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Che “razza” di Europa: l'estrema destra europea schiaccia gli stranieri

Che “razza” di Europa

di Stefano
Galieni

di Stefano Galieni – C’è un elemento inquietante che attraversa in maniera omogenea la crescita in Europa di movimenti, forze politiche, in alcuni paesi ormai anche divenute di governo e che per altri versi hanno fra loro profonde diversità e raccolgono consenso in paesi profondamente diversi fra di loro. Paesi in forte e costante crisi economica accanto ad altri che ne sono stati colpiti solo in parte o ne hanno addirittura beneficiato, regioni proiettate in una prospettiva apparentemente (ma solo tale) luminosa di “mercato globale” di cui conquistare settori o mantenere il controllo di settori produttivi importanti e altre in condizioni di arretratezza e di crescita esponenziale delle diseguaglianze. In contesti così diversi e tranne alcune eccezioni, crescono e si rafforzano pulsioni che trovano rappresentanza politica, fondate su due principi atavici.

L’ identità nazionale, considerata come condizione immutata e immutabile, fondata su una autonarrazione artificiosa, su ipotetiche età dell’oro in cui, grazie a tale purezza, vigevano prosperità, felicità e sicurezza. E, contemporaneamente, l’individuazione del nemico nel “forestiero”, in particolar modo se “povero” e soprattutto se “immigrato”, magari da paesi di cui si conserva una immagine coloniale novecentesca. Due collanti ideologici necessari per far passare in secondo piano ogni forma di ingiustizia sociale, di distruzione dei diritti fondamentali e delle conquiste portati avanti dal movimento operaio, dai movimenti femministi. I nomi stessi di alcune di queste forze, si pensi a Svezia e Germania e Italia, contengono inevitabilmente il nome del paese in cui prosperano e i colori della bandiera nazionale.

Vivono male e manifestano opposizione anche all’UE, di fatto non contestandone i trattati capestro che tante volte poi hanno votato e sottoscritto ma richiamandosi all’importanza di una “sovranità nazionale” che non sussiste nella realtà. Il loro sovranismo è in gran parte una volgare menzogna con cui attirare gli elettori e i militanti schiacciati da una Unione Europea di fatto unicamente monetaria e costruita per garantire accumulazione di capitali, circolazioni di merci. Specialmente in Italia – alcune forze sono ancora giovani per poter essere inserite in questo calderone – considerano Bruxelles il “centro del male assoluto” salvo poi evitare accuratamente di mettere in discussione le normative che garantiscono profitto e investimenti al tessuto di media e grande impresa che dall’UE non intende certo uscire. Il caso italiano, che certamente è quello che conosco con minore approssimazione, è esemplare. Un programma elettorale in cui si promettono pugni sul tavolo in Europa, abrogazione della riforma del 2012 dell’Art. 81 della Costituzione (che impone il pareggio di bilancio) e di una lunga lista di richieste di stampo sociale ed economico (sarebbe meglio chiamarli ordini), imposti dalla BCE e a suo tempo votati senza timore alcuno dalle stesse forze che oggi, da posizioni di governo, li contestano. Ma, nonostante si continui ad insistere sul tasto sovranista, di queste riforme, sociali, non c’è più traccia, la nazione a cui alludono queste forze è uno Stato in cui i poveri restano poveri, i ricchi e la proprietà sono intoccabili e sacri, e gli “stranieri che servono” si fanno entrare per i lavori che gli europei non vogliono o non sono più in grado di fare. La nostra idea di società è radicalmente diversa.

Ma è sul secondo punto che vale la pena di ragionare più a fondo. In un sistema fondato sull’insicurezza sociale derivante dall’assenza di garanzie e di prospettive è necessario incanalare la paura verso un capro espiatorio riconoscibile, facile, su cui costruire un impianto ideologico potente e pervasivo. Le forme diverse di razzismo in Europa sono questo ed hanno molti elementi in comune. È riservato ai poveri, a chi professa una religione “altra” a chi somaticamente, per il colore della pelle, per la forma degli occhi, per il nome e cognome o per quello che mangia è considerato altro e in quanto tale da respingere. Un impianto ideologico che per ora funziona, porta ad individuare il nemico, la causa del problema e a vedere nella sua rimozione / eliminazione, la soluzione possibile. Vengono in mente, ad 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali, similitudini forti, seppur nelle infinite differenze storiche, politiche e sociali, con l’antisemitismo imperante allora. Non era nato in quello che va considerato “l’anno della vergogna”, si era sedimentato in decenni, se non secoli di costruzione di immaginario negativo. Complice Santa Madre Chiesa, “i deicidi”, complice la costruzione di stereotipi e di narrazioni fondate sul nulla, da quelle di colti complottisti “I protocolli di saggi di Sion” alla ritrosia divenuta rapidamente senso comune, diffidenza mai celata, disprezzo misto ad invidia sociale da dover anche in tal caso dirottare verso una identità altra.

