Per rispondere all’interrogativo si potrebbe sostenere, con qualche ragione, che l’unica soluzione possibile si trova nella ricostruzione della storia dei partiti e degli stati che si sono richiamati (e in qualche caso ancora si richiamano) al “comunismo”. Ma questo non è evidentemente l’obbiettivo del presente articolo che invece si pone un diverso interrogativo. Qualcosa che ha più a che fare con la storia delle idee che non può essere separata dall’insieme del contesto storico all’interno del quale vengono formulate ma hanno comunque una loro autonomia.
Quindi, più precisamente, si tratta di capire come nel corso del tempo coloro che si sono riconosciuti nella prospettiva del comunismo come indicata originariamente da Marx e da Engels hanno dato risposta a questa domanda. Trattandosi di un lungo periodo storico si dovrà procedere per esemplificazione e anche schematizzazioni. Inevitabilmente la natura dell’interrogativo non può che imporre un’analisi dei testi per coglierne gli elementi di continuità e di rottura.
Il comunismo di Marx e di Engels
Nella voluminosa letteratura prodotta da Marx e Engels, in parte insieme e in parte separatamente, si possono trovare alcune definizione, tra loro diverse, di comunismo.
Una delle più citate si trova ne “L’ideologia tedesca”, che venne scritto nel 1845-46 ma mai pubblicato.
“Il comunismo per noi non è uno stato di cose che deve essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. (ndr: le sottolineature qui e successivamente sono tutte contenute nei testi originali).
Il termine chiave in questo caso è quello di “movimento”, ma la frase sollecita alcuni interrogativi. E’ chiarissimo nel rifiutare l’approccio del socialismo utopistico basato sullo costruzione di un modello di nuova società immaginato da un pensatore e poi proposto alla sua realizzazione con un approccio verrebbe da dire di tipo missionario. Oltre a questo Marx sottolinea che il comunismo deve essere un movimento “reale”? Ci sembra di poter rispondere che, risentendo in questo della visione hegeliana, il movimento così definito debba essere radicato nel processo storico, essere espressione di contrasti effettivi presenti nello “stato di cose presenti” e non prodotto della sola volontà soggettiva. Il “movimento” è posto in primo piano, ma non viene specificato da chi sia formato questo movimento e il suo fine è espresso in termini solo negativi. Si “abolisce” lo stato di cose presente, ma non si indica ciò che lo dovrebbe sostituire per diventare a sua volta un nuovo stato di cose presenti.
Questi interrogativi non restano però senza risposta se si integrano con altri testi dei due rivoluzionari tedeschi.
In un testo del 1847, “I principi del comunismo”, scritto da Engels in forma di domanda e risposta, il primo interrogativo posto è: “che cos’è il comunismo?” La risposta è la seguente: “il comunismo è la dottrina che definisce le condizioni per la liberazione del proletariato”.
Non più “movimento” ma “dottrina” e di questa è però definito quale sia il fine: “la liberazione del proletariato”.
Questa “liberazione” si concretizza nella costruzione di un “nuovo ordine sociale” il quale “dovrà innanzitutto sottrarre l’esercizio dell’industria e di tutte le branche della produzione, in generale, agli individui isolati, che si fanno concorrenza l’uno con l’altro, per consegnarli alla società tutta intera. Ciò significa che saranno gestiti per l’interesse comune, attraverso un piano comune, con la partecipazione di tutti i membri della società.” Questo obbiettivo implica necessariamente la soppressione della proprietà privata che sarà “rimpiazzata dall’utilizzazione collettiva di tutti i mezzi di produzione e la ripartizione di tutti i prodotti di comune accordo, quello che si definisce la comunione dei beni”. La soppressione della proprietà privata è “la principale rivendicazione dei comunisti”.
Engels precisa poi che la soppressione della proprietà privata non è possibile in “un colpo solo”, così come “non è possibile accrescere d’un solo colpo le forze produttive già esistenti in una misura tale che si possa stabilire un’economia collettiva dall’oggi al domani”. La rivoluzione proletaria – aggiunge Engels – “non potrà di conseguenza che trasformare poco a poco la società attuale e non potrà sopprimere completamente la proprietà privata che quando avrà creato la quantità necessaria dei mezzi di produzione”. La rivoluzione installerà un “regime democratico e, per ciò stesso, direttamente o indirettamente il dominio politico del proletariato”.
