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Che cosa ci attende dopo il Covid-19?

di Franco
Ferrari

di Franco Ferrari –

A che punto siamo della notte? Difficile dare risposte certe. Sul piano sanitario ci avviciniamo ad una “fase 2”, annunciata da Conte, che ha certamente deluso le aspettative di molti. La diatriba sui “congiunti” ha un po’ occultato il fatto che l’obbiettivo di questo passaggio era di accogliere le pressioni di Confindustria per allargare la ripresa dell’attività industriale.  Risulta da qui evidente lo squilibrio tra l’intensificare gli spostamenti giornalieri di alcuni milioni di persone, soprattutto nelle zone dove è maggiore l’impatto dell’epidemia, e tenere ferme attività marginali e di scarso impatto, in zone dove invece il contagio è quasi inesistente.

Se non sono ancora chiari i tempi di evoluzione dell’epidemia, incombe in modo evidente la preoccupazione per l’impatto della crisi economica che ne deriva. Quanto sarà pesante la caduta del PIl, quanto durerà, che effetto avranno le politiche di spesa assunte dai vari governi, come si modificherà la struttura produttiva? Tutte domande per le quali nessuno al momento sembra avere risposte certe.

Non essendo uno specialista ho provato a farmi un quadro della situazione economico-finanziaria italiana ed anche di alcune potenziali scelte politiche che possono portare il Paese (e l’Europa) in direzioni differenti.  

Fra il 2020 e il 2021 si prevede una perdita di Pil (quindi di minore ricchezza prodotta) di circa 270 miliardi. In termini percentuali si parla già di un calo dell’8-9% per l’anno in corso.  L’anno prossimo ci sarà ancora un calo ma ridotto ad un sempre consistente 5%. Ipotizzando e sperando che nel 2022 si torni almeno al livello attuale.

Quindi il problema è: a chi andrà il “conto” di questi 270 miliardi? Gli interessati sono tre: i cittadini italiani assunti nella loro totalità, lo Stato italiano, l’Unione Europea. Ora ipotizziamo che si faccia “alla romana”, ovvero che ognuno dei tre soggetti se ne prenda in carico un terzo, quindi 90 miliardi ciascuno.

Per i cittadini italiani 90 miliardi possono essere ritenuti sostenibili. Il patrimonio privato complessivo è valutato in 9.900 miliardi, ma di questi una parte rilevante è rappresentato dalla casa di abitazione. Esiste comunque una discreta quota di risparmio in liquidità sui conti correnti che viene valutata in 1.500 miliardi (cifra che riprendo da Le Monde). Il problema non sarebbe tanto il peso assoluto dei 90 miliardi di mancata ricchezza quanto la sua distribuzione e le ricadute sulla struttura produttiva.

In sé si potrebbe considerare una forma di patrimoniale d’emergenza. I cittadini parteciperebbero a sostenere il costo delle conseguenze della pandemia con minori introiti compensati dal risparmio di cui dispongono. In questo caso si determinano due problemi: il primo è che questo carico di per sé non si distribuisce in modo equilibrato in relazione al reddito e alla condizione sociale dei cittadini. Il rischio oggettivo è che sia soprattutto la parte più povera e precaria a sopportarne il costo.

Inoltre bisognerà evitare che questa “tassa implicita” si traduca in una caduta permanente di attività economica tale da aumentare l’impatto di lungo periodo dell’epidemia, perché allora il costo non sarebbe più di “soli” 270 miliardi. Il rischio concreto è che tutta una serie di attività economiche di piccole dimensioni, soprattutto artigianali e commerciali non siano in grado di reggere una lunga situazione di paralisi. In qualche settore l’impatto economico sarà di più lungo periodo, ad esempio il turismo. La promessa iniziale del Governo, “nessuno perderò il lavoro per colpa dell’epidemia”, andrà verificata nei fatti.

La presenza in Italia di una forte propensione al risparmio a fronte di un elevato debito pubblico ha portato in altri Paesi, in particolare in Germania, all’emergere di voci polemiche che chiedono agli italiani di “salvarsi da soli” senza aspettare che arrivino gli eurobond, ma applicando una consistente tassa patrimoniale (se ne è fatto portavoce il non sempre affidabile Tino Oldani su Italia Oggi). Ogni forma di mutualizzazione del debito viene presentata come un grimaldello per caricare sulle “povere” famiglie tedesche il debito statale dei “ricchi” italiani. Sono polemiche strumentali, sia perché sottovalutano i benefici che la Germania ha tratto dall’impostazione ordoliberista (politiche liberiste aggravate dall’ideologia del pareggio di bilancio), sia perché il risparmio privato è anche una condizione necessaria per reggere a fronte delle debolezze del welfare pubblico italiano. L’irricevibilità di queste impostazioni non cancella evidentemente né il peso che in Italia ha l’evasione fiscale, né l’opportunità di introdurre una imposta patrimoniale.

