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Caso Cospito. Sul parere del Comitato Nazionale per la Bioetica

Riprendiamo dal sito del Centro per la riforma dello stato (CRS) l’articolo di Grazia Zuffa –

Il 14 marzo è stato pubblicata la risposta del Comitato Nazionale per la Bioetica-CNB ai quesiti del Ministro della Giustizia. Ho già illustrato e commentato per il sito CRS tali quesiti (17 febbraio), ne riassumo perciò in breve il contenuto, seguendo la risposta CNB nella parte condivisa da tutti i componenti. I quesiti ruotano intorno al rifiuto e alla rinuncia ai trattamenti sanitari, alla legge n. 219/2017 (sul consenso informato e le Dichiarazioni anticipate di trattamento) e, da ultimo, alla sentenza n. 242/2019 (sul suicidio medicalmente assistito).

Il primo interrogativo pone un problema definito generale che riguarda la validità del consenso, del rifiuto o rinuncia di trattamenti sanitari specie se salvavita quando sia subordinato al conseguimento di finalità estranee alla situazione clinica personale. Gli altri si concentrano esplicitamente sulla condizione carceraria, chiedendo (cito direttamente dalla missiva del Ministro) se il rifiuto delle cure possa “consistere in una condotta autoaggressiva diventando una modalità per rivendicare i propri diritti, piuttosto che una scelta consapevole nell’esercizio della propria libertà di cura”. Da questo assunto discende la domanda se sia “eticamente accettabile che le istituzioni consentano a chi mette in atto questi comportamenti di lasciarsi morire”. In subordine si propongono i quesiti circa supposti “limiti o peculiarità” in condizioni di detenzione rispetto all’applicazione della legge 219/2017 e alla sentenza della Corte sull’aiuto al suicidio.

Si noti l’oscillazione negli interrogativi, formulati come se si chiedessero indicazioni generali circa l’interpretazione di leggi e sentenze, ma in realtà ritagliati tutti, compreso il primo, sul caso Cospito. Questa ambiguità peraltro è stata sciolta dallo stesso Ministro della Giustizia nell’informativa alla Camera del 15 febbraio, quando in quella sede ha dichiarato di avere investito il CNB sul caso Cospito. L’aggancio esplicito al caso singolo, per di più a una vicenda particolare come quella di Cospito, ha posto in seria difficoltà il Comitato, che di regola non risponde su casi singoli “se non in ipotesi eccezionali in cui ricorrano interessi di carattere generale” (cito dal regolamento).

Dubito che l’interrogazione del Ministro potesse rientrare nelle “ipotesi eccezionali”. Al contrario, la regola si attagliava perfettamente al quesito in oggetto, che avrebbe dovuto essere respinto proprio in quanto attinente a una vicenda particolare, per di più eccezionalmente al centro dello scontro politico. Questo aspetto conflittuale ha dato al quesito del Ministro una coloritura politica precisa, in collisione con la mission del CNB. Si è data cioè l’idea che il CNB fosse interpellato per dire una parola in più nell’agone politico, invece che per approfondire i risvolti etici delle questioni e per illuminare le diverse posizioni etiche in campo: una sorta di “ciambella etica” per decisioni politiche controverse, insomma. A supporto di questo giudizio, sta l’urgenza con cui il Ministro ha sollecitato la risposta (e con cui il CNB ha risposto, non sottraendosi malauguratamente alla indebita sollecitazione): urgenza palesemente incongrua col preteso “carattere generale” del quesito. Depone della curvatura politica anche la modalità di formulazione dei quesiti, che di per sé suggeriscono una tesi precisa, da approvare o respingere, invece di indicare un campo di approfondimento. Ancora, è significativo il carattere prevalentemente giuridico, più che etico dei quesiti: come si è visto, il nucleo dell’interrogazione riguarda i supposti limiti nell’applicazione della legge sulle DAT (in chiaro collegamento col rifiuto del trattamento di alimentazione forzata esercitato da Cospito in base alla legge 219/2017). Si aggiunga che questa insolita richiesta di interpretazione giuridica di una legge sarebbe stata una ragione in più per rimandare al mittente la richiesta.

Il CNB non ha respinto il quesito, come alcuni membri avevano chiesto. Tuttavia, non si è acconciato a una risposta univoca, approvata a maggioranza, quale presumibilmente sarebbe stata più utile al Ministro rispetto alle scelte politiche immediate. Nel rispetto delle finalità precipue del CNB, e secondo lo stile di lavoro usuale, il Comitato ha presentato un documento (più che una risposta) con diversi punti preliminari condivisi, e con l’illustrazione di tre divergenti posizioni su altri. Per questa ragione, alcuni di noi – compresa la sottoscritta – che pure ritenevano inammissibile l’interrogazione del Ministro, hanno comunque votato il documento. Ciò non significa dimenticare i pericoli di torsione dei compiti del CNB, che l’inopportuno quesito del Ministro ha messo in evidenza. Vale la pena ripeterlo: un conto è l’elaborazione di posizioni etico-culturali per orientare e arricchire la sensibilità etica pubblica, un altro è sollecitare posizioni etiche da utilizzare nel confronto/scontro politico. Nel secondo caso rischia di venire meno l’ autonomia del CNB e di conseguenza la sua autorevolezza. A prescindere dal giudizio su come il CNB abbia superato questa difficile prova, i termini del rapporto fra etica e politica sono ora più chiari. E saranno punti di riferimento essenziali nel proseguo dei lavori del Comitato, così come – si spera – nel più vasto dibattito pubblico, in modo che tale forzatura non si ripeta e ciò che è accaduto non diventi un precedente.