In sintesi gli elementi fondamentali del nuovo ordine sociale saranno:
– l’associazione generale di tutti i membri della società in vista dell’utilizzazione collettiva e razionale delle forze produttive;
– l’estensione della produzione in proporzioni tali ch’essa possa soddisfare i bisogni di tutti;
– la liquidazione di uno stato di cose nel quale i bisogni degli uni non sono soddisfatti che a spese degli altri;
– la soppressione completa delle classi e dei loro antagonismi;
– lo sviluppo completo delle capacità di tutti i membri della società grazie alla soppressione della divisione del lavoro così come è stata realizzata finora, grazie all’educazione basata sul lavoro, ai cambiamenti di attività, alla partecipazione di tutti ai godimenti creati da tutti, alla fusione tra la città e la campagna.
Il testo definisce anche la differenza tra i comunisti e i socialisti. Questi ultimi sono divisi in tre categorie: quelli che dai mali della società attuale traggono la conclusione che bisogna ristabilire la società feudale o patriarcale; i partigiani della società attuale, che la vogliono mantenere cercando di sopprimere i mali che da essa scaturiscono; i socialisti democratici i quali vogliono realizzare gran parte degli obbiettivi dei comunisti “ma non come mezzo di transizione verso il comunismo ma come mezzo sufficiente per sopprimere le miserie e i mali della società attuale”.
Con questi ultimi i comunisti potranno condurre una politica comune nella misura in cui costoro non si mettono al servizio della borghesia e non attaccano i comunisti, senza escludere la discussione sulle divergenze che esistono.
Parte di queste formulazioni verranno poi riprese nel Manifesto Comunista che abbandonerà la forma catechistica (ma di grande chiarezza) del testo di Engels. Nel Manifesto diventa particolarmente significativa la definizione delle caratteristiche del “partito comunista” rispetto agli altri partiti operai.
Scrivono Marx ed Engels: “I comunisti non costituiscono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai.
Essi non hanno interessi distinti dagli interessi del proletariato nel suo insieme.
Non erigono principi particolari sui quali vogliano modellare il movimento proletario.
I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell’intero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo. (…)
Lo scopo immediato dei comunisti è quello stesso degli altri partiti proletari: la formazione del proletariato in classe, rovesciamento del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato”.
I comunisti – aggiungono – “lottano per raggiungere gli scopi immediati della classe operaia, ma nel movimento presente rappresentano in pari tempo l’avvenire del movimento stesso”.
Nel Manifesto viene introdotto un altro concetto importante che definisce la “società comunista”, il deperimento dello Stato.
“Quando, nel corso dell’evoluzione, le differenze di classe saranno sparite e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra. Se il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma sé stesso in classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni d’esistenza dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe.
Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe subentra un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti”.
Marx non amava scrivere “ricette per le osterie dell’avvenire”, un esercizio che sarebbe stato in contrasto con l’affermazione contenuta nell’Ideologia tedesca, sopra citata, secondo la quale il comunismo non è un ideale al quale la realtà debba adattarsi. Però in un testo del 1875, la “critica del programma di Gotha”, pogramma sulla base del quale si erano unificati in Germania i seguaci di Marx e di Engels con quelli di Lassalle, Marx introduce una distinzione che successivamente diventerà uno dei fondamenti della visione marxista “ortodossa”.
Nella “prima fase della società comunista, quale è uscita, dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalistica”, il “produttore singolo riceve – dopo le detrazioni – esattamente ciò che le dà. Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità individuale di lavoro.”
In questa “prima fase” continua a dominare “lo stesso principio che regola lo scambio di cose di valore uguale. Contenuto e forma sono mutati, perché, cambiate le circostanze, nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perché d’altra parte niente può passare in proprietà del singolo all’infuori dei mezzi di consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di questi ultimi tra i singoli produttori, domina lo stesso principio che nello scambio di equivalenti di merci: si scambia una quantità di lavoro in una forma contro una uguale quantità in un’altra”.
