato, tendenzialmente unificante, introdurre le necessarie correzioni. Un obbligo morale, prima ancora che politico, soprattutto nei confronti di quella parte di umanità subordinata che soffre l’oppressione di poteri spesso spietati, ma patisce anche i nostri errori.

Il dilemma che ho proposto è, certo, una semplificazione secca e brutale.
Non sono mancati e non mancano studi illuminanti, sforzi analitici (particolarmente nel mondo anglosassone, forse), attività ed azioni coraggiose, specie nella sfera politico-sociale non esclusivamente ‘partitica’. Ma tutto ciò non ha prodotto, qui da noi − e non solo qui −  convergenze significative, ‘senso comune’, ‘influenza di massa’ − per dirla con Franco Ferrari − neanche nella sinistra non assoggettata alle lusinghe della Restaurazione liberale, come annota con dolente lucidità Roberto Musacchio nel suo intervento.
E allora, riesaminiamo i materiali del passato e proviamo a cercare ancora, riservando uno sguardo limpido e disincantato all’oggi.

Il mio rapporto con la mia esperienza nella storia del PCI (e della sinistra)

Vengo da un’esperienza politica e culturale formatasi sostanzialmente nel PCI di Enrico Berlinguer (e soprattutto influenzata dal pensiero di Berlinguer negli ultimi suoi anni) ma vissuta − credo − con spirito aperto e con tanta curiosità, non sufficientemente accompagnata, purtroppo, dalla strumentazione culturale e dal confronto con la realtà che sarebbero stati necessari e che, poi, ho cercato un po’confusamente di procurarmi nel corso della mia successiva lunga (e non meno ‘formativa’) esperienza nella CGIL −  orientata soprattutto a contribuire al rapporto con i movimenti sociali, sul terreno dell’impegno contro la privatizzazione dei servizi di distribuzione dell’acqua, dei ‘Beni comuni’ e nei Forum ‘altermondialisti’ − e grazie a letture, riflessioni e  pratiche piuttosto nuove ed eccentriche rispetto a quelle precedenti.

Qui di seguito, quindi, mi riferirò alla mia trascorsa esperienza e, poi, esporrò sommariamente le mie attuali, opinabili valutazioni, frutto di una coltivazione piuttosto disordinata e ibrida delle mie idee in trasformazione, nel confronto con i fatti che ho potuto conoscere e ai quali ho potuto partecipare durante i lunghi anni della mia attività e della mia vita.

Devo semplificare, e la dico così: il meglio che traggo, per l’oggi, dalla mia esperienza nel PCI corrisponde a due facce della stessa medaglia. Una faccia è conservativa, l’altra nettamente innovativa. Credo si debba conservare, per l’oggi, una lucida e radicale critica del capitalismo, in quanto ideologia e pratica degli assetti di potere all’origine delle attuali crisi epocali. In questo senso, mi piace sottolineare che, con Berlinguer, il ‘passaggio di campo’ − quanto ai fondamenti, sui quali transform! italia ci interroga − non ci fu affatto. Anzi, si aprì, con l’ultimo Berlinguer, una inedita ricerca degli allargamenti qualitativi e quantitativi del campo della trasformazione radicale degli assetti capitalistici dati. I riferimenti bibliografici e documentali al proposito sono numerosi e noti (ma non casualmente sottovalutati), e solo per brevità qui non li richiamo1.
Credo, nello stesso tempo, che l’analisi attuale degli assetti di potere e dei caratteri delle crisi debba essere ancora compiutamente e radicalmente aggiornata e approfondita, e che da ciò possa scaturire un paradigma culturale e pratico nuovo per il pensiero e l’azione di una sinistra moderna, plurale, capace di puntare ad una rinnovata capacità egemonica affermata nel quadro di una democrazia partecipata.
Tengo anche a sottolineare che, non a caso, col PCI di Berlinguer (e di Ingrao, in primis, ma anche di altri) − in quegli anni che seguirono l’abbandono della strategia del ‘Nuovo, grande compromesso storico’ per quella della ‘Alternativa democratica’ − si incontrarono il pensiero e l’azione di tante e tanti compagni e amici della sinistra politica e sociale ‘a sinistra’ del PCI e fuori dal PCI: le compagne ed i compagni del Pdup guidati da Lucio Magri, Luciana Castellina e tanti altri, amiche e compagne dei movimenti femminili e femministi, amici e compagni esploratori del valore strategico dell’ecologia e della transizione all’uso delle energie alternative, pacifisti protesi verso ipotesi ardite di un ‘Governo mondiale’ (espressione molto amata e usata da Enrico Berlinguer) per la Pace e il disarmo.

