Nella poca chiarezza che ancora sussiste sull’entità dei fondi europei e sulle modalità con cui verranno elargiti, i soggetti più aggressivi si stanno già preparando per ottenerne la fetta più grossa. Anche da parte del governo italiano mi sembra che ci sono ancora idee poco precise su come e per cosa usare quelle risorse.
Vorrei provare a portare alcuni spunti di riflessione su questo tema.
In primo luogo è chiaro che una parte consistente di questi soldi devono essere usati per risarcire il Sistema Sanitario nazionale e il Sistema dell’istruzione e della ricerca pubblica dai furti che hanno subito in questi ultimi decenni di tagli sconsiderati. Naturalmente queste risorse non vanno date una tantum, ma vanno previste in maniera continuativa per i prossimi anni.
Certamente è necessario supportare, nell’immediato, i diversi soggetti che in questa fase di emergenza sanitaria hanno subito gravi colpi che si sono aggiunti ad altri problemi già presenti. Penso soprattutto a coloro che sono rimasti senza lavoro o che il lavoro non lo avevano neppure prima dell’emergenza, penso anche a molte piccole attività che hanno bisogno di liquidità per riprendersi, penso anche a dei settori come quelli della cultura dello spettacolo.
Rimane, infine, il tema più complesso del “rilancio del sistema produttivo”, che oggi, alla luce di altre indifferibili questioni, come quelle della “crisi climatica”, della carenza risorse materiali, o dell’aumento delle “povertà”, dovrebbe essere ridefinito con il titolo “transizione verso un altro modello economico”.
Su questi temi, ma soprattutto su quello della transizione, non basta un lavoro “contabile” di distribuzione delle risorse nelle varie caselle. È, invece, necessario approfondire alcuni concetti ed impostare un progetto di medio periodo. Su questo tema, non sembra di poter vedere una strategia da parte del Governo italiano, assediato, proprio in questo momento, da una Confindustria quanto mai retriva, che non vuole regole e restrizioni, né per quanto riguarda i contratti di lavoro, né per quanto riguarda regole più generali (si pensi all’intenzione di sospendere il Codice appalti).
La necessità di queste riflessioni dovrebbe essere vista anche per potersi connettere a quelle indicazioni che hanno cominciato ad emergere, in modo talvolta discutibile, nelle Comunicazioni del che la Commissione europea ha emanato sul “Green Deal” (si vedano ad esempio la COM (2018) 93 del 8.3.2019 sulla “finanza sostenibile”, la COM (2019) 640 del 11.12.2019, la COM (2020) 21 “Piano di investimenti del Green Deal europeo” del 14.1.2020 e la successiva COM (2020) 98 “Un nuovo piano d’azione per l’economia circolare” dell’11.3.2020).
Propongo, perciò, alcuni spunti iniziali per discutere della transizione e per promuovere delle azioni strutturali da intraprendere in via prioritaria:
- la necessità di pensare in una logica di “ciclo di vita” (il cosiddetto Life cycle thinking) e non secondo la logica “businnes as usual”;
- concentrarsi sulla necessità di lavorare alla cura del territorio, come grande opera pubblica essenziale e prioritaria per l’Italia;
- individuare i primi settori su cui iniziare a programmare e ad investire per la transizione.
Pensare secondo una logica di ciclo di vita
Pensare secondo una logica di ciclo di vita non vuol dire solamente che i costi di un prodotto o di un servizio non sono solo quelli dell’acquisto ma anche quelli determinati dall’uso del prodotto, e dalla necessità di smaltirlo una volta dismesso. Pensare in questa logica vuol dire pensare a tutte le tappe, i luoghi e le modalità organizzative in cui il prodotto e il servizio viene progettato e costruito, considerando, per tutte le fasi del ciclo di vita, i costi ambientali e sociali che il prodotto o il servizio in questione hanno sull’ambiente e sulle collettività interessate alla sua produzione e al suo uso. Spesso questi costi sono collocati in luoghi e tempi molto distanti, dal momento in cui il prodotto viene consumato. Per cui i cittadini/consumatori e i decisori politici non ne tengono conto, o fanno finta di dimenticarsene. Infatti, ad esempio, il costo reale (sociale, economico ed ambientale) che una produzione delocalizzata ha nell’immediato e avrà (magari fra un mese o magari tra 10 anni) sulle popolazioni locali e sul pianeta intero non viene mai contemplato, né nelle modalità e nei criteri di consumo, né in quelle dell’acquisto.
La produzione ed il consumo di un semplice manufatto (esempio un imballaggio in polistirolo espanso), di un prodotto chimico per l’agricoltura (ad esempio un diserbante), o di un prodotto tecnologico (un telefonino, un’automobile), sfugge a qualsiasi riflessione e analisi sugli impatti ambientali, sulle modalità con cui è prodotto e usato, sulla sua effettiva utilità, o sulla possibilità di sua sostituzione con un altro prodotto o magari con un servizio. I risultati di tutto ciò sono, magazzini sterminati pieni di prodotti invenduti, il crescente inquinamento ambientale, e l’aumento crescente del disagio sociale e del divario fra ricchi e poveri.
Pertanto la parola d’ordine “RIPARTIRE”, senza dire verso quale direzione, appare insensata.
Pensare in questa nuova logica (quella del ciclo di vita), significa orientare l’utilizzo delle risorse per incentivare quei modelli produttivi che tengono conto di questa visione, e che in questo modo possono essere “premiati” dalla Pubblica Amministrazione (ad esempio attraverso gli appalti pubblici). Da questo punto di vista è davvero grave che alcune forze politiche e alcuni operatori economici richiedano la sospensione del pur migliorabile “codice degli appalti”, che per la prima volte introduce il concetto di “costo del ciclo di vita”.