Marx indica poi gli elementi propri ad una “seconda fase”:
“In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro è divenuto non soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere; Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”.
Da questa rapida rassegna emerge come alla parola comunista vengano assegnati significati diversi ma tra loro intrecciati. Il comunismo è un movimento reale della storia, che richiede l’azione politica soggettiva di un partito, dotato di una dottrina e che opera per realizzare le basi di una nuova società.
Il comunismo da Lenin all’ideologia sovietica
Le finalità di Marx resteranno largamente condivise anche da molti di quei partiti che tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 si definiranno generalmente come socialisti o socialdemocratici. La ripresa del nome “comunista”, per indicare una corrente di partiti politici che si richiamano al marxismo ma che elaborano un progetto politico proprio, avviene con l’impatto della prima guerra mondiale. Lenin e altri esponenti di sinistra della Seconda Internazionale riterranno necessario rompere con i maggiori partiti socialdemocratici in quanto questi, aderendo alla logica della guerra, hanno dimostrato di non poter essere più strumenti validi per realizzare quella rottura rivoluzionaria indispensabile per avviare una trasformazione della società in senso comunista.
In “Stato e rivoluzione” Lenin rielabora quanto scritto da Marx nella sua critica al programma di Gotha. Definisce, con una formula che diventerà poi canonica, la “prima fase del comunismo” come “socialismo”.
“La prima fase del comunismo non può dunque ancora realizzare la giustizia e l’uguaglianza; rimarranno differenze di ricchezze e differenze ingiuste; ma non sarà più possibile lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, poiché non sarà più possibile impadronirsi, a titolo di proprietà privata, dei mezzi di produzione, fabbriche, macchine, terreni, ecc. (…) Marx indica il corso dello sviluppo della società comunista, costretta da principio a distruggere solo l’’ingiustizia’ costituita dall’accaparramento dei mezzi di produzione da parte dei singoli individui, ma incapace di distruggere di punto in bianco l’altra ingiustizia: la ripartizione dei beni di consumo ‘secondo il lavoro’ (e non secondo i bisogni)”.
Polemizzando con vari autori Lenin aggiunge che “la differenza scientifica tra socialismo e comunismo è chiara. Marx chiama ‘prima’ fase o fase inferiore della società comunista ciò che comunemente viene chiamato socialismo. La parola ‘comunismo’ può essere anche qui usata nella misura in cui i mezzi di produzione divengono proprietà comune, purché non si dimentichi che non è un comunismo completo. Ciò che conferisce un grande pregio all’esposizione di Marx è ch’egli applica conseguentemente anche qui la dialettica materialistica, la teoria dell’evoluzione, e considera il comunismo come un qualcosa che si sviluppa dal capitalismo”.
Il rivoluzionario russo precisa ancora che “in regime comunista sussistono, per un certo tempo, non solo il diritto borghese, ma anche lo Stato borghese, senza borghesia!”. Questo non deve sorprendere perché “la vita ci mostra ad ogni passo, nella natura e nella società, che vestigia del passato sopravvivono nel presente”.
Due massimi dirigenti del partito bolscevico, Bucharin e Preobazenskij, pubblicano nel 1919 un manuale intitolato “Abc del comunismo”. L’interesse di questa opera non è tanto per la sua validità teorica, anzi Luciano Gruppi introducendola ne sottolinea il “difetto di scolasticismo”, quanto per il fatto che fu largamente “diffusa e nota tra i comunisti negli anni ‘20”. In Bucharin – annota ancora Gruppi – “lo sforzo di scrivere con chiarezza, in modo largamente accessibile, era sempre presente. Vi è in lui l’impegno proprio del rivoluzionario di giungere ad un pubblico di lettori più vasto di quello abituale, di fare accedere ai più alti livelli di cultura nuovi strati e nuove classi sociali”.