Nel corso della mia successiva esperienza sindacale, ho poi vissuto i miei ultimi slanci di fiducia nel futuro, trovando conferma delle mie convinzioni, nella ricerca e nella pratica del difficile e frammentato rapporto fra sindacato e movimenti sociali, nei ‘Forum’ che presero vita a Seattle, nel 1999. La crisi dei Movimenti ‘altermondialisti’ segnò, nelle mie convinzioni, la conclusione degli ultimi, concreti tentativi di creare le condizioni per costruire un futuro ‘globale’ alternativo alla globalizzazione neoliberista.

E oggi?     

Semplifico ulteriormente, riassumo e concludo esprimendomi per punti, preceduti da una non breve considerazione.

Nel 2015 − quando la crisi delle sinistre sociali e politiche era ormai conclamata e la vulgata neoliberista si dichiarava ormai liberata anche dalla crisi finanziaria ‘sistemica’  del 2009 − mi capitò di leggere, uno dopo l’altro, due scritti che mi fecero molto riflettere: l’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco2 e Una rivoluzione ci salverà – Perché il capitalismo non è sostenibile di Naomi Klein3. Perché cito questi due scritti, fra gli altri che, pure, potrebbero essere ben richiamati? Be’, l’Enciclica papale mi apparve (ed è, credo) un ‘unicum’ irripetibile, in quanto tale. Qui mi limito, inoltre, a sottolinearne − nell’assoluta novità dell’impianto critico strettamente legato all’attualità delle crisi − l’affermazione della indisgiungibilità della ‘questione sociale’ e della ‘questione ecologica’: una valutazione, dunque, delle radici delle crisi epocali che ci travagliano, simile − dal punto di vista analitico − a quella esplicitamente socio-politica della Klein, prodotto tipico della cultura radicale anglosassone. Mi colpì, insomma, che depositi culturali così diversi potessero aver generato prodotti così convergenti, e questo confortò la mia convinzione che l’evidenza dei fatti potesse produrre convergenze di analisi, di posizioni e di possibili azioni che siamo abituati a immaginare impensabili. Nello stesso tempo emergeva, da questa impensabile convergenza, la consapevolezza della gravità della situazione e dell’urgenza dell’azione comune di tutte le donne e gli uomini di buona volontà, per dirla con Francesco.

Tutto questo mi ripropose la connessione con i primi fermenti di un nuovo pensiero, di cui ho detto a proposito dell’ultimo Berlinguer e della sinistra politica di quella fase, e alla ricerca complessa e incompiuta dei movimenti ‘altermondialisti’ nei Forum sociali di inizio secolo. Dunque, si poteva ancora tentare di riannodare fili di tanti colori diversi ma convergenti nella stessa matassa… si poteva e si doveva4.

Ma questo non è avvenuto, il tempo è passato e si fa sempre più tardi.
Il problema, dunque, è ancora tutto nostro: come far fruttare le tante, disperse, positive potenzialità pur esistenti, assumendo, nella sinistra politica, la responsabilità, l’onere e l’onore di farsi protagonisti di una svolta sempre più urgente, non solo per la sinistra in senso stretto ma − mi allargo…− per l’umanità e, in particolare, per la salvezza e la tutela della sua parte più esposta e sofferente?
La domanda, come si sa, non ammette finora, purtroppo, risposte credibilmente positive. Penso che, dal punto di vista del metodo, si imponga anche un superamento della separazione fra ricerca e azione sociale e ricerca e azione politica, esito di una meccanica e burocratica concezione e pratica della cosiddetta reciproca ‘autonomia’.

Ma su questo tornerò alla fine.
Cerchiamo ancora, dunque, ma facciamolo in tempo.
In conclusione, riassumendo e schematizzando per punti, come promesso:

  1. Il capitalismo globale finanziarizzato, iperproduttivista ed estrattivista, impegnato nella competizione più spinta, sorretta dallo sfruttamento estremo della forza-lavoro umana e della Natura, ha ormai caratteri distruttivi ed autodistruttivi sia sul piano sociale che su quello ecologico.
  2. I soggetti colpiti sono i viventi umani e non umani − ormai, secondo numerosi convergenti studi, giunti persino dinanzi al rischio estremo della ‘sesta estinzione di massa’ −, a partire naturalmente dai soggetti più deboli ed esposti sul piano geo-politico, su quello eco-sociale e sanitario e, soprattutto, sul piano generazionale, ormai insidiato se non apertamente già compromesso. Questo complesso aggregato vitale definisce, in realtà, il vero ‘campo largo’ nel quale selezionare e cercare di aggregare le alleanze naturali, sociali e politiche in grado di prevenire il peggio, di ri-costruire speranze e prospettive di futuro, rilanciando l’impegno e la lotta per una nuova democrazia eco-socialista.   
  3. L’impegno ‘anticapitalista’, oggi, non può quindi essere limitato − per così dire − entro i confini della società umana, ma deve non abbandonare ma comprendere il ‘conflitto di classe’ entro il più largo conflitto per la protezione della biosfera, insidiata dai poteri globali e locali che ne pretendono il dominio sociale ed ecologico. La competizione spinta fra i poteri dominanti per il primato nel ‘colonialismo economico’ ai fini dell’appropriazione dei minerali oggi tecnologicamente considerati essenziali (cobalto, nichel, litio, manganese ecc.) e, ancora, per l’appropriazione − con tecniche sempre più devastanti − delle sempre più scarse risorse fossili disponibili e dell’acqua, dilapidata e sempre più preziosa, produce e produrrà infatti le guerre e le migrazioni dell’oggi e del domani, prolungando ed aggravando la crisi climatica ormai prossima al limite della sua irreversibilità5.
  4. Può essere utile, infine, tenere ben presente che le conseguenze derivanti dalle dinamiche fin qui sommariamente accennate riguardano:
    • gli assetti costituzionali e democratici, sempre più insidiati dalla concentrazione tendenzialmente autoritaria dei poteri esecutivi condizionati dai dominanti poteri economico-finanziari globali e locali, con la conseguente crisi della rappresentanza politica e del suo esercizio parlamentare;
    • l’insieme della legislazione e dei diritti civili e, in primo luogo, sociali e del lavoro, conquistati nella fase dell’avanzata costituzionale post-bellica, nei cosiddetti ’30 gloriosi’ del Novecento.

Che fare?

E siamo alla questione cruciale, alla quale ovviamente non posso pretendere di dare risposta. Ma qualche cosa mi sento di dirla.

  • In primo luogo, a me pare chiaro che, nella situazione che ho sommariamente provato ad esporre − per come io la vedo − se non si vuole abbandonare la necessaria ambizione del superamento di questa fase distruttiva dell’evoluzione capitalistica, abbiamo l’obbligo di concentrare l’attenzione, anche qui da noi, sulla ri-costruzione della cultura e della pratica di una sinistra eco-socialista plurale e all’altezza delle crisi dell’oggi. Perdente e subalterna sarebbe quindi, secondo me, qualsiasi riproposizione della volontà di rilanciare un unico soggetto politico di ‘centrosinistra’, dall’identità promiscua e destinato a paralizzanti, continue mediazioni interne. Si può e si deve, certo, cercare di unire le forze e le pratiche dell’opposizione al Governo delle destre. Ma eventuali, pur necessarie alleanze ‘vincenti’, dovranno e potranno essere stabilite − se i rispettivi progetti politici lo consentiranno − fra identità ben definite e su punti di convergenza chiari, altrettanto ben definiti, realizzabili e, se necessario, limitati alle priorità più urgenti. Penso, dunque, che si debba e si possa guardare con favore alla nuova ‘leadership’ del PD, che costituisce un fattore dinamico, a sinistra. Ma − e questa è ovviamente un’opinione estrema e personale − penso anche che il tentativo di tenere unite le anime ‘incomponibili’ di quel partito, costituisca un rischio i cui effetti negativi possono essere superiori a quelli di una eventuale separazione che conduca a sinistra quanti possono e vogliono lavorare alla ricostruzione di una nuova sinistra, e altrove quanti pensano che, invece, si debba continuare a battere la strada (perdente) di un velleitario emendamento delle aspre e distruttive tendenze neoliberiste ancora in atto.
  • In secondo luogo, devo riconoscere che, purtroppo, la problematica eco-sociale che prima ho evocato è talmente aspra da indurre la fondata preoccupazione che i tempi a disposizione, a sinistra, non siano tali da consentire la costruzione dei nuovi soggetti in grado di stabilire le alleanze necessarie e vincenti in grado di prevenire il peggio. Servirebbe una convergenza tempestiva di volontà, energie e risorse ingenti che proprio non si vede all’orizzonte.

Servirebbe, innanzi tutto, la ricostruzione di un’azione convergente, a livello globale ed europeo contro la guerra in corso in Ucraina e per una stabile prospettiva di pace.
È disperante che questa assoluta priorità appaia sempre più come un obiettivo sempre più difficile da conseguire, per responsabilità proprio dei soggetti che più dovrebbero e potrebbero operare per conseguirlo. Per non dire della permanente divisione di posizioni, anche nell’area di opposizione, sulla questione della fornitura di armi all’Ucraina, in vista − evidentemente − di una sorta di ‘guerra perpetua’,  oggettivamente agevolata, peraltro, dalla sentenza della Corte Penale Internazionale che ha spiccato mandato di cattura nei confronti del ‘criminale di guerra’ Putin, proprio alla vigilia della missione del Presidente cinese.