Per questo motivo è indispensabile che il Governo si doti di una Politica produttiva (cosa che ormai non esiste più dagli anni ’60) orientata su questi concetti. Una politica produttiva in grado di pianificare cosa necessita ad un paese, al di la della falsa convenienza che è più comodo e meno costoso far produrre un determinato prodotto in un’altra parte del Mondo. Possiamo pensare al caso delle mascherine di questi mesi, ma potremmo anche pensare al fatto che oltre il 90% dei tessuti in cotone che arriva in Europa è prodotto in tre paesi dell’Asia, o quello che la nostra industria dell’illuminazione compra tutta la componete avanzata degli apparati (il led) in tre o quattro paesi esteri, Tutto per il motivo che quel che conta è solo il “costo del lavoro”. Ma forse ora cominciamo a renderci conto che gli altri costi li paghiamo o li pagheremo noi.
Pertanto l’Italia dovrebbe cominciare ad utilizzare le risorse economiche di cui disporrà per incentivare quelle produzioni che rispondono meglio a questi concetti; a questo scopo vi sono già molti riferimenti di standard qualitativi, sia nei molti protocolli e marchi ambientali, sia nei criteri ambientali per gli acquisti verdi (i cosiddetti CAM)
Concentrarsi sulla cura del territorio e il governo delle acque
Tale tema appare quasi banale nella sua enunciazione, ma purtroppo, ancora oggi poco o nulla è stato fatto in proposito.
Pur non avendo dei dati più recenti, e ragionando solo su dati di qualche anno fa, appare non solo necessario ma anche utile socialmente, ambientalmente ed economicamente investire i questi due settori. I vecchi numeri parlavano della necessità di investire circa 100 miliardi in dieci anni (60 per le infrastrutture idriche e 40 per la difesa idrogeologica. Questi investimenti, senza contare i vantaggi dell’ambiente, avrebbero il vantaggio di occupare da 100 a 150 mila persone l’anno, di evitare o ridurre notevolmente i costi per rispondere ad eventi disastrosi (gli studi fatti nel decennio scorso hanno dimostrato che le spese di riparazione dei danni sono maggiori di quelle che si dovevano sostenere per ridurli o evitarli). Tutto ciò senza contare la possibilità di salvare vite umane.
Individuare i primi settori su cui iniziare a programmare e ad investire per la transizione
Diversi sono i settori prioritari su cui intervenire. Mi soffermo brevemente solo su uno: il settore dell’edilizia e dell’abitare. C’è ne sono almeno altri tre: quello delle produzioni agricole e zootecniche, quello dei trasporti e quello del turismo e cultura, ma l’articolo sarebbe troppo lungo e rimando ad altri momenti.
Per quanto riguarda l’edilizia va sottolineato che, oltre ad evitare nel modo più deciso possibile, qualsiasi nuova occupazione di suolo, le risorse economiche vanno concentrate su due versanti 1) la ristrutturazione del patrimonio edilizio con criteri ecologici ed antisismici; 2) una nuova politica dell’abitare.
Per quanto riguarda il primo punto il discorso è abbastanza semplice: ristrutturare il patrimonio edilizio con criteri di ecosostenibilità, oltre a rappresentare una grande opportunità per l’economia e l’occupazione, permetterebbe la riduzione significativa di molti impatti ambientali (all’edilizia vengono imputati il 40% degli usi finali di energia, 35% delle emissioni di gas serra, 50% del totale dei materiali estratti, 30% del consumo di acqua, 33% del totale della produzione di rifiuti), e la riduzione della spesa energetica (per gli edifici italiani si stima un consumo annuo maggiore di 150kwh/m2, mentre per alcuni paesi del nord Europa la media nazionale è 70/80kwh/m2, e per gli edifici migliori ci si avvicina allo 0). Naturalmente questo tipo di interventi richiede da un lato controlli sui materiali e sui processi produttivi che attestino il rispetto di standard qualitativi (per esempio attraverso l’uso della certificazione) e dall’altro un investimento sulla formazione del personale (cosa che contrasta per default l’utilizzo della mano d’opera in nero). Entrambe le cose non sono ben viste da una parte consistente dei costruttori edili. Peraltro anche molte regioni con la scusa di un federalismo miope vorrebbero standard di certificazioni regionali, e la riduzione di alcune indicazioni vincolanti introdotte con il Codice appalti del 2016. Su questo tema bisogna riconoscere che il governo è in parte intervenuto con le detrazioni fiscali per le spese di ristrutturazione, ma molta è la strada da fare su patrimonio pubblico (c’è una direttiva europea del 2012 ancora inapplicata).
La politica dell’abitare è l’altro punto importante che dovrebbe essere tenuto presente nelle politiche governative in un momento in cui a una situazione già difficile si sono aggiunti i danni provocati dalla crisi sanitaria. Vi sono moltissimi edifici ed appartamenti lasciati vuoti. Oltre a mettere in pista una seria azione di regolazione del mercato, bisogna utilizzare delle risorse pubbliche per sostenere una politica che consenta di avere affitti a prezzo accessibile, che crei possibilità di housing sociale, che regolamenti anche gli affitti per locali adibiti a piccole attività produttive. Insomma una diversa politica dell’abitare non più ostaggio di speculazioni piccole e grandi.
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Capisco che l´articolo non poteva menzionare tutti gli argomenti emergenti. Vorrei però ricordare l´importanza del cambiamento di paradigma legato all´alimentazione indicato dal movimento Slow Food e dalle tesi (e pratiche) di Carlo Petrini.