Dopo aver descritto i tratti fondamentali del “sistema capitalista”, del suo sviluppo e della sua inevitabile crisi, i due autori delineano le caratteristiche del “sistema comunista”.
“Abbiamo visto perché il sistema capitalistico è destinato a scomparire (…). Muore perché contiene in sé due contraddizioni fondamentali: da un lato l’anarchia della produzione, che porta alla concorrenza, alle crisi, alle guerre; da un altro lato, il carattere classista della società, che conduce inevitabilmente alla lotta di classe. La società capitalista è come un congegno mal costruito, in cui una parte si scontra inevitabilmente con l’altra. Perciò, prima o poi, questo meccanismo deve inevitabilmente saltare”.
La nuova società non dovrà avere in sé le contraddizioni della precedente. “Le caratteristiche del sistema di produzione comunista sono le seguenti: 1) questa società deve essere una società organizzata; non devono apparire in essa né anarchia della produzione, né concorrenza tra imprese private, né guerre, né crisi; 2) deve essere una società senza classi e non deve comprendere due metà sociali in eterna lotta tra loro; non potrà essere inoltre una società in cui una classe è sfruttata da un’altra. Una società senza classi ed in cui tutta la produzione sia organizzata non può che essere una società fraterna, la società del lavoro, la società comunista”.
Questo sistema “non presuppone più la produzione per il mercato, ma la produzione per soddisfare i bisogni di tutti. Solo che ora il singolo non lavora per sé stesso, ma è tutta la comunità che lavora per tutti. Non ci sono più merci, ma soltanto prodotti”. Nell’”Abc del comunismo” la distinzione tra una prima fase (il socialismo) e una seconda (il comunismo vero e proprio) è più sfumata che nel Lenin di Stato e rivoluzione, forse anche perché ci troviamo nel periodo del cosiddetto “comunismo di guerra” nel quale, per effetto della situazione economica e sociali determinata dalla guerra civile, si ritiene di poter introdurre elementi che appartenevano alla fase superiore della società emersa dalla sconfitta del capitalismo. Anche se – aggiungono gli autori – “agli inizi della società comunista, i prodotti saranno equamente distribuiti secondo il lavoro prestato e, più tardi, semplicemente secondo i bisogni di tutti i membri della comunità”.
Condizione perché ciò avvenga è “un enorme sviluppo delle forze produttive, cosicché ogni lavoratore dovrà compiere meno lavoro”. Certamente “lo Stato morirà” ma ciò “potrà avvenire solo nella società comunista già sviluppata e consolidata, dopo la vittoria completa e definitiva del proletariato”. Per questo, ottimisticamente, “dovranno passare ancora due o tre generazioni”.
Con un salto in avanti di qualche decennio ritroviamo formulati una serie di concetti che sono diventati costitutivi dell’ideologia sovietica, e che vengono formalizzati nel principale manuale di studio per i quadri e i militanti e initolato: “I fondamenti del marxismo-leninismo”. Un grosso volume di quasi 900 pagine che viene aggiornato in relazione agli orientamenti politici che si affermano ai vertici del PCUS. L’edizione a cui facciamo riferimento è quella pubblicata in lingua inglese nel 1961, ovvero in piena fase kruscioviana.
L’ultimo capitolo del libro è dedicato alla “società comunista”, che in quel momento è considerata ancora da venire ma in tempi non lontanissimi. Il punto di partenza resta sempre la sintetica formulazione di Marx nelle critiche al programma di Gotha che abbiamo citato sopra.
“Il comunismo – spiegano gli autori – è una società che mette fine al bisogno e alla povertà una volta per tutte, assicurando il benessere ai suoi cittadini”. Questo obbiettivo è possibile perché “le basi materiali e tecniche del comunismo sorgono (…) innanzitutto come risultato di una generale meccanizzazione e automazione, una rapida crescita delle risorse energetiche, una decisiva avanzata delle industrie chimiche e della altre in via di sviluppo, e una radicale trasformazione dell’agricoltura sulle basi degli ultimi risultati ottenuti dalla scienza e dalla tecnologia”.
