Chi sono i grandi capitalisti americani? In larga parte delle dinastie con almeno due o tre generazioni di accumulazione alle spalle. Questo gruppo maggioritario è stato via via rinforzato da nuovi arrivi – i Gates, i Bezos e gli Zuckerberg – dell’ultima generazione. Un gruppo che ha esageratamente beneficiato dal sistema neoliberista di regolazione del processo di accumulazione capitalista che ha consentito loro di rafforzare il proprio dominio economico, politico e culturale sulla società americana e sul mondo, costruendo monopoli, eludendo e non pagando le tasse e facendo stagnare i salari.
Dinastie capitalistiche, neoliberismo, taglio delle tasse e ideologia della meritocrazia
Negli Stati Uniti, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, è stata esaltata la “meritocrazia”, un termine coniato nel 1958 dal sociologo, esponente della sinistra britannica e tra i fondatori della Open University, Michael D. Young, per criticare gli effetti antiegualitari di un’istruzione troppo selettiva. L’uso del termine meritocrazia è stato fatto in accordo con la teoria che grazie al merito, ai quozienti di intelligenza accertati con dei test e allo studio, tutti possono avere successo o almeno migliorare la propria condizione, anche quando la stragrande maggioranza di quelli che emergono come “i migliori” ai vertici di imprese, politica ed istituzioni sono in realtà parte di un’artistocrazia patriarcale fatta di ereditieri dinastici con patrimoni economici – gestiti da “family office”, fondi fiduciari e consulenti -, relazioni sociali e privilegi culturali strategicamente accumulati da padri, nonni e bisnonni.
Le otto prestigiose università “Ivy league” americane – Brown, Columbia, Cornell, Darmouth, Harvard, Princeton, Pennsylvania e Yale – , prendono tanti studenti dall’1% delle famiglie più ricche quanti dal 60% di quelle più povere, rendendo la meritocrazia più apparente che reale. I rampolli delle “grandi famiglie” possono contare su corsie preferenziali per i figli degli ex alunni o grandi donatori, oltre che su consulenti, insegnanti, tutor e coach privati che li preparano ai test, costosi viaggi-studio estivi che fanno fare punteggio, per cui le disparità economiche e razziali condizionano fortemente l’accesso all’istruzione superiore americana1. Questo anche se in alcuni casi e contesti socio-politici la meritocrazia è stata usata anche da ampi strati di ceto medio, quelli che più hanno investito nell’istruzione, come vettore di polemica politica contro la classe dirigente per contrastare il proprio declassamento.
Se, come affermava Gordon Gekko, il protagonista nel film Wall Street, “l’avidità è giusta”, a partire dalla fine degli anni ’70, sotto il paradigma neoliberista, politiche ridistributive e sforzi per creare una società più equa sono stati considerati sia controproducenti sia moralmente esecrabili, perché è il mercato che fa sì che ognuno ottenga ciò che merita. Posizioni di privilegio sono state legittimate come il giusto premio di una società meritocratica che ricompensa le persone per le loro capacità e la loro flessibilità.
Pertanto, è stata eliminata buona parte della progressività nei sistemi fiscali (fino a rendere la tassazione quasi regressiva, generando una fiscalità che agisce come un Robin Hood all’inverso, tramite le deduzioni ai ricchi), riducendo le tasse sui redditi dei più ricchi. Nel 1979, la Thatcher ha ridotto la percentuale massima del Regno Unito dall’83% al 60%, con un’ulteriore riduzione al 40% nel 1988 (ora è al 45%). Negli USA nel 1966, il picco della crescita americana del dopoguerra, la percentuale massima della tassazione del reddito era dell’83% e fino agli anni ’70 era al 70%, mentre la riforma fiscale di Reagan del 1986 aveva stabilito solo due aliquote, 14% e 28%, più un’addizionale del 5% in alcuni casi, eliminando una serie di deduzioni e di tassazioni agevolate, come quella sui capital gains. Solo con la presidenza Clinton l’aliquota più alta era risalita al 39,6%, reintroducendo però le deduzioni, mentre con Trump è scesa al 37%.
Sono state ridotte o del tutto eliminate anche le tasse sui trasferimenti ereditari dei grandi patrimoni economici, sui profitti delle imprese. Con Reagan sono calate dal 46 al 34% e con Trump al 21%, ma dal 1980 ad oggi la media dei Paesi OCSE è scesa dal 38 al 22% circa (in Italia dal 52,2% al 24%), con una riduzione media del 5% dal 2008. Questo, mentre il livello di tassazione sulle persone fisiche è aumentato in media del 6% e l’IVA è passata da un’aliquota media del 17,6% al 19,2%. A partire dai primi anni ’80 si è scatenata una corsa al ribasso che ha visto spuntare come funghi decine di veri e propri paradisi fiscali, nonché misure tese a favorire gli investimenti, specialmente quelli finanziari a debito, che hanno ulteriormente ridotto la base imponibile a cui le aliquote sono effettivamente applicate. Sono state abbattute anche le tasse sulle rendite e transazioni finanziarie, con la motivazione che queste misure avrebbero incentivato i consumi (anche se tutti gli economisti sanno bene che i ricchi hanno una minore propensione al consumo rispetto ai ceti medi e popolari, per cui l’effetto è che i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri) e gli investimenti produttivi e, quindi, anche crescita economica e nuova occupazione2.
Questi abbattimenti fiscali sono stati anche giustificati sulla base della teoria della cosiddetta “curva di Laffer”: una curva di crescita dell’economia innestata dal taglio delle tasse, tale da far generare nel lungo periodo nuovi introiti fiscali in grado di bilanciare quelli persi con la riduzione delle aliquote. La “curva di Laffer” ha fornito una giustificazione accademica per le politiche reaganiane della “supply side theory” e “trickle-down theory”. Venne disegnata su un tovagliolo dall’economista Arthur B. Laffer (al quale Trump ha conferito la Medaglia Presidenziale per la Libertà nel 2019) per Dick Cheney e Donald Rumsfeld durante una cena nel 1974. Nel corso della campagna per le primarie del Partito Repubblicano, George H. W. Bush la definì “voodoo economics”. La teoria sostiene che se le aziende pagano meno tasse, investono di più, assumono di più e riescono anche a pagare meglio i dipendenti.
Ha funzionato parzialmente solo negli anni di Reagan (1981-1989), allorquando il tasso di crescita del PIL USA salì fino al 4,1%, ma le casse federali non recuperarono mai il gettito perso e il buco fiscale si scaricò sul debito pubblico, per cui durante la presidenza Reagan il rapporto tra debito e PIL aumentò di 20 punti. A fronte di questi abbattimenti delle aliquote fiscali per ricchi e imprese, i governi sono stati costretti a finanziarsi sia attraverso l’indebitamento crescente sia aumentando la tassazione su consumi e lavoro. Il carico fiscale sui salari (ad esempio, per gli oneri previdenziali) è rimasto più o meno costante o è cresciuto, mentre le imposte su persone fisiche e consumi e l’IVA sono aumentate.
Gli economisti dell’Università di Berkeley, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman3 hanno calcolato che i tagli fiscali da 1,5 trilioni di dollari di Donald Trump hanno aiutato le 400 dinastie miliardarie più ricche negli Stati Uniti (quelle della “lista Forbes”) a pagare nel 2018 un’aliquota fiscale media del 23%, mentre la metà inferiore delle famiglie americane ha pagato un’aliquota del 24,2%. Nel 2018, per la prima volta nella storia moderna degli Stati Uniti, il capitale è stato tassato meno del lavoro. Dal 1980, la quota della ricchezza americana di proprietà delle 400 dinastie americane miliardarie è quadruplicata mentre la quota di proprietà della metà inferiore della popolazione americana è diminuita. Le 130 mila famiglie più ricche in America ora possiedono quasi quanto il 90% meno ricco (117 milioni di famiglie). Secondo Saez e Zucman, se l’1% più ricco della popolazione americana pagasse un’aliquota fiscale del 60%, lo Stato federale USA incasserebbe circa 750 miliardi di dollari in più l’anno, sufficienti per pagare asili nido, un programma di infrastrutture e molto altro.