Da notare, nella parte condivisa del documento, un chiarimento che risuona come una presa di distanza dall’iniziativa ministeriale, laddove si precisa “che il CNB ha per sua missione l’approfondimento dei temi bioetici e non la soluzione di specifici problemi giuridici”. Ancora più importante è il passaggio (punto 7) che ribadisce il significato dello sciopero della fame “nel contesto del diritto della persona a manifestare liberamente il proprio pensiero… secondo il dettato dell’art. 21 della Costituzione”. “Lo sciopero della fame è espressione di autodeterminazione della persona” e “questa libertà va sempre pienamente rispettata, in particolare quando provenga da un soggetto che, fortemente limitato dal regime di detenzione cui è sottoposto, individua nello sciopero della fame, in mancanza di altri mezzi, una forma estrema di comunicazione, mettendo a rischio la propria vita”. Questa contestualizzazione è quanto mai preziosa per porre nella giusta luce la pratica di sciopero del detenuto, che invece, nelle parole del Ministro viene distorta e declassata a “condotta autoaggressiva”, ignorando completamente la valenza morale della protesta. Cancellare le ragioni per cui una persona è disposta a battersi anche a repentaglio della salute comporta l’assimilazione paradossale, dal punto di vista di chi lotta, del digiuno a oltranza al suicidio (il “comportamento di lasciarsi morire”, secondo le parole del ministro). Anche sotto questo aspetto, le parole del CNB restituiscono il corretto senso della messa a rischio della vita, fugando gli equivoci Ribadita al punto 9 condiviso: “emerge anche la differenza che esiste fra la situazione di colui che cerca la morte per sé stessa e la situazione, diversa, di colui che pone in essere una forma di protesta rischiosa, in cui la morte non è il fine ricercato per sé stesso, ma è solo una conseguenza possibile, eventualmente accettata”.

Al punto 8 si afferma che da questa “valutazione etica discende immediatamente la conseguenza che lo Stato non ha il diritto di limitare con misure coercitive lo sciopero della fame […] pertanto non sono ammissibili trattamenti diretti a favorire il benessere fisico del detenuto che si traducano in costrizioni violente”; anche se si ritiene opportuna “un’assistenza appropriata e le terapie idonee a curare gli scompensi organici e le patologie che dovessero insorgere”, “previo consenso” – questo il punto fondamentale – da parte della persona.

Le differenze di opinione iniziano a manifestarsi rispetto al che fare “nel momento in cui il detenuto in sciopero della fame dovesse perdere conoscenza o sopravvenisse un imminente pericolo di vita”. In sintesi. La posizione – approvata da 19 componenti, compreso il presidente – accoglie la tesi del quesito secondo cui le DAT non sarebbero valide “ove siano subordinate all’ottenimento di beni o alla realizzazione di comportamenti altrui”: in parole povere non valgono per il detenuto in sciopero del cibo, perciò il medico “quando il detenuto non sia in grado di esprimere la sua volontà attuale” non è da ritenersi esonerato “dal porre in essere tutti gli interventi per salvargli la vita”. A quale etica ci si appella per utilizzare lo stato di estrema fragilità di una persona inerme per andare contro la volontà da lui/lei espressa fino a un attimo prima della perdita di coscienza?

La posizione B – approvata da 9 componenti più i membri invitati permanenti della Federazione degli Ordini dei Medici chirurghi e degli odontoiatri, della Federazione Nazionale Ordini Veterinari Italiani, dell’Istituto Superiore di Sanità – è la più netta: ribadisce il diritto inviolabile di vivere tutte le fasi della propria esistenza senza subire trattamenti contro la propria volontà quale derivazione logica del diritto all’intangibilità della sfera corporea di ogni essere umano. La libertà della scelta della persona in ambito di trattamenti sanitari “esula dalle motivazioni che hanno portato il soggetto a tale scelta”: perciò non vi sono motivi giuridicamente e bioeticamente fondati che consentano la non applicazione della legge sul consenso informato e le DAT nei confronti di persona detenuta. “Ciò vale anche se questa ha intrapreso uno sciopero della fame”.