Servirebbe, con urgenza, qui da noi, almeno un’azione coordinata delle opposizioni al governo delle destre. E anche questo sembra un obiettivo di difficile realizzazione, malgrado la positiva novità di un più ragionevole orientamento della nuova Segretaria  del PD.
Ma poi, pensando alle grandi questioni in ballo e all’alleanza necessarie fra le forze disponibili, viene in mente un catalogo di titoli da far tremare le vene dei polsi, per le divergenze ancora esistenti pure nell’area cosiddetta ‘progressista’, e per i tempi che servirebbero per costruire eventuali convergenze: si pensi soltanto al problema della raccolta delle risorse necessarie ad un rinnovato intervento pubblico specie per l’istruzione e la sanità, a fronte della ‘riforma’ fiscale promossa dalle destre; alla necessità di ricostruire le tutele sociali e le condizioni normative e programmatiche per un lavoro dignitoso, soprattutto per i giovani condannati alla precarietà più insopportabile, nella cornice di una trasformazione, seppur graduale ma urgente, della qualità dello sviluppo umano e naturale secondo l’approccio di un’ecologia integrale. Se si guarda a quanto sta avvenendo in Francia contro quella autoritaria ‘riforma delle pensioni’, c’è da chiedersi, davvero, come sia potuto accadere che, qui da noi, tutto sia passato quasi senza colpo ferire, negli anni del massimo incantamento neoliberista.

Basta. È evidente che qui devo fermarmi perché non ho più niente da dire, se non confuse e generiche parole.
L’unica cosa che mi viene in mente, chiudendo, è che servirebbe una vera e propria ‘Costituente programmaticasia sociale che politica, (aperta, in primo luogo, ai giovani attivisti climatici, se lo vorranno), preparata da una larga audizione di massa sulla base di uno schema di progetto e di priorità e, appunto, senza la pretesa di ‘ridurre ad uno’ (ad un unico soggetto politico-partitico) la ricchezza  degli apporti e la loro libertà organizzativa.

Un sogno, una fantasia senile.
Che potrebbe però essere stimolata dall’auspicabile, necessario, immediato  coordinamento di una forte ed efficace opposizione al governo delle destre.
Ma, poiché spero (e penso) di non essere ancora del tutto rimbambito, so bene che, nell’insieme, sto parlando di un’impresa di difficilissimo, improbabilissimo avvio.
E mi opprime la certezza che, purtroppo, si è fatto tardi, molto tardi.

Mi auguro che la generazione dei giovani e giovanissimi oggi in campo (ancora una minoranza, purtroppo) sia in tempo, voglia e riesca ad avviare un’epoca nuova, ‘un nuovo mondo possibile’, perdonandoci perché quello che − come generazione − gli lasciamo in eredità è − per tanti, fondamentali aspetti − peggiore di quello che abbiamo ereditato, nella seconda metà del Novecento, dai nostri padri e dalle nostre madri.

Sandro Morelli

  1. Su questi aspetti mi sono soffermato nel mio contributo pubblicato in: Il PCI a Roma – Tracce di una storia che parla ancora, pp. 255-315, Bordeaux, 2020.[]
  2. Papa Francesco, Laudato si’ – Enciclica sulla cura della casa comune, Ed. S.Paolo, 2015.[]
  3. Rizzoli, 2015.[]
  4. Non sono mancati, anche in questi ultimi anni, generosi e intelligenti tentativi di riannodare fili di pensiero e di azione, a livello locale e più generale. Ma la sfera partitica della politica prevalente di ‘centrosinistra’ ha continuato dannosamente a tenersi la sua separata e sempre più distante ‘autonomia’, destinandosi a crescenti, continui fallimenti. transform! italia è una di queste generose esperienze, e potrei citare, fra le altre, quella che ho avuto l’occasione di conoscere un po’ meglio: ‘Per una Società della cura’, promossa e coordinata da alcuni fra i più attivi protagonisti dei ‘Forum sociali’ e dell’associazionismo di inizio secolo. Nel novembre scorso fu promosso, a Firenze, “l’incontro di convergenza degli attori sociali del continente” a venti anni dal primo Forum sociale europeo. Ma il contesto, ora, è assai più cupo e meno promettente.[]
  5. Sono francamente insopportabili, per me, la supponenza e l’indifferenza che ancora caratterizzano l’atteggiamento non solo degli attuali detentori dei poteri dominanti, ma anche di amplissimi settori sociali e politici del campo cosiddetto ‘progressista’, nei confronti dei giovani e giovanissimi attivisti climatici di ‘Fridays for Future’, in lotta per la loro vita attuale e futura e, peraltro, esplicitamente e dolorosamente consapevoli (grazie agli effetti sulla propria pelle) dell’indisgiungibilità fra lotta sociale e lotta ecologica e delle radici dei guasti nell’attuale assetto capitalistico dei poteri dominanti.[]
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