L’antisemitismo che utilizziamo, ripeto senza voler fare forzature o inadeguate equazioni, come termine di paragone, si nutriva di leggende metropolitane ante litteram e si è diffuso non solo nei paesi in cui poi sono nati fascismo e nazismo. Nelle democrazie anglosassoni come nei paesi dell’Est, riscuoteva altrettanto successo e consenso anche da parte degli establishment. Quello che c’è oggi ripeto non è paragonabile. Il mondo, nonostante il tradizionalismo di ritorno, è cambiato e i processi di interdipendenza culturale, economica e sociale sono irreversibili. La globalizzazione, che ha certamente carattere neoliberista, deve subire anche il fatto che ad esempio si sia passati attraverso i sistemi di informatizzazione del sapere, ad un mondo in cui idee ed identità circolano, si mescolano, si contaminano. Anche quelle rivoluzionarie, anche quelle che possono divenire sanamente antisistema. E contemporaneamente possono riprendere vigore fenomeni di ritorno al passato in chiave apparentemente moderna per cui l’equazione nazione = “razza” e la stessa concezione del confine rimandino al passato più buio. E se ieri eravamo “noi” a volerci “giustamente” prenderci le “loro” terre, le “loro” risorse, le “loro” donne, oggi, in piena ossessione da cambiamento e da rifiuto del presente, la percezione dell’invasione dell’altro assume forme patologiche.

A volte, spesso negli ultimi tempi, queste si trasformano in atti di violenza, aggressioni indiscriminate, insulti fra i cui il più neutro è “torna a casa tua”, rivolto magari anche a chi in questo paese è nato e cresciuto, fino allo sfociare in vere e proprie forme di organizzazioni politiche, anche di massa, disposte a tutto pur di “difendere il sacro suolo”. Anche a dimenticare che padroni autoctoni o meno, nel frattempo distruggono le basi dei diritti elementari per tutte/i. E anche le forme, nei singoli paesi, hanno elementi in comune. Organizzazioni che magari nascono con poche ambizioni e poi si espandono tanto da divenire forze di governo e a quel punto moderano anche i toni, diventano rispettabili e cementano relazioni con chi non ne accetta gli approcci eversivi. Accade in Italia con la Lega, in Francia, dove la gestione di Le Pen figlia è radicalmente diversa da quella paterna, in Austria, dove l’Fpo si presenta in giacca e cravatta e in Germania dove AfD che sta irrompendo, prende già le distanze dai gruppuscoli. Si perché per ognuna di queste forze che prova a farsi stato c’è una galassia di gruppi, su base territoriale o nazionale, che agisce in maniera più radicale, prendendosi la responsabilità di reati e aggressioni, usando spranghe e muscoli contro stranieri, solidali e opposizioni politiche, fungendo in fondo da braccio armato di veri e propri fascisti in doppio petto.

Le recenti elezioni svedesi ne sono l’ennesima controprova. Mentre SD (Svezia Democratica) cresceva nei consensi, c’erano bande neonaziste che andavano letteralmente a minacciare gli elettori e le elettrici non conformi nei seggi elettorali. Ed in molte piccole realtà territoriali, soprattutto nelle zone periferiche sono stati eletti amministratori con un passato ed un presente carico di denunce per istigazione all’odio razziale o reati connessi, tutt’ora militanti e dirigenti di gruppi dichiaratamente violenti, xenofobi e omofobi, che una volta assicuratisi lo scranno hanno saldamente ripreso la propria propaganda razzista. Gruppi che spesso hanno collegamenti internazionali e forme associative comuni. La campagna Defend Europe, ad esempio, gestita dal gruppo che in Italia ha assunto il nome di Generazione Identitaria e che la scorsa estate è stata protagonista di tentativi di fermare con atti di pirateria l’arrivo di migranti, (in realtà ha compiuto soprattutto azioni di propaganda) è presente in mezza Europa, raccoglie fondi e militanti. Si dichiara apolitica però agiva secondo un intento ben preciso che nei fatti è stato raccolto e si cerca di istituzionalizzare in Italia con il governo giallo verde. Si tratta di gruppi ristretti che poi hanno realizzato momenti pubblici con esponenti delle destre europee, né più ne meno come nei vari raduni, forze di grandi dimensioni nazionali hanno invitato omologhi in altri paesi mentre i gruppuscoli militanti spesso satellitari hanno reso la stessa cortesia a realtà simili nel resto del Continente.