Il taglio delle tasse e la questione dell’aumento degli investimenti e dei salari
La decisione dell’amministrazione Trump e del Congresso di ridurre le aliquote più alte sui redditi individuali e far scendere dal 35% al 21% la corporate tax (una riduzione del 40% e una riedizione della reaganiana supply-side economics giustificata in base alla teoria della cosiddetta “curva di Laffer”), è stata motivata con la necessità di fornire uno stimolo, “to prime the pump” (innescare la pompa), nella convinzione tutta ideologica che i super ricchi e le global corporations avrebbero restituto il favore al popolo americano, investendo in nuove attività produttive e aumentando i salari.
Le grandi aziende, però, hanno preferito avviare una corsa ai riacquisti delle proprie azioni per quasi 500 miliardi di dollari, alimentati da ulteriore debito, mentre hanno speso solo 6,9 miliardi in bonus e aumenti salariali per i loro dipendenti. Lo stimolo fiscale di Trump ha comportato una rinuncia ad oltre un quinto del gettito totale (almeno 2 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio per il taglio all’aliquota delle imprese) e nel medio periodo non potrà che esasperare ulteriormente una situazione già critica anche se il rate del 21% e la possibilità di una deducubilità immediata del costo dei beni strumentali per i successivi 5 anni hanno indotto limitati processi di re-shoring nel territorio americano di attività produttive da parte delle global corporations.
I tagli alle tasse di Trump sono stati soprattutto un maxi regalo per gli azionisti delle grandi aziende, con effetti limitati sulla crescita degli investimenti. Quello che tanti osservatori avevano sospettato, ha trovato sostegno nello studio di alcuni economisti del FMI (Kopp, Leigh, Mursula e Tambunlertchai, 2019): tra le aziende quotate sull’S&P 500 appena il 20% dei risparmi garantiti dalla riforma fiscale si è tradotto in investimenti e risorse per ricerca e sviluppo. Il rimanente 80% è stato destinato a dividendi e riacquisto di azioni proprie.
Il taglio alle tassa ha fatto e farà crescere i redditi dei più ricchi dopo il prelievo fiscale, mentre per la gran parte dei contribuenti tale aumento è stato e sarà minimo (un bel risultato per un presidente che aveva promesso di risollevare le sorti dei ceti medi e popolari). Allo stesso tempo, ha fatto e farà crescere deficit e debito pubblico dal 2018. Almeno 7 mila miliardi di dollari nei prossimi 10 anni, che i Repubblicani cercheranno di coprire almeno in parte con tagli ai programmi pubblici Medicaid e Medicare, provando a sottrarre quindi a milioni di americani le coperture dell’assistenza sanitaria. Mentre la FED aveva accelerato i rialzi dei tassi di interesse, segnando l’inizio della fine della politica monetaria espansiva che ha contribuito ai rialzi azionari.
Tutto questo senza che fosse stato risolto il problema dell’investimento fisico. In cosa e dove investire tutto il capitale esuberante se le imprese che beneficiano maggiormente dei tagli fiscali sono dei grandi monopoli che, grazie alle rendite di posizione, possono aumentare i profitti, più che i salari dei lavoratori? Per loro il dominio del mercato – attraverso la speculazione e la rendita finanziaria ed azionaria, i diritti di proprietà intellettuale, l’espropriazione per spoliazione, le licenze, l’applicazione del sistema delle supply chains globali, le concessioni, l’uso dei dati come se fossero risorse naturali, la vendita di servizi, il lavoro gratuito degli utenti e sottopagato dei lavoratori, etc. – è un modo più sicuro e rapido di mantenere la redditività rispetto all’investimento. Tra l’altro, in una situazione in cui c’è già una sovracapacità produttiva e il ritmo dell’innovazione tecnologica ed organizzativa è ormai talmente accelerato che fa aumentare il rischio dell’acquisto di strumenti di produzione e di mettere in piedi nuove configurazioni organizzative che diventano già obsolete al loro arrivo sul mercato.
L’investimento è una questione complessa. Per le aziende non è sufficiente avere denaro a basso costo; se così fosse, allora i tassi di interesse azzerati e i trilioni pompati da FED, BCE e altre banche centrali nelle economie occidentali per oltre un decennio avrebbero dovuto compensare gli effetti della Grande Recessione e far ripartire un nuovo consistente ciclo di investimenti.
Gli investimenti delle imprese sono influenzati non tanto dal livello dei tassi o delle imposte sui profitti, quanto dall’andamento della domanda globale. Abbassare i tassi di interesse e le tasse sugli utili serve a poco se il mercato è fermo o procede con bassi tassi di crescita, ossia se le imprese non sanno a chi vendere i loro prodotti e, quindi, attraversano una crisi di sovrapproduzione.
Inoltre, le tensioni geopolitiche e geoeconomiche (quelle che la nuova direttrice del FMI, Kristalina Georgieva, chiama “fractures”), come la guerra commerciale avviata dagli Stati Uniti contro la Cina e altri Paesi come soluzione per uscire dalla crisi, stanno aggravando la crisi dell’economia globale, perché minano qualsiasi incentivo per gli investimenti ci sia tra i capitalisti del mondo.
Un “cavallo che non beve”: siamo al punto che gli investitori tedeschi, olandesi e danesi preferiscono parcheggiare i loro capitali liquidi in depositi e titoli di Stato a tassi negativi piuttosto che utiizzarli in progetti di investimento. C’è una enorme quantità di liquidità che rimane sostanzialmente inutilizzata o che finisce nella speculazione finanziaria ed immobiliare.
David Gordon ha sostenuto che per impegnarsi nell’accumulazione i detentori di capitale devono essere in grado di fare dei “calcoli ragionevolmente determinati” del loro tasso di profitto previsto, ossia devono avere una visione abbastanza chiara del futuro4. I keynesiani hanno da tempo sostenuto che l’investimento è una questione di aspettative piuttosto che di profitti. Il grande economista polacco Michal Kalecki ha sottolineato che è l’investimento che produce profitti, piuttosto che il contrario.
Le economie hanno attraversato fasi successive di crescita e recessione e un’economia può finire intrappolata in una depressione, indipendentemente da quanta “libertà” sia data alle forze del mercato. Questo perché, in un dato periodo, l’occupazione effettiva e la produzione totale non dipendono dalla capacità dei prezzi di convergere a livelli che renderanno l’offerta uguale alla domanda in tutti i mercati, ma dal volume totale di investimenti in infrastrutture e attrezzature industriali intraprese in quel periodo. Questo investimento è essenziale, quindi, perché determina la quantità di profitto che le imprese possono realizzare. Senza la spesa dei detentori di capitali nel proprio consumo e negli investimenti, questi non possono realizzare un profitto: la vendita di beni e servizi ai propri lavoratori da sola può nel migliore dei casi permettere ai datori di lavoro di recuperare i soldi che hanno pagato ai loro lavoratori come salari e, quindi, coprire il costo dei salari. Per realizzare profitti, le aziende devono investire e i capitalisti devono consumare, ma una componente fondamentale è anche l’investimento pubblico. In passato i progetti infrastrutturali, i fondi iniziali per l’innovazione e gli incentivi per l’industria privata si sono rivelati essenziali per creare una marea che fosse in grado di sollevare tutte le imbarcazioni.