La posizione C, sottoscritta da 2 componenti, sottolinea la tensione “fra il dovere dello Stato di rispettare l’autonomia e l’autodeterminazione delle persone e quello di proteggere il bene della vita umana, in particolare quella di coloro che sono affidati alla sua custodia”. Da un lato si riconosce che la l. 219/2017 “afferma chiaramente il diritto a rifiutare qualsiasi tipo di trattamento, compresi quelli salvavita, e mantiene doverosamente l’uguaglianza fra tutti i cittadini, detenuti compresi”. Il che elimina “dubbi interpretativi”. D’altro lato, non si esclude la possibilità di un diverso bilanciamento fra autodeterminazione e protezione della vita umana, che però necessiterebbe di una legge. Per giungere all’essenziale: l’ipotesi di non validità della l. 219/2017 in ambito carcerario, avanzata nel quesito ministeriale, appare esclusa, salvo future modifiche di legge.

Questi i contenuti del documento CNB. Mi soffermo ora sulla questione più delicata che fa da sfondo ai quesiti: come intendere il diritto alla salute dei detenuti, nella tensione fra la parità dei diritti (rispetto ai liberi) da un lato; e dall’altro, la posizione di garanzia dello Stato, in questo caso dell’amministrazione penitenziaria, rispetto alla tutela della salute e della vita degli stessi detenuti portatori di diritti. Segnalo per prima cosa un’altra anomalia: il quesito ministeriale ha costretto il CNB a ragionare sui “limiti” nell’esercizio di un diritto per le persone in stato di privazione della libertà. Non è rovesciamento di poco conto: fino a ieri il Comitato si era occupato di incarcerazione sempre nella prospettiva di sostegno ai diritti dei detenuti: si vedano i pareri La salute dentro le mura (2013) e “Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere” (2019) e, prima ancora, il parere “Suicidio in carcere: orientamenti bioetici” (2010).

E avanzo riserve sull’inquadramento della questione, fra (diritto alla) autodeterminazione della persona detenuta rispetto alla sua salute e dovere dello Stato di proteggere la salute e la vita di quella stessa persona in quanto a lui affidata. Il fatto stesso che tale dovere di protezione si traduca, come in questo caso, nell’ipotesi di sospendere un diritto fondamentale è indizio di quanto tale cornice etico-concettuale sia debole, per non dire ingannevole. La misura dell’inganno la dà la concretezza della vita in carcere. Il detenuto/la detenuta si trovano sotto la responsabilità dell’amministrazione penitenziaria, nel senso che in primo luogo sono sotto stretto controllo e custodia di quell’istituzione, avendo perso la libertà. La loro volontà poco se non nulla conta, nello spazio e nel tempo della reclusione. Se ora, in nome della responsabilità istituzionale, le recluse e i reclusi si vedessero negato anche quel limitato campo di autodeterminazione concernente la salute, sarebbe come certificare il loro status di “corpi a disposizione”. Tutela e controllo vanno disgiunti, così come la responsabilità verso l’altro è altra cosa dal potere di disporre dell’altro. Perciò la questione si rovescia: proprio perché lo stato di prigionia tende a reificare in modo pervasivo la persona, a maggior ragione le libertà residue – come l’intangibilità del corpo – sono preziose per chi si trova in cattività. Tutti gli spazi possibili di autodeterminazione andrebbero difesi, invece che minacciati, nel rispetto del detenuto/a come persona.

C’è ancora un’altra ragione per cui la cornice etica appena esposta scricchiola, basta rileggersi il parere CNB appena citato, “La salute dentro le mura”: in un passaggio chiave si segnala che la prigione è luogo di contraddizioni, fra “l’affermazione del diritto alla salute del detenuto e della detenuta e le esigenze di sicurezza che tendono a limitarne l’esercizio” (p.15). Si raccomanda di avere ben presente questa contraddizione e si invita a considerare il ruolo che potrebbe/dovrebbe avere il Servizio sanitario nazionale nel governo della contraddizione stessa. Torniamo allora all’ispirazione originaria della riforma che ha sottratto la salute dei detenuti all’istituzione penitenziaria per passarla all’istituzione sanitaria da cui dipendono tutti, liberi e detenuti. Non si è trattato solo di passaggi di competenze burocratiche. Ben più importante, si è introdotta una “istituzione terza” – si potrebbe dire –, il SSN, per meglio governare il “conflitto di interessi” insito nella istituzione carceraria, con il suo doppio compito, di custodia e, quasi sempre in maniera subordinata, di cura della salute della persona detenuta. Ecco perché l’accento sul dovere di tutela della vita e della salute da parte dell’istituzione penitenziaria non mi convince, specie quando è collocato sull’altro piatto della bilancia rispetto al diritto del detenuto. Perché questo “dovere” nominalmente in favore della persona è giocoforza commisto alle esigenze di sicurezza. Di più: le due cose stanno in continuità. Al controllo dei corpi nella custodia del carcere corrisponde il controllo dei corpi nel trattamento sanitario. Così il cerchio si chiude, con una doppia negazione di soggettività.

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