Sto ovviamente generalizzando, divisioni e distanze anche in quegli ambienti esistono e sono profondi, dal rapporto con la chiesa a quello con il capitalismo, da coloro che ancora considerano valida l’idea di una “superiorità bianca”  (copiando il suprematismo statunitense) a chi afferma il diritto/dovere di ogni popolo di vivere a casa propria senza contaminare gli altri. Da chi distingue migranti bianchi dagli altri, cattolici dagli altri, bravi lavoratori o imprenditori, dagli altri, fino ai raffinati che propongono vere e proprie gerarchie etniche per dividere chi è compatibile, intanto con l’Europa e poi, ancora più complesso, con la propria nazionalità. C’è sempre insomma qualcuno più a sud, più nero, da colpire. E in fondo alla gerarchia restano i rom, colpevoli mille volte, perché non hanno una nazione, perché “non producono”, non si “assimilano” e sono per di più spesso inespellibili quanto fastidiosi. Una dimensione che attiene al passato? Basti pensare che dalle ultime ricerche effettuate, quindi in un contesto di sdoganamento totale del razzismo di classe e di totale impunità verso taluni crimini (goliardate) a non accettare in casa un musulmano come membro della famiglia sarebbe oggi il 43% degli italiani, a non accettare uno che professa religione ebraica il 24% . Indovina chi viene a cena?

Una questione che attiene ancora al colore della pelle, come afferma la professoressa Angelica Pesarini secondo cui l’”italianità” ha sempre eluso tale questione, partendo dal principio che gli italiani sono naturalmente bianchi. Una questione che ha radici storiche e legislative se è vero che le leggi producono cultura e la cultura determina leggi. Dalle normative coloniali del 1909 alla legge sulla cittadinanza del 1992 ancora non modificata, la cittadinanza è ancora indissolubilmente legata al “sanguinis” a criteri privi di qualsiasi valore anche scientifico ma dal forte peso ideologico. Ed una questione che non riguarda solo “neri” e “stranieri”. Si prenda ad esempio l’ordinanza che sta preparando il sindaco di Pisa in merito all’assegnazione di alloggi popolari. Per avere vantaggi in graduatoria più che il reddito o il numero di figli conta l’aver già vissuto a Pisa ininterrottamente da almeno 5 anni, a Pisa non in Italia o in Europa. Sarà escluso chi è andato a vivere per 3 mesi a Livorno?

E nel far capire che la china intrapresa porterà anche a simili degenerazioni legislative possono nascere forme inclusive di nuova resistenza. Non è sufficiente l’antirazzismo etico, non basta parlare di solidarietà e accoglienza come diritti inviolabili. Chiaramente questi vanno richiesti e praticati. Si tratta di riorientare il pensiero comune provando a ritradurre il presente, volendo proporre vere alternative di società. Dicendo e potendo dire che diritti essenziali come casa, lavoro dignitoso, sanità e istruzione debbono essere garantiti a prescindere. Ci sono i mezzi, le risorse, i luoghi e le possibilità. Come c’è la possibilità di agire in maniera tale da poter far divenire le migrazioni, scelte e non costrizioni. Non sono paragonabili i motivi per cui si fugge da Eritrea o Siria rispetto a quelli per cui si scappa sempre più frequentemente dall’Italia ma riuscire a far comprendere che esistono anche similitudini che hanno a che fare col nostro modello di sviluppo e non con elementi trascendenti o peggio ancora dovuti a complotti messi in atto da sordidi affaristi per creare eserciti industriali di riserva è urgente.

Basterebbe imparare a dire che in Europa ci sarà sempre meno lavoro e che la creazione di manodopera di riserva non solo è una falsità ma risulta inutile. Che alternativa? Una riduzione massiccia dell’orario di lavoro tale da assorbire inoccupati a salari sufficienti per vivere. Ovviamente questo è uno degli aspetti. Altrettanto fondamentale è un’opera di redistribuzione degli immobili, di investimento su scuola e sanità, da svolgere contemporaneamente qui e nei paesi di emigrazione. Al posto dell’”aiutiamoli a casa loro” (ipocrita slogan che potrebbe essere frutto di geni del marketing di aziende militari) “aiutiamoci nelle nostre diverse case”, a volte per muoversi, a volte per restare. Rovesciamo la piramide insomma, partendo da due presupposti fondamentali: il primo è quello per cui se la parola ha ancora un senso, dobbiamo affermare “nostra patria è il mondo intero”. Il secondo è più difficile da rendere come immagine ma il senso è semplice. “Ci hanno fatto credere ad una guerra fra poveri affinché ci scanniamo fra di noi per dividerci le briciole e per non capire che la vera guerra è degli sfruttatori contro sfruttate/i. L’antifascismo e l’antirazzismo nascono da qui, altrimenti divengono inutili ritualità fra tifoserie indistinte per chi ci guarda da fuori.