In una economia reale stagnante e attraversata da una “crisi di realizzazione”, le aziende sono riluttanti ad investire in una situazione generale in cui i mercati sono stagnanti o saturi (quando allo stesso tempo c’è una povertà sempre più diffusa), e senza investimenti è difficile far crescere innovazione, produttività (nonostante la misurazione continua della performance dei lavoratori e l’intensificazione delle routine di lavoro che rendono i posti di lavoro sempre meno tollerabili), posti di lavoro standard, lavori veri di qualità, non “contingent jobs”, “lavoretti” e “bullshit jobs” da sotto-occupazione poco retribuita (quasi 60 milioni di lavoratori americani guadagnano meno di 15 dollari l’ora), redditi e consumi. Ormai le statistiche non registrano i posti di lavoro standard, ma gli occupati, ossia quelli che hanno lavorato anche un’ora sola nella settimana delle rilevazioni, e d’altra parte, se negli USA il tasso di disoccupazione si era ridotto al 3,5% prima della pandemia da CoVid-19, il tasso di partecipazione alla forza lavoro era sceso al 61%, il livello più basso in quasi quattro decenni, in parte dovuto ad un invecchiamento della popolazione, all’”epidemia da oppioidi”5, all’incarcerazione di massa e al grave pregiudizio contro l’assunzione di persone con precedenti penali. Se assumiamo lo stesso tasso di partecipazione al lavoro che c’era all’inizio del 2008, il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti nel gennaio 2020, prima della pandemia da CoVid-19, sarebbe stato intorno all’8% e non al 3,5%, che era il dato ufficiale. C’erano e ci sono milioni di lavoratori scoraggiati che non riescono a trovare impieghi remunerati a condizioni accettabili.
Potere economico e potere politico negli Stati Uniti
E’ attraverso le sue politiche verso il capitale che ogni Stato condiziona in modi differenti e spesso contraddittori le condizioni e i risultati della competizione tra i capitalisti e le combinazioni di capitale che essi controllano. In tempi diversi, uno Stato capitalista può tentare di promuovere, moderare o sospendere questa competizione a vantaggio di un gruppo o un altro di capitalisti. Le definizioni specifiche delle effettive condizioni e dei requisiti dell’accumulazione di capitale all’interno di uno specifico contesto politico nazionale, quindi, devono essere viste come il risultato dell’interazione dinamica tra la lotta competitiva fra i capitalisti e le politiche statali verso il capitale6.
Di norma, i grandi capitalisti sono dei players egemonici in entrambe le arene (mercato e Stato). Attraverso le imprese industriali, commerciali e finanziarie che controllano sono degli attori chiave nella lotta competitiva fra capitalisti. Allo stesso tempo, essi competono per condizionare l’opinione pubblica e gli esiti delle competizioni elettorali e per esercitare il controllo su parti dell’apparato burocratico statale (ministeri, magistratura, amministrazioni di deliberazione e controllo, forze armate e di polizia, scuola, università e ricerca) con l’obiettivo di orientare a loro favore la gestione e la destinazione del capitale pubblico e la regolamentazione del mercato, attraverso:
- il finanziamento dei partiti e dei movimenti politici: ad esempio, almeno 2 miliardi di dollari sono stati raccolti per sostenere i candidati alle elezioni presidenziali americane del 2016, mentre oltre 6,8 miliardi di dollari sono stati spesi dai candidati a cariche federali quell’anno, in gran parte in pubblicità televisiva, e secondo il New York Times, “meno di 400 famiglie” sono state “responsabili di quasi metà del denaro raccolto nella campagna presidenziale del 2016, una concentrazione di donatori politici che non ha precedenti negli ultimi tempi”. Le grandi corporations hanno inondato le elezioni presidenziali, del Senato e della Camera con 3,4 miliardi di dollari di donazioni, mentre i sindacati hanno contribuito solo con 213 milioni – un dollaro sindacale ogni 16 delle imprese;
- la corruzione e le attività di lobbying. Il FMI stima che il costo annuale della corruzione è di oltre 1,5 trilioni di dollari, ovvero il 2% del PIL globale. Oltre 3,15 miliardi di dollari sono stati spesi per fare lobbying al Congresso degli Stati Uniti nel 2016. Secondo un rapporto di InfluenceMap le cinque società petrolifere e del gas quotate più grandi al mondo – Chevron, BP, Shell, ExxonMobil e Total – spendono circa 200 milioni di dollari all’anno per esercitare pressioni, ritardare, controllare o bloccare le politiche pubbliche tese ad affrontare i cambiamenti climatici negli Stati Uniti;
- le attività dei think-tanks e delle fondazioni, nonché il controllo dei media e dell’informazione: negli USA buona parte dei mezzi di informazione è ormai controllata da 5 conglomerati: Comcast, Walt Disney Company, News Corp, Time Warner e National Amusements;
- le revolving doors: il sistema delle “porte girevoli” che consente ad alcune figure chiave di passare disinvoltamente dal mondo delle imprese e della finanza a quello delle istituzioni o viceversa, senza che venga sollevata alcuna obiezione relativa al conflitto di interessi;
- i processi di formazione di dinastie intergenerazionali, di networks e di élites, forme organizzative in larga parte informali e flessibili che consentono nel tempo di infiltrare, sottomettere o trasformare grandi e complessi apparati burocratico-istituzionali in strumenti di strategia egemonica, di costruire coalizioni e alleanze di potere, di intersecare arene istituzionali, economiche e sociali nazionali ed internazionali (si pensi anche all’influenza di club esclusivi e poco trasparenti per la socializzazione ed elaborazione élitaria come la Trilateral Commission o il Bilderberg).
Le dinastie capitalistiche non tengono separate politica, accumulazione di capitale e potere, ma sono contemporaneamente impegnate in tutti questi campi senza soluzione di continuità per perseguire l’obiettivo supremo della propria affermazione egemonica – l’“addomesticamento” del processo di accumulazione – sul resto del mondo. Per decenni economisti, sociologi e storici hanno sostenuto che il capitalismo familiare-dinastico era una forma particolarmente adatta alla fase formativa dello sviluppo industriale nel diciannovesimo secolo, che avrebbe dovuto estinguersi, lasciando il posto alla moderna corporation, supervisionata da un gruppo di manager senza volto e “posseduta” da azionisti anonimi. La presunzione è stata che, sotto il “capitalismo manageriale“, solo un’organizzazione burocratica complessa e specializzata fosse in grado di gestire i vasti sistemi di produzione e distribuzione tecnologicamente sofisticati che rendevano possibile la moderna vita economica. Ma, questo storytelling dell’evoluzione della struttura del potere capitalistico si è dimostrata largamente ideologica e difettosa, dal momento che il capitalismo dinastico è più che mai presente e potente nella società contemporanea americana e mondiale.
Il vero potere dei ricchi: la shareholder value orientation
Negli ultimi quattro decenni, le teorie manageriali egemoni durante il Fordismo, basate sulla crescita attraverso l’espansione e gli investimenti di medio-lungo periodo, che avevano favorito l’ascesa di grandi conglomerate nazionali e multinazionali, sono state scartate. Si è così verificato un cambiamento nel comportamento manageriale con il passaggio dall’approccio “conserva e reinvesti” (retain and reinvest) a quello “ridimensiona e distribuisci” (downsize and distribute). Se negli anni ’60 e ’70, in genere le imprese evitavano i riacquisti delle proprie azioni e spendevano poco più di un terzo del loro reddito netto per i dividendi, mentre investivano gran parte del loro capitale extra in aree che avrebbero rafforzato il business nel lungo periodo (nuovi impianti, nuovi prodotti, formazione dei lavoratori, aumenti dei salari), dagli anni ‘80 la linea dettata dai grandi azionisti al management è divenuta quella del mercato azionario, del debito, dei mercati finanziari e, soprattutto, della “shareholder value orientation”, della “massimizzazione del valore per gli azionisti“.