“Il comunismo scientifico – specificano poi i compilatori sovietici – guarda perciò ai problemi dell’abbondanza universale in connessione inseparabile con i problemi dello sviluppo della produzione socialista e la crescita della produttività del lavoro. Questo è indubbiamente l’unico approccio praticabile. Esso distingue i Marxisti da tutti i sostenitori del cosiddetto ‘comunismo del consumo’ che, discutendo la via dell’abbondanza, hanno messo l’accento non sulla produzione, ma sulla distribuzione dei benefici materiali. Il loro ideale era la semplice divisione, la distribuzione tra i membri della società di tutte le ricchezze accumulate, sia quelle possedute individualmente che quelle concentrate nelle mani della società, che dovrebbero essere utilizzate per lo sviluppo della produzione. Ma questa divisione può solo creare una breve illusione di benessere generale. Dopo di che essa condurrebbe inevitabilmente non all’abbondanza, ma all’impoverimento, non all’eguaglianza dei benefici ma all’eguaglianza nella povertà.”
Per quanto riguarda il lavoro umano esso rimarrà anche nel comunismo “come sotto ogni altro sistema sociale”, la sola fonte di “ogni valore” (in realtà sappiamo che Marx specificherà sempre che il lavoro e la natura sono la fonte di ogni valore). Le macchine sostituiranno tutte quelle attività che richiedono “eccessiva fatica fisica”. Nella “società comunista basata sulla produzione automatizzata, le funzioni che le macchine non sono capaci di realizzare, ad esempio principalmente le funzioni creative associate con la progettazione e il miglioramento delle macchine, assumeranno un sempre maggiore posto nel lavoro dell’uomo”.
Per quando riguarda la distribuzione dei “benefici materiali e spirituali” essa non sarà più collegata alla posizione e alla quantità e qualità del lavoro fornito alla società. “Distribuendo i benefici materiali e spirituali in conformità con la richiesta delle persone, il sistema comunista conseguentemente crea le migliori condizioni per l’ulteriore sviluppo della sua principale forza produttiva, l’uomo lavoratore, per far fiorire tutte le sue abilità”.
Non manca in questa prefigurazione della futura società la definizione della natura della libertà. “La libertà che il comunismo dà all’uomo – precisa il Manuale sovietico – non significa la disintegrazione della società in comunità separate e ancora meno in individui che non riconoscono alcun legame sociale.
Tale concezione della libertà è sostenuta solo dai seguaci dell’anarchismo e dell’individualismo piccolo-borghese. Per loro la libertà consiste nella rottura di qualunque legame sociale e l’abolizione di ogni organizzazione sociale. (…) Per questo il posto dello stato è occupato non dal regno dell’anarchia universale, ma da un sistema di autogoverno pubblico”.
La fiducia nello sviluppo della scienza e nella sua capacità di risolvere i problemi è assoluta. Tant’è che il Manuale si chiude citando un “noto accademico sovietico” (V. A. Obruchev) il quale si attende dalla scienza che consenta di “prolungare la vita umana a 150-200 anni di media, di eliminare le malattie infettive, di ridurre al minimo le malattie non infettive, di vincere sulla vecchiaia e la stanchezza, di apprendere a ripristinare la vita in caso di morte accidentale prematura”. Vasto programma.
Il “comunismo” delle correnti critiche
Se quelle che abbiamo visto sono le rappresentazioni del comunismo fornite dalla letteratura sovietica (e abbiamo scelto un testo precedente e uno successivo alla fase staliniana) secondo una interpretazione più o meno letterale di alcuni scritti di Marx e di Lenin, ci si può chiedere come lo stesso tema fosse affrontato da altri autori e soggetti politici non allineati alle tesi sovietiche.
Il marxista indipendente statunitense Leo Huberman, uno dei fondatori della “Monthly Review”, scriveva negli anni ’50 un volumetto intitolato “Abc del socialismo” destinato spiegare ad un pubblico fortemente condizionato dalla propaganda anticomunista gli elementi fondamentali delle idee che avevano la propria origine in Marx ed Engels.