Per quanto riguarda la quota che ricadrà sullo Stato italiano, 90 miliardi possono essere pochi o tanti a seconda dell’impatto che avranno una serie di fattori. Innanzitutto ci sarò il peso degli interessi sul debito. Attualmente i tassi sono abbastanza bassi (circa un 2%) quindi sostenibili, perché su 90 miliardi peserebbero per meno di 2 miliardi annui.

Qui entra in scena la BCE e come svolgerà il suo ruolo. Sta acquistando sul mercato secondario (quindi non direttamente dallo Stato italiano) titoli di debito per un ammontare piuttosto consistente. Ha rimosso alcuni vincoli pre-esistenti e ha annunciato che procederà con gli acquisti per il tempo e per l’ammontare necessario. Queste sole dichiarazioni devono servire ad evitare attacchi speculativi di quei soggetti finanziari che potrebbero puntare cinicamente ad una crisi debitoria dello Stato italiano. In questo modo si garantisce la sostenibilità del debito almeno nel medio periodo,  e come conseguenza diretta si tiene basso il costo del denaro chiesto in prestito dall’Italia. Il costo del denaro, al di là di operazione speculative, è legato principalmente al rischio che presenta la situazione del debitore, senza che al momento pesi l’inflazione che è molto bassa.

Il debito di uno Stato è un problema solo quando qualcuno decide che è un problema. Dal punto di vista dei mercati finanziari (definizione generica e un po’ misteriosa dentro la quale rientrano soggetti che hanno interessi diversi: fondi sovrani, fondi pensione, assicurazioni-vita, fondi di investimento, fondi hedge, fondi avvoltoio ecc. ecc.) si può decidere che il debito di un soggetto pubblico o privato non sia più sostenibile. Va messo nel conto che questa valutazione non è neutrale, ma si basa su criteri che sono anche politici. Uno Stato viene messo in crisi (non acquistando i suoi titoli di debito o chiedendo interessi troppo alti) anche quando si ritiene che il suo governo metta l’interesse dei propri cittadini, soprattutto di quelli più poveri, davanti al primato dei creditori. Per questo le agenzie di rating valutano anche l’ortodossia liberista dei governi nel fornire le loro classificazioni.

Altro elemento che può aprire una crisi del debito sovrano è quando si introducono criteri politici rigidi nella valutazione dello stato finanziario di un Paese. Il ruolo svolto dall’Unione Europea (attraverso la cosiddetta trojka) nell’imporre delle politiche austerità, in nome del rientro dal debito, hanno fatto sì che tutti i paesi interessati si ritrovassero con un debito ancora più alto. Va per altro rilevato che lo spread (il differenziale fra i tassi d’interesse che paga la Germania e quelli che paga l’Italia) e l’ammontare degli interessi stessi, non sono direttamente legati alla dimensione del debito. Ma sono legati alla sua sostenibilità secondo i criteri del sistema finanziario.

Di norma il debito statale (a differenza di quello dei privati cittadini) viene rinnovato con altro debito e questo può avvenire all’infinito. Per questo l’incremento complessivo del debito italiano potrebbe non essere un grosso problema nella misura in cui si prevede un aumento medio di una ventina di punti percentuali per tutti i debiti statali. Ma questo dipenderà anche dai tempi della normalizzazione della situazione economica. Se la Germania o la Francia rientrassero molto più rapidamente dell’Italia e della Spagna, potrebbero tornare a chiedere l’applicazione del Patto di Stabilità e quanto ne consegue. Inoltre, preoccupazione segnalata in particolare dal governo spagnolo, avendo consentito ai governi di attivare aiuti di Stato per le aziende in difficoltà, la Germania otterrebbe un evidente vantaggio competitivo. Come ha reso noto la von der Leyen nella riunione del Consiglio europeo (secondo la ricostruzione di Federico Fubini del Corriere) la metà di tutti gli aiuti già autorizzati dalla Commissione provengono dalla Germania a favore di aziende tedesche.

Veniamo quindi all’Unione Europea. La sua parte del “conto” potrebbe essere coperta in modi molto diversi e con effetti altrettanto differenziati. Dipenderà dalle dimensioni del Recovery Fund concordato in sede di Consiglio europeo ma che finora resta una scatola vuota. Il primo dato di forte impatto riguarderà le sue dimensioni. Si parla di trilioni ma c’è sempre il rischio che invece si trasformino in fantastilioni, ovvero in cifre virtuali dietro alle quali si nascondono quantità reali assai più ridotte. Se si comincia a parlare di un Fondo in grado di “mobilitare” o di “attivare” “fino a” una certa quantità di miliardi, è probabile che si stia cercando di organizzare le classiche nozze coi fichi secchi.