Una visione resa famosa da Milton Friedman e da Michael C. Jensen, un altro economista premio Nobel e docente all’Harvard Business School, secondo i quali l’unica responsabilità sociale di un’azienda è quella di aumentare i profitti per gli azionisti, per cui i managers dovrebbero sempre prendere delle decisioni per massimizzare i profitti. In un famoso articolo nel New York Times Magazine il 13 aprile 1970, Friedman ha sostenuto che, poiché l’amministratore delegato è un “dipendente” degli azionisti, deve agire nel loro interesse, dando loro il massimo rendimento possibile (“the business of business is business”). Se agisce diversamente, ad esempio donando fondi aziendali a una causa ambientale o a un programma antipovertà, deve ottenere tali fondi da clienti (attraverso prezzi più alti), lavoratori (attraverso salari più bassi) o azionisti (attraverso rendimenti più bassi). Quindi, secondo Friedman, finisce per imporre semplicemente una “tassa” su altre parti e utilizza i fondi per una causa sociale di cui non ha alcuna competenza specifica. Sarebbe meglio consentire a clienti, lavoratori e investitori di usare quei soldi per fare i loro contributi di beneficenza, se lo desiderano.
La normalizzazione della supremazia degli azionisti e dei mercati finanziari fu consolidata durante la presidenza Reagan attraverso le modifiche apportate alle leggi federali sulle imposte sul reddito e a quelle sugli strumenti finanziari, compresa un’attenuazione delle norme antitrust. Queste modifiche hanno promosso l’ascesa degli investitori attivisti, che sono entrati nei consigli di amministrazione e nei comitati esecutivi delle corporations, e hanno liberato gli amministratori delegati (CEO) dalla necessità di dover perseguire altri obiettivi – a cominciare dall’aumento dei salari in relazione all’aumento della produttività – che non fossero la massimizzazione del profitto per gli azionisti.
Le performances dei CEO sono state in gran parte legate alle stock options (il diritto di acquistare azioni ad un prezzo fisso in una data futura) e ad altri bonus, incentivandoli anche ad utilizzare i riacquisti di azioni (i buy-backs, consentiti dalla Securities and Exchange Commission a partire dal 1982) per aumentare quotazioni e utili delle azioni (riducendone il numero sul mercato) e, a loro volta, le retribuzioni da portare a casa. È così che è rapidamente ed enormemente aumentata la disuguaglianza: si è passati da un rapporto medio di 20 a 1 tra la retribuzione del CEO e quella di un impiegato di livello medio nel 1965 all’attuale rapporto di 312 a 1. Allo stesso tempo, i licenziamenti in massa e i tagli dei salari dei dipendenti sono stati spesso salutati con entusiasmo dagli operatori finanziari perché tagliavano i costi e causavano rialzi dei prezzi delle azioni.
Un top manager come Jack Welch è diventato un eroe del business americano negli anni ’80 e ’90. Welch è stato la principale controparte aziendale della rivoluzione neoliberista di Reagan, un campione del “valore per gli azionisti” che per raggiungere questo obiettivo ha investito nei mercati finanziari in rapida crescita e ha implementato la “produzione snella” nell’ambito delle attività industriali dell’azienda. Con Welch, la capitalizzazione di mercato di General Electric è aumentata da 13 miliardi a oltre 400 miliardi di dollari tra il 1981 e il 2001 ed è stato sviluppato un grande braccio finanziario (GE Capital) che è arrivato a realizzare il 40% dei profitti totali, mentre molti impianti industriali sono stati chiusi e trasferiti dove salari e altri costi erano inferiori. Circa 130 mila posti di lavoro (su 404 mila) ben pagati sono stati tagliati in 5 anni. Welch si è guadagnato il soprannome di “Neutron Jack” (come la bomba che uccide gli umani, ma lascia intatti gli edifici) e la rivista Fortune lo ha nominato il “manager del secolo” nel 1999. Al momento del suo ritiro nel 2001, il board decise di premiarlo con una liquidazione record di 417 milioni di dollari. Welch aveva spinto il prezzo delle azioni dell’azienda a livelli senza precedenti, ma dal suo ritiro questo è precipitato – perdendo 45% del suo valore nel solo 2016, dopo che ingenti perdite l’hanno costretta ad uscire dal Dow Jones. La società ha dovuto anche affrontare indagini federali sulle sue pratiche contabili, nonché accuse da parte di “wistleblowers” di un cover up che presumibilmente supera quello di Enron.
“L’uomo dell’organizzazione” (Whyte W.H., The organization man, Simon & Schuster, New York, NY, 1956), è stato rimpiazzato dall’”uomo della transazione” (Lemann N., Transaction man. The rise of the deal and the decline of the American dream, Farrar, Straus and Giroux, New York, NY, 2019) e le imprese hanno cercato di concentrarsi sulle loro competenze strategiche, allocando sempre meno risorse interne alle attività di ricerca e sviluppo, alle retribuzioni e alla formazione dei dipendenti, mentre l’intensità della concorrenza le ha anche costrette a ripensare in maniera fondamentale il modo in cui svolgevano la loro attività produttiva. Nonostante il ricorso ai consigli di grandi multinazionali della consulenza manageriale – come McKinsey & Company, Boston Consulting Group, Price Waterhouse, Bain, Kpmg, Deloitte, Ernst & Young e Coopers & Lybrand -, non è stato sempre facile convertire le forme organizzative e le tecniche manageriali che erano adatte per la grande produzione standardizzata di massa dell’era Fordista in sistemi di produzione più flessibili con la loro enfasi sulle soluzioni dei problemi, sulle risposte rapide e spesso altamente specializzate, sulla gestione finanziaria e logistica di catene di approvvigionamento globali e sull’adattabilità delle professionalità a fini particolari.
La Chrysler è stata salvata dalla bancarotta dal governo federale americano all’inizio degli anni ’80 e di nuovo nel 2009 (prima attraverso la garanzia pubblica dei suoi prestiti, poi favorendone l’acquisizione da parte della FIAT, controllata dalla famiglia Agnelli, che si è dovuta però impegnare in un programma di investimenti nello sviluppo di motori ibridi), così come sono andate in bancarotta General Motors (salvata dai prestiti dei governi americano e canadese) e Eastman Kodak (che pure aveva realizzato la fotocamera digitale nel 1989, vendendo però il brevetto in cambio di soldi), mentre l’IBM, la più importante impresa informatica americana per crescita dell’era postbellica (ha inventato il mainframe e il floppy disk), è riuscita a sopravvivere solo attraverso un drastico downsizing negli anni ’90 e una ricollocazione geografica delle sue attività, per cui nel 2019 aveva più dipendenti in India (130 mila sui 390 mila totali) che negli USA (meno di 100 mila persone). Negli anni 2000 ha smesso di produrre PC, poi anche i semiconduttori, e per cercare di adattarsi ad un settore IT in continua evoluzione, dopo essere rimasta indietro nel cloud computing, ha dovuto acquisire per 34 miliardi di dollari Red Hat, il più grande fornitore di software open source (Linux), e si è divisa in due società per concentrarsi sui settori ad alto margine di cloud computing ibrido aperto, intelligenza artificiale e servizi di supporto tecnico ai clienti, separandoli dai servizi centralizzati che riguardano la vendita (o l’affitto) e la gestione di mainframe e software o servizi cloud tradizionali a grandi aziende (banche, assicurazioni, pubbliche amministrazioni, treni, energia elettrica, gas, agenzie fiscali, medicina, etc.). Processi analoghi di ridimensionamento hanno subito imprese giganti del Fordismo come Alcoa, Hewlett Packard, Xerox e Time Warner, mentre sono spariti Bethlehem Steel, Polaroid, RCA e tanti altri marchi storici popolari.