La critica del capitalismo è soprattutto di ordine morale: “il sistema capitalista è inefficiente e dannoso, irrazionale e ingiusto”. Ma viene richiamata anche la natura contraddittoria del sistema. “Il capitalismo – scriveva Huberman – ha trasformato la produzione da processo individuale a collettivo. Nei tempi passati i beni erano prodotti da singoli artigiani che lavoravano con i propri armesi nelle loro botteghe: oggi i prodotti sono fabbricati da migliaia di lavoratori che lavorano insieme con macchine complicate in industrie gigantesche.
Via via il processo diventa sempre più sociale, con sempre più gente concatenata, in fabbriche sempre più grandi.
Nella società capitalistica i beni sono lavorati e prodotti in cooperazione, ma non sono posseduti collettivamente da quelli che li producono. Coloro che usano i macchinari non li posseggono e coloro che li posseggono non li usano.
Qui troviamo la contraddizione fondamentale della società capitalistica: il fatto che mentre la produzione è sociale, l’appropriazione del risultato e dello sforzo e del lavoro collettivo è privata e individuale. (…) La via per risolvere il conflitto tra la produzione collettiva e l’appropriazione privata consiste nel portare alla sua logica conclusione lo sviluppo del processo capitalistico di produzione collettiva: la proprietà collettiva”.
Huberman risponde anche all’interrogativo sulla differenza tra socialismo e comunismo secondo una semplificazione non molto diversa da quelle che abbiamo già visto in testi precedenti (in particolare Lenin).
“Il socialismo e il comunismo sono simili in quanto entrambi sono sistemi basati sulla proprietà pubblica dei mezzi di produzione e una pianificazione centralizzata. Il socialismo deriva direttamente dal capitalismo ed è il primo modello della nuova società. Il comunismo è uno sviluppo ulteriore o ‘stadio più avanzato’ di socialismo.
A ciascuno a seconda delle sue capacità e delle sue azioni (socialismo).
A ciascuno a seconda delle sue capacità e dei suoi bisogni (comunismo).
Il principio socialista della distribuzione a seconda del proprio impegno, cioè a seconda della qualità e quantità di lavoro compiuto, è immediatamente possibile e praticabile. Dall’altra parte invece il principio comunista della distribuzione a seconda dei propri bisogni non è immediatamente possibile e praticabile: è la metà finale. (…)
Il socialismo è la prima tappa nel processo di sviluppo delle forze produttive per raggiungere il benessere cambiando al tempo stesso la mentalità e la prospettiva spirituale della gente. E’ la fase necessaria di transizione dal capitalismo al comunismo”.
Huberman si esprime anche sulla differenza tra partiti comunisti e partiti socialisti mettendo l’accento su due aspetti. I comunisti ritengono che il socialismo non possa essere costruito “rilevando e usando la vecchia organizzazione dello Stato capitalistico; i lavoratori devono distruggere l’apparato statale e costruirne uno nuovo”, mentre per i socialisti lo Stato non è “l’organizzazione della dittatura della classe capitalistica, ma piuttosto un buon elemento di un meccanismo che può essere usato nell’interesse di qualsiasi classe che ne assuma il comando”. Huberman fa derivare da questa impostazione il diverso giudizio sull’Unione Sovietica: “Per i comunisti, l’Unione Sovietica merita il plauso di tutti quelli che credono nel socialismo perché ha trasformato il sogno socialista in realtà; per i socialisti l’Unione Sovietica merita solo condanna perché non ha costruito il socialismo o almeno il socialismo da essi sognato”.
Possiamo vedere come alla nostra stessa domanda di partenza risponde un gruppo molto minoritario che si considera ciò nonostante interprete dell’autentica idea di comunismo. Nel 1996 il “Partito Comunista Internazionale”, una delle minuscole organizzazioni che si rifanno al pensiero di Amadeo Bordiga (per l’esattezza quella che pubblica “Il programma comunista”, condensa in un opuscoletto la presentazione delle sue idee fondamentali.