L’ipotesi più ottimistica è che l’UE metta tutta la sua quota (gli ipotetici 90 miliardi di cui abbiamo parlato all’inizio), e anche di più, con trasferimenti netti all’Italia. Occorre tenere conto che il punto di partenza del Recovery Fund è l’incremento del bilancio pluriennale europeo, quindi il primo passo sarà per l’Italia incrementare il proprio contributo al bilancio comune. Poi una volta raddoppiato o quasi il bilancio UE, sulla base di quella garanzia si andranno a chiedere fondi sul mercato finanziario presumibilmente con tassi di interesse vicini allo zero, perché il bilancio europeo gode della Tripla AAA delle agenzie di rating, ovvero presenta un rischio quasi nullo.

Un’altra ipotesi è che anziché cercare questi fondi sul mercato finanziario, sia direttamente la BCE ad impegnarsi ad acquistarli, svolgendo una funzione equivalente a quella delle Banche Centrali di altri Paesi (Gran Bretagna, USA, Giappone). In questo modo non ci sarebbe un costo per interessi (che per altro per l’UE sarebbe molto contenuto) né sottomissione alle istituzioni finanziarie, come temono gli economisti di Economie et Politique, rivista del PC Francese.

Come verrebbero trasferiti questi fondi ai singoli Stati? Se sono trasferimenti netti non aumentano il debito. Se sono finanziamenti invece vanno ad incrementarlo, con il rischio che passata la fase emergenziale tornino le imposizioni ad applicare pesanti politiche di austerità.

Anche in questo secondo caso però ci potrebbero essere scelte dall’impatto diverso. Sicuramente ci sarebbe, per l’Italia e la Spagna, non per altri Paesi, un risparmio sui tassi di interesse ma si tratterebbe di guadagni marginali (1-2 miliardi annui). Il vero fattore positivo potrebbe risiedere nei tempi del prestito. Gli spagnoli hanno chiesto la perpetuità del dibattito (si pagano gli interessi, senza restituire il capitale iniziale), ma sembra difficile che venga accettata da altri partner europei. Potrebbero essere acquistati direttamente dalla BCE? In teoria è vietato dai Trattati, ma si è visto che esistono ampi margini per una loro reinterpretazione che tenga conto dei reali rapporti di forza. L’alternativa alla perpetuità sarebbe comunque una durata molto lunga, di almeno 20 o 30 anni.

La lunga durata del debito presenta alcuni benefici. Il primo è che il debito nel lungo periodo verrebbe di fatto riassorbito con l’inflazione e l’auspicabile aumento medio del PIL. Senza fare calcoli troppo complessi un’inflazione media del 2% per trent’anni porterebbe di fatto a sgonfiare il valore reale del debito del 60%.

L’altro elemento favorevole dei tempi lunghi del debito è che si evita di sottostare al permanente ricatto del creditore, in questo caso i paesi forti dell’UE e in primo luogo la Germania. Come si è visto con la Grecia, tenere sulla corda uno Stato, vuol dire ogni anno imporgli delle condizioni per garantire il rinnovo del debito che serve a rimborsare il debito pregresso.

Sulla base di quanto dichiarato dalla Merkel e pochi giorni fa confermato anche dal ministro socialdemocratico tedesco delle finanze, si dovrà mettere nel conto che più la soluzione trovata sarà favorevole all’Italia e ad altri Paesi con debito alto e più verrà chiesta una contropartita politica. Questa consisterà nello spostamento di una quota di sovranità dal livello nazionale al livello europeo. Come questo potrà avvenire non è ancora chiaro.

Queste ipotesi, che non considerano altri fattori politici, economi e sociali importanti, potranno farci entrare in scenari molto diversi. Se l’accresciuto indebitamento statale italiano andasse di pari passo con un ulteriore indebolimento del tessuto produttivo, si creerebbero le condizioni per politiche di austerità alla greca. Anche se la parte maggioritaria delle classi dominanti europee in questo momento non sembrano interessate, a mio modesto parere, a ripercorrere una strada che aprirebbe scenari imprevedibili per tutti.

Lo scenario più ottimista vedrebbe un recupero abbastanza rapido del PIL e l’indebitamento, inserito in un contesto in cui tutti gli Stati sono più indebitati di prima e garantito da tempi più lunghi, diventerebbe  un problema relativo.

Considerate queste ipotesi si apre il tema di quello che un tempo si chiamava il “modello di sviluppo”: qualità e destinazione degli investimenti, rapporto fra azione pubblica e interessi privati, redistribuzione del reddito e tutela delle condizioni minime di vita, squilibrio nord-sud, mutamento climatico e altro ancora. E non dovremmo cadere nella logica dei due tempi ma capire quali sono, già oggi, le “finestre di opportunità”.

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