Alle economie di scala ricercate nella produzione di massa Fordista si è contrapposta una capacità crescente di produrre una varietà di beni a più basso costo sia in piccola sia in grande serie. Ogni impresa ormai rappresenta un caso particolare sul piano della gestione ed organizzazione del proprio sistema produttivo. Sotto la spinta dello “shareholder value orientation”, della pressione di estrarre valore e della competizione, infatti, le imprese sono state portate alla ricerca continua di flessibilità e di specializzazione produttiva sulle “core competencies”, con l’imperativo di ridurre il tempo di turnover, il time-to-market, di rispondere con modalità puntuali e diversificate alle particolari richieste e segmentazioni dei mercati.
Per molte imprese leader, come Nike o Apple, l’enfasi fondamentale si è ormai spostata dall’attività produttiva gestita in modo diretto alla ricerca, all’engineering, alla gestione dei flussi finanziari e dei dati, al coordinamento della logistica dei flussi di materie prime, semilavorati e merci prodotte da subfornitori specializzati formalmente autonomi (la cosiddetta catena del valore), e al branding management dei prodotti. La parte di conoscenza, progettazione, gestione e finanza di alto livello rimane centralizzata, mentre le produzioni, le forniture, i processi intermedi, l’indotto, quindi il lavoro, sono parcellizzati in molteplici luoghi (reali e virtuali di produzione e lavoro) lungo le catene globali del valore e non più concentrati in solo luogo o regione. L’impresa italiana Bianchi progetta i suoi modelli di bicicletta in Italia e poi li fa assemblare a Taiwan e in Cina, utilizzando componenti provenienti da Malesia, Giappone, Italia, Cina e altre parti del mondo. Ogni fornitore è uno specialista di componenti, come il giapponese Shimano che fornisce freni e cambi.
Un ruolo chiave riveste la gestione dei brevetti, copyrights e altre forme di proprietà intellettuale che ha la stessa funzione di estrarre rendite da situazioni di monopolio artificialmente create dalle politiche governative, che spesso finanziano il costo della ricerca e dello sviluppo che porta alle innovazioni tecnologiche (come i vaccini anti CoVid-19) poi brevettate dalle aziende private, e dagli accordi internazionali. Oggi, tutto è brevettabile, dal software al genoma degli esseri viventi, dalle medicine alle procedure aziendali, dai fertilizzanti ai semi delle piante. La ricerca aziendale è finalizzata a brevettare qualcosa che possa dar luogo a monopoli e rendite di posizione o a start up che successivamente possono essere vendute o quotate in Borsa realizzando un profitto di monopolio. Inoltre, la proprietà intellettuale può essere spostata facilmente all’estero (ad esempio, nei paradisi fiscali), al contrario di una fabbrica.
Nike, Apple e altre global corporations come loro governano enormi catene del valore globali, ma non investono più il loro capitale nelle fabbriche: sono diventate delle “branding firms”, dei grandi marchi commerciali che fanno enormi profitti sfruttando il “potere di mercato” derivante dai diritti legati all’uso dei loro brevetti, copyrights, marchi e “narrazioni” sull’escusività e sulla “distinzione” che i loro prodotti conferiscono a coloro che li consumano7.
In alcuni casi, queste aziende non si fanno scrupolo anche di appropriarsi di soluzioni tecnologiche sviluppate da altri. Apple e Broadcom, ad esempio, dovranno pagare 1,1 miliardi di dollari di danni per aver violato i brevetti di proprietà della California Institute of Technology legati all’uso del chip per il wi-fi degli apparecchi elettronici. In ogni caso, queste aziende reinvestono solo in minima parte in attività produttive, rispetto a quelle finanziarie, commerciali e alla distribuzione di profitti agli azionisti e al top management.
La pratica dell’esternalizzazione, non identificandosi più la capacità produttiva con lo specifico campo di attività di un’impresa, ha fatto cadere i confini societari delle aziende e ha reso, attraverso il collegamento a rete con altre imprese, i perimetri aziendali espandibili senza vincoli predeterminati. L’impresa, infatti, a monte e a valle, può operare con efficacia acquistando servizi produttivi e collaborando con imprese appaltatrici nella progettazione, prototipizzazione, produzione e commercializzazione dei prodotti/servizi. A seguito di questo processo di reticolarizzazione, l’impresa può essere “reale” e/o “virtuale, può comporsi e decomporsi con facilità, scaricando sulle catene di subfornitura i rischi legati ai costi di produzione, mentre l’organizzazione che resta stabile, anche se evolve nel tempo, si sposta a livello super-imprenditoriale e finanziario. D’altra parte, l’e-commerce e le altre tecnologie digitali aumentano le opportunità di mercato anche per imprese di piccole dimensioni e oggi molte imprese “nascono globali”, potendo raggiungere gli acquirenti dei propri prodotti e servizi attraverso la rete Internet fin dalla loro nascita.
La struttura del potere economico-politico
Negli Stati Uniti (ma anche in altri Paesi ricchi ed emergenti), Trump e i leader politici etno-nazionalisti bianchi che seguono la sua strada hanno cercato e cercano di dare una risposta ai sempre più ampi segmenti della cittadinanza che hanno paura di perdere il loro lavoro ben remunerato, le loro tutele sociali e lo stile di vita acquisito, che si sono sentiti e si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni nazionali a tutti i livelli e dai leader e partiti politici tradizionali che per decenni hanno promosso con ottimismo il binomio neoliberismo-globalizzazione, sostenendo che questo avrebbe consentito di attuare politiche riformiste, che quello che andava bene alle grandi imprese e alle grandi banche avrebbe portato maggior benessere e prosperità per tutti, mentre ha portato al precariato del lavoro, ad una riduzione dei redditi reali della maggioranza dei lavoratori, ad una “redistribuzione alla rovescia” e al consolidamento di un “capitalismo patrimoniale”, come ha sostenuto Thomas Piketty nella sua monumentale ricerca sulla concentrazione e sulla distribuzione ineguale della ricchezza.
Ha arricchito in modo abnorme una piccola classe capitalista transnazionale (a discapito anche della vecchia borghesia industriale ancora radicata sui territori nazionali e locali) composta da poche migliaia di “grandi famiglie” dinastiche del capitalismo globale che sono state finora in grado di risolvere efficacemente quello che Marx definiva come “il conflitto Faustiano tra la passione per l’accumulazione e il desiderio per il piacere”, seguendo la ferrea regola della “accumulazione per l’accumulazione”, e da un ristretto numero di nuovi imprenditori di successo emersi negli ultimi due decenni (i Gates, gli Zuckerberg, i Bezos, etc.). Insieme questi due gruppi di grandi capitalisti costituiscono quell’1% della popolazione mondiale che controlla le global corporations industriali e finanziarie e che secondo il premio 2001 Nobel Joseph Stiglitz “controlla il 90% della ricchezza mondiale”.
Negli USA, pur tenendo conto delle partecipazioni indirette in fondi pensione e comuni, il 10% più benestante dei residenti americani costituisce l’80% di coloro che posseggono azioni di corporations americane. L’1% più ricco di loro ne possiede il 40%. Secondo gli ultimi rapporti di Oxfam, 8 super miliardari detengono la stessa ricchezza netta – 426 miliardi di dollari – di 3,6 miliardi di persone e l’82% dell’incremento della ricchezza globale è andato nelle tasche dell’1% della popolazione più ricca nel 2017, mentre secondo il UBS/PwC Billionaires Report i miliardari in dollari sono 1.542 nel mondo e la concentrazione della ricchezza nel 2017 era pari a quella del 1905 e della cosiddetta Gilded Age.