Per quanto riguarda il “comunismo” chiarisce la sua posizione sull’Unione Sovietica (nel frattempo scomparsa) affermando che “il comunismo non è morto in URSS (e altrove), per la semplice ragione che in URSS (e altrove) economicamente non è mai nato. Comunismo significa abolizione del lavoro salariato, delle merci, del denaro, del profitto, della competizione economica, delle classi sociali, dello Stato. Mentre in URSS & Co esistevano il lavoro salariato (gli operai ricevevano una paga), il denaro (come merce di scambio), il profitto (aziende e cooperative dovevano chiudere i bilanci in attivo), la competizione economica (c’erano un mercato interno e una progressiva apertura al mercato mondiale), classi sociali ben distinte, uno Stato agguerrito sia all’interno che all’esterno”.
La conclusione degli autori è che “in URSS, sotto Stalin e successori, non vigeva il comunismo ma il capitalismo, un capitalismo in larga misura di Stato, gestito, in tutta una serie di settori, centralmente (mentre in altri settori, soprattutto nell’agricoltura, esistevano ancora forme diverse di piccola produzione addirittura anche pre-capitalistiche). In URSS si stava cioè facendo quello che ogni regime borghese ha sempre fatto al tempo della sua “accumulazione originaria” e poi via via “allargata”; creare le condizioni economiche di uno sviluppo capitalistico su larga scala grazie all’intervento centrale dello Stato”.
Per i bordighisti “mentre la crisi rivoluzionaria, la presa del potere, la dittatura proletaria sono tagli netti e verticali, i cambiamenti di tipo economico-sociale sono necessariamente più lenti e devono tener conto di tutta una serie di situazioni particolari (per esempio, la disparità dello stadio di sviluppo delle forze produttive). Dunque nel comunismo inferiore o socialismo, esisterà ancora un certo grado di costrizione sociale che si manifesterà soprattutto nella regola: ‘A ciascuno secondo il suo lavoro’. Il falso ‘socialismo reale’ di ieri pretendeva di realizzare questa regola nel…lavoro salariato (quindi in uno scambio “merce contro merce”). Il ‘comunismo inferiore’ prevede invece l’introduzione del buono di lavoro, uno scontrino che rappresenta un diritto sui beni prodotti proporzionale al lavoro effettivamente prestato da ogni produttore (dedotte le risorse destinate a soddisfare bisogni sociali generali), e che non è denaro perché non può essere né risparmiato né accumulato, ‘non circola’ (come invece fa il denaro)”.
Conclusione
Da questo rapido excursus di testi si possono trarre alcuni elementi fondamentali che sono diventati paradigmatici per tutto il movimento comunista e per parte di quello socialista che ha continuato a basarsi sul marxismo:
– il comunismo in quanto movimento reale, ovvero in una qualche misura storicamente necessario, nasce da due condizioni fondamentali. Innanzitutto l’esistenza di contraddizioni irrisolvibili all’interno del capitalismo, in particolare quella che Lelio Basso ha definito come “la contraddizione fondamentale, cioè quella fra lo sviluppo sociale delle forze produttive e il carattere privato dei rapporti di produzione”. In secondo luogo l’estendersi numerico del proletariato, ovvero di coloro che non possiedono i mezzi di produzione e per ciò devono vendere ad altri la propria forza-lavoro.
– il comunismo in quanto ordinamento sociale che prevede il superamento dello stato, della proprietà privata dei mezzi di produzione, delle differenze tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, della disponibilità di beni e servizi in grado di corrispondere ai bisogni dei singoli e così via. Questo ordinamento sociale può affermarsi solo dopo un (lungo) processo di transizione, attraversa quella che Marx definiva la “fase inferiore” e Lenin identificava come “socialismo”.
Vedremo nella seconda parte come già prima del crollo dell’Unione Sovietica e in modo ancora più accentuato dopo la cesura fondamentale dell’89-91 si siano espresse concezioni sensibilmente diverse di “comunismo”.
Franco Ferrari
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Bravo Franco . Bravissimo . E quanto ci siamo allontanati dall’essere comunisti, quella consapevolezza organizzata necessaria per fare comunismo.