Inoltre, la globalizzazione neoliberista ha arricchito anche un relativamente piccolo gruppo di politici, “intellettuali organici” e lavoratori ultra pagati – manager, quadri tecnici e creativi, consulenti delle global corporations, che in quelle americane portano a casa circa 300 volte lo stipendio di un dipendente medio. Bob Iger, CEO della Walt Disney Company, ha avuto una retribuzione di 65 milioni di dollari nel 2018, il corrispettivo di 1.424 volte il salario di un dipendente medio dell’azienda. Mentre sono cresciuti i guadagni miliardari di un ristretto gruppo di “tecnici del capitale”, una quantità sempre maggiore di popolazione è stata tagliata fuori quasi del tutto, rendendo tanti figli delle classi medie e popolari più poveri dei loro genitori e mettendo a rischio il fondamento valoriale del sistema capitalista e la sua stessa capacità di riproduzione.
Milioni di genitori e figli delle classi medie e popolari sono ora angosciati, bisognosi di riscatto, protezione e sicurezza. Non credono più al mantra del binomio neoliberismo-globalizzazione e all’offerta politica “continuista” delle forze politiche sistemiche tradizionali, e cercano rifugio in leader carismatici di contro-movimenti politici che offrono soluzioni alternative, anche estreme, di cambiamento, puntando su una ostilità alla globalizzazione, finora espressa più sull’opposizione al libero movimento delle persone che ai flussi di capitali e merci, sul recupero di identità culturali nazionali, sul ritorno all’autorità dello Stato, sul conservatorismo religioso, sul bonapartismo plebiscitario, ossia sulla verticalizzazione sempre più spinta della leadership, sul protezionismo commerciale e culturale e sulla xenofobia. Così, per un numero sempre crescente di persone Marine Le Pen, Nigel Farage, Boris Johnson, Geert Wilders, Beppe Grillo, Viktor Orbàn, Hans Christian Strache, Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Donald Trump danno risposte politiche che prendono in considerazione il loro disagio sociale, economico e culturale e che sono in grado (almeno apparentemente) di offrire loro una prospettiva di futuro, una “speranza” di riscatto.
Gli ultraricchi americani tra paure e distopie
I veri ricchi, come ha osservato F. Scott Fitzgerald ne “Il grande Gatsby”, “sono diversi da te e me“, perché la loro ricchezza li rende “cinici dove noi siamo fiduciosi” e li fa pensare che siano “migliori di noi“. I ricchi americani sono consapevoli che nel medio e lungo termine queste dinamiche sociali ed economiche così inique (basti pensare che i maschi americani più ricchi vivono 15 anni in più rispetto ai maschi americani più poveri, mentre per le donne gli anni sono 10) non sono sostenibili e in molti, oltre a fare la tradizionale beneficenza filantropica, vivono nell’ansia che il Paese possa insorgere contro di loro e che nel prossimo futuro possano scoppiare disordini, sommosse, tensioni razziali e conflitti sociali.
I ricchi temono l’arrivo di una catastrofe (come nei casi degli uragani Katrina e Irma), di una pandemia (come il coronavirus CoVid-19), di disordini sociali (come quelli avvenuti nel 2020 a seguito della mobilitazione del movimento Black Lives Matter e per il definanziamento della polizia), di una guerra civile, di un collasso del governo e delle istituzioni (una situazione di crollo dell’apparato statale che viene chiamata wrol – without rule of law – cioè “fine dello stato di diritto”) o di una rivoluzione. Pertanto, si preparano a sopravvivere (“survivalism”) rifugiandosi in bunker sotterranei con armi automatiche e provviste8 o predisponendo vie di fuga in rifugi dorati in isole sperdute o in case di lusso in Nuova Zelanda, un arcipelago di oltre 600 isole che ai loro occhi offre distanza e sicurezza, ma dove di recente, per contenere il “caro-casa” e bloccare l’”invasione” dei super-ricchi americani e cinesi, il governo laburista ha bloccato la possibilità di acquistare case da parte di stranieri se non sono residenti.
Il loro manifesto è il libro The sovereign individual: how to survive and thrive during the collapse of the welfare state, pubblicato nel 1997, i cui co-autori sono James Dale Davidson, un investitore privato specializzato nel consigliare i ricchi su come trarre profitto dalle catastrofi economiche, e il defunto Lord William Rees-Mogg, a lungo direttore del Times (il cui figlio, Jacob Rees-Mogg, è un deputato e ministro ultra-conservatore britannico pro-Brexit). Il libro-manifesto è un testo apocalittico e distopico che preconizza il collasso della civiltà occidentale basata sullo Stato-nazione, rimpiazzata da deboli confederazioni di città-Stato corporative, con la presa del potere da parte di una “élite cognitiaria” globale, una classe di individui sovrani in grado di controllare enormi risorse (una sorta di neo-feudalismo oligarchico).
Inoltre, molte delle persone più ricche della Silicon Valley (come Peter Thiel, co-fondatore dei PayPal, o Serge Faguet) e di Wall Street (come Julian Robertson, guru degli hedge funds), stanno investendo a piene mani nel “business dell’immortalità” per migliorare chi è già in salute e costituire una nuova élite di superuomini potenziati in grado di controllare i propri algoritmi biochimici9, applicando a sé stessi forme di biohacking (che uniscono l’alta tecnologia dell’intelligenza artificiale, wellness, interventi anti-invecchiamento) – per cui c’è chi dorme su materassi elettromagnetici, segue rigide diete alimentari, si fa fare trasfusioni di cellule staminali e prende fino a 150 pillole “cognitive” al giorno. Finanziano a piene mani la ricerca nell’ingegneria genetica e biomedica, medicina rigenerativa, nanotecnologie e interfacce cervello-intelligenza artificiale. Di recente, Facebook ha comprato per circa un miliardo di dollari Ctrl-Labs, una startup che sta studiando il modo di consentire alle persone di comunicare con i computer tramite segnali cerebrali (il pensiero), con l’obiettivo di utilizzare la tecnologia a interfaccia neurale di Ctrl-Labs per sviluppare un braccialetto “che dia alle persone il controllo dei loro dispositivi come una naturale estensione del movimento“. Inoltre, con l’avvento delle tecnologie della biologia sintetica ora i geni possono essere prodotti e modificati ripetutamente. La capacità di progettare cose viventi che questo fornisce rappresenta un cambiamento fondamentale nel modo in cui gli esseri umani interagiscono con la vita del pianeta, potenzialmente di maggiore impatto rispetto al sorgere dell’agricoltura o dello sfruttamento dei combustibili fossili.
Secondo un acuto storico scenarista come Yuval Noah Harari, “due processi insieme – la bioprogettazione abbinata alla crescita dell’intelligenza artificiale – potrebbero avere come conseguenza la divisione dell’umanità in una ristretta classe di superuomini e in una sconfinata sottoclasse di inutili Homo Sapiens. A peggiorare la già nefasta situazione, con la perdita di importanza economica e potere politico delle masse, lo Stato perderà gran parte dei motivi per investire in salute, educazione e welfare. E’ pericoloso essere superflui. Il futuro delle masse dipenderà allora dalla buona volontà di un’élite. Forse ci sarà buona volontà per alcuni decenni. Ma in un momento di crisi – nel caso per esempio di una catastrofe climatica – sarà facile essere tentati di scaricare le persone superflue” (Harari, 2018:122-123).
Un mondo in cui l’umanità cercherebbe di percorrere la strada del dottor Frankenstein e potrebbe finire per essere divisa non più solo in diverse classi sociali, ma addirittura “in diverse caste biologiche o persino in diverse specie”, con una casta superiore di entità superintelligenti che potrebbe anche essere in grado di costruire muri e fossati o colonie spaziali per tenere fuori le masse dei “barbari” divenuti ormai irrilevanti perché la loro forza lavoro sarebbe sostituita da quella di fedeli e meno costosi robot e cyborb prodotti in serie e dotati di intelligenza artificiale.
Da questo punto di vista, grazie alla combinazione di bioingegneria, interfacce cervello-intelligenza artificiale e ingegneria sociale, sembra ormai a portata di mano la possibile costruzione di quel “mondo nuovo” distopico preconizzato dalle visioni fantascientifiche di grandi scrittori come Aldous Huxley, George Orwell (memorabile la sua descrizione dello Stato di sorveglianza), Isaac Asimov, Philip K. Dick, Anthony Burgess, James D. Ballard e dei narratori cyberpunk degli anni ‘80, oltre che di grandi registi cinematografici come Stanley Kubrick con 2001: Odissea nello Spazio, Ridley Scott con Blade Runner, Steven Spielberg con Minority Report, le sorelle Lana e Lilly Wachowski con The Matrix e Peter Weir con The Truman Show.
Per questo molti dei teorici dell’intelligenza artificiale – guidati dal filosofo Nick Bostrom (Superintelligence. Paths, dangers, strategies, Oxford University Press, Oxford, 2014) – sostengono che lo scenario apparentemente fantascientifico di un’intelligenza artificiale cosciente che sfugge al controllo umano (d’altra parte la storia della programmazione informatica è piena di piccoli errori che hanno scatenato catastrofi) e che si impadronisce del mondo rappresenta una minaccia esistenziale per l’umanità così enorme che è ora di prendere dei provvedimenti – da parte dei parlamenti, dei governi, dell’ONU e degli altri organismi internazionali – per evitare che ciò accada. Affidarsi alla superintelligenza artificiale potrebbe essere una enorme minaccia per la sopravvivenza dell’umanità ed è possibile che ad un certo punto la stessa comunità dell’IA possa seguire l’esempio del movimento anti-nucleare negli anni ’40 quando, dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, gli scienziati si unirono per cercare di limitare ulteriori test nucleari.
Un branco di gattopardi che eludono ed evadono le tasse
Negli ultimi tre decenni, una parte rilevante degli ultraricchi americani – con i fratelli Koch in prima fila – ha finanziato a piene mani la filantropia di orientamento conservatrice. La loro agenda è stata quella di cambiare il dibattito pubblico in modo che fosse più accomodante nei confronti della loro visione del mondo neoliberista e anarcocapitalista, che si oppone alla regolamentazione della finanza, al miglioramento del salario minimo, ai controlli sulle industrie inquinanti e alla creazione di un’assistenza sanitaria universale. Finanziano accademici che negano il cambiamento climatico, sostengono think-tanks del libero mercato, stringono alleanze con gruppi religiosi fondamentalisti conservatori, creano stazioni televisive e radio populiste e danno vita ad “istituti aziendali” all’interno delle università, che consentono a loro, non alle università, di selezionare gli accademici beneficiari.
Allo stesso tempo, c’è anche un altro crescente segmento di ultraricchi americani “illuminato” – guidato da Bill e Melinda Gates e da George Soros – che promuove l’idea di cambiamento sociale e che aspira a guidarlo. Vogliono essere adulati, si aspettano di essere elogiati come eroici creatori di posti di lavoro e come esempi di uomini d’affari innovativi e moralmente integri e responsabili che non hanno beneficiato di un “sistema truccato”. La maggior parte dei miliardari, ha affermato Zuckerberg, sono semplicemente “persone che fanno cose veramente buone e che aiutano un sacco di altre persone; e per questo sono ben ricompensati“.
Molti di questi ultraricchi sostengono finanziariamente movimenti iniziati da persone normali che cercano di cambiare aspetti specifici della società. Più spesso, tuttavia, avviano iniziative autonome che per la maggior parte non sono gestite in modo democratico, né realmente riflettono la ricerca di soluzioni collettive o universali, e che piuttosto privilegiano l’uso del settore privato e delle sue appendici universitarie, di comunicazione e istituzionali/fondazionali che si dedicano alla filantropia, ma che sono state fatte nascere principalmente per eludere le tasse e mantenere il controllo delle corporations che producono ricchezza e accumulano capitale.
Sostengono che la soluzione ai problemi del mondo attuale – prevenire il riscaldamento globale, promuovere la diversità e l’inclusione, eliminare la povertà – debba essere trovata nel mercato privato, nelle tecnologie sviluppate dalle imprese e nell’azione volontaria gestita in modo imprenditoriale, non nella vita politica pubblica, nella democrazia partecipativa, nell’azione di governanti eletti e responsabili nei confronti di cittadini/elettori, nella legge, nell’intervento ridistributivo e regolativo statale. Il magnate del computer Michael Dell, la 39esima persona più ricca al mondo, ad esempio, a Davos 2019 ha affermato che: “Mi sento molto più a mio agio con la nostra capacità … di allocare quei fondi rispetto che a darli al governo“.
Sono convinti che la tassazione tolga la libertà di scegliere di essere dei benefattori virtuosi e che gli strumenti, le mentalità e i valori che li hanno aiutati ad essere dei vincenti, siano il segreto per rimediare alle ingiustizie sociali. Per cui, paradossalmente, coloro che, con metodi predatori e spesso monopolistici, sono tra i maggiori beneficiari dell’attuale sistema economico e, quindi, tra i maggiori responsabili delle crescenti disuguaglianze sociali, pretendono di presentarsi come dei salvatori da un’epoca di disuguaglianze. Dei riformatori che vogliono “cambiare il mondo per renderlo un posto migliore.”
Ma, se va bene questi paladini del “filantrocapitalismo”10 cercano di curare i sintomi, non affrontare le cause profonde del disagio sociale. In questo modo, migliorano la propria immagine pubblica e condizionano il dibattito pubblico spostando l’attenzione e l’agenda da soluzioni politicamente più radicali che potrebbero risolvere i problemi per tutti, ma metterebbero in discussione le basi e la legittimità della loro enorme ricchezza. Finanziano progetti per nutrire gli affamati, creare posti di lavoro, costruire alloggi e migliorare i servizi, ma tutto questo lavoro a fin di bene può essere spazzato via da tagli alla spesa pubblica, prestiti predatori o bassi livelli di retribuzione. Essendo le persone che più hanno da perdere da un vero cambiamento sociale, di fatto, per loro la società dovrebbe essere cambiata in modi che non cambiano il sistema economico sottostante che ha permesso a loro di essere dei vincitori e favorito l’acuirsi di molti dei problemi sociali, economici ed ambientali che essi ora vorrebbero cercare di risolvere11.
Un’operazione “gattopardesca” (una sorta di “smokescreen”, di cortina fumogena) di autodifesa conservatrice in linea con l’affermazione “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” dell’aristocratico Tancredi Falconeri nel romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Così ci sono i finanzieri di Goldman Sachs e di BlackRock che cercano di cambiare il mondo attraverso iniziative “win-win” (soluzioni vantaggiose per tutti) come i “green bonds”, l’investimento ESG (ossia attento alle politiche aziendali in campo ambientale, sociale e della governance), l’”impact investing” nei “purpose-driven brands” (portafogli basati su attività che curano l’ambiente e portano benefici per la società), il “social venture capital” e il miglioramento della qualità della governance. Oppure, aziende tecnologiche come Uber e Airbnb che si dipingono come degli strumenti che danno potere ai poveri, consentendo loro di fare gli autisti o di affittare stanze delle loro case ai turisti. O finanzieri che cercano di convincere il mondo dell’associazionismo sociale che la ricerca di una maggiore uguaglianza debba essere perseguita accettando posti nei consigli di amministrazione e posizioni di leadership. Ancora, grandi corporations costruite e gestite in modi discutibili che si dichiarano impegnate nel perseguire la responsabilità sociale d’impresa, tenendo conto del benessere dei consumatori, dei dipendenti, dei fornitori, della comunità in cui opera l’impresa. D’altra parte, i consumatori premiano le imprese che appaiono eticamente responsabili, come sono in grado di causare danni seri attraverso i boicottaggi, coordinati sui social media, a quelle che violano apertamente i princìpi di equità e correttezza.
Ma, qualunque sia il bene che questi ultraricchi e le fondazioni e le global corporations che essi controllano potrebbero fare, l’instancabile spinta verso l’efficienza, la sistematica distruzione del potere dei sindacati, la massimizzazione del valore per gli azionisti, l’avvelenamento dell’ambiente naturale e l’evasione o elusione delle tasse (per cui non stanno pagando la loro giusta quota anche grazie agli incentivi fiscali per le donazioni filantropiche) minano la qualità e le basi stesse dello Stato democratico, privando necessariamente la maggior parte delle persone della loro dignità, del loro potere sociale e politico, della loro voce, dei loro diritti e della possibilità di incidere sullo stato reale delle cose. Il presidente Theodore Roosevelt dava un duro giudizio dei ricchi filantropi come John D. Rockefeller, sostenendo che “nessuna quantità di beneficenza nello spendere tali fortune può in alcun modo compensare la cattiva condotta nell’acquisirle“.
Il giovane storico olandese Rutger Bregman ha suscitato scandalo per aver detto al meeting di Davos 2019 che “il re è nudo”, che la volontà degli ultraricchi del “club dei globalisti” di impiegare parte delle loro ricchezze nelle fondazioni filantropiche, piuttosto che vederla spesa da uno Stato legittimo, è una forma di anarchismo e una “cazzata“: “sento persone che parlano il linguaggio della partecipazione, della giustizia, dell’uguaglianza e della trasparenza, ma nessuno solleva il vero problema dell’elusione fiscale e dei ricchi che semplicemente non pagano la loro giusta quota.” Se nel mondo vigesse un’equa distribuzione delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropia, perché non ci sarebbero più i pochi plutocrati che detengono più della metà delle risorse del pianeta.
D’altra parte, negli Stati Uniti, il Paese dove le statistiche mostrano che la filanropia è più diffusa e massiccia, appena un quinto del denaro donato dai grandi donatori va ai poveri. Molto va alle arti, alle squadre sportive e ad altre attività culturali, e la metà va all’istruzione e all’assistenza sanitaria. Le donazioni più grandi nel settore dell’istruzione nel 2019, però, sono andate alle università e alle scuole d’élite frequentate dagli stessi ricchi.
Gli ultraricchi dicono di volere una società più giusta, ma non sono disponibili a discutere su quali debbano essere gli strumenti realmente necessari, come se ad una conferenza dei vigili del fuoco “nessuno avesse il permesso di parlare dell’acqua“. Apple, Google, Amazon e tante altre aziende come loro e anche i loro azionisti pretendono di essere considerati dei soggetti socialmente responsabili, ma il primo elemento della responsabilità sociale dovrebbe essere quello di pagare una giusta quota di tasse.
Amazon ha realizzato un profitto di 11,2 miliardi di dollari nel 2018, ma non ha pagato alcuna imposta federale per il secondo anno consecutivo, a causa di vari “crediti d’imposta” non specificati e il tax breaks per le stock options dei suoi amministratori. Lo stesso è successo per Netflix (un profitto di 845 milioni e zero tasse federali o statali pagate). Il numero di aziende che hanno pagato zero imposte societarie è raddoppiato nel 2018 per effetto della riforma fiscale di Trump del 2017 e tra queste c’erano, oltre Amazon e Netflix, anche altre delle più redditizie corporations (60 delle Fortune 500): Delta Airlines, Chevron, General Motors, EOG Resources, Duke Energy, Occidental Petroleum, Dominion Energy, Honeywell, Deere & Co, American Electric Power, Hulliburton, IBM, Saleforce. Zero tasse per un totale di utili pari a 79 miliardi di dollari nel 2018. Amazon ha anche costretto Seattle, la sua città natale, a fare marcia indietro su un piano volto a tassare le grandi corporations come sé stessa per pagare edilizia popolare per senzatetto e per una popolazione in crescita che non può permettersi gli altissimi affitti causati in parte da Amazon.
Se tutti evitassero e evadessero le tasse come queste società – che, grazie alle catene del valore e all’esercizio dei diritti alla proprietà intellettuale, hanno di fatto reso inapplicabile il sistema del cosiddetto transfer pricing basato sul principio che le tasse si pagano dove si svolge un’attività economica -, la società e lo Stato non potrebbero funzionare, né tanto meno fare quegli investimenti pubblici che hanno portato a Internet, da cui Apple, Google e Amazon dipendono.
Negli ultimi 40 anni il Congresso USA (come altri parlamenti dei Paesi ricchi) ha più o meno rinunciato a perseguire politiche fiscali progressive a fronte della richiesta da parte delle grandi imprese globali, dei mercati e delle organizzazioni finanziarie internazionali di una riduzione della spesa pubblica e di una sempre più bassa tassazione dei profitti aziendali e finanziari, dei patrimoni personali/familiari più grandi e dei redditi più elevati. Il gruppo di giornalisti investigativi no-profit di ProPublica ha pubblicato un’inchiesta da cui si evince che i 25 americani più ricchi – tra cui Jeff Bezos, Warren Buffett, George Soros, Michael Bloomberg, Bill Gates, Rupert Murdoch, Mark Zuckerberg ed Elon Musk -, hanno pagato una “aliquota fiscale reale” di appena il 3,4% (pari a 13,6 miliardi di dollari complessivi) tra il 2014 e il 2018, nonostante il loro patrimonio netto collettivo sia aumentato di oltre 400 miliardi di dollari nello stesso periodo. I 25 americani più ricchi hanno pagato collettivamente lo 0,17% della loro ricchezza in tasse nel 2018. Questo, mentre una famiglia media americana, con un reddito da 70 mila dollari all’anno, ha pagato il 14% di tasse federali nello stesso periodo. ProPublica ha utilizzato i dati dell’Internal Revenue Service (IRS) per analizzare le dichiarazioni dei redditi e ha scoperto, ad esempio, che nel 2007 Bezos, il fondatore di Amazon e già miliardario, non pagava tasse federali. Nel 2011, quando aveva un patrimonio netto di 18 miliardi di dollari, è stato nuovamente in grado di non pagare le tasse federali e ha persino ricevuto un credito d’imposta di 4 mila dollari per i suoi figli.
I miliardari americani (come tutti gli altri) si avvalgono di strategie di elusione fiscale al di fuori della portata della gente comune. La loro ricchezza deriva dalla crescita esponenziale del valore dei loro beni patrimoniali, come pacchetti azionari e proprietà. Incrementi di valore che però le leggi statunitensi (in assenza di tasse sulla ricchezza12 ) non riconoscono come reddito imponibile a meno che e fino a quando questi miliardari non vendono o trasferiscono i loro beni. Negli ultimi decenni, con l’impennata del mercato azionario, le vaste fortune accumulate dai membri della plutocrazia sono in gran parte sfuggite alle tasse. I dati dell’IRS mostrano che i più ricchi possono, in modo perfettamente legale, pagare tasse sul reddito che sono solo una piccola frazione delle centinaia di milioni, se non miliardi, che costituiscono i loro patrimoni e che crescono esponenzialmente ogni anno.
Paradisi fiscali, elusione ed evasione fiscale
A partire dai primi anni ’80 si è scatenata una corsa al ribasso che ha visto spuntare come funghi decine di veri e propri paradisi fiscali13. Sono state approvate leggi fiscali che consentano ai ricchi e alle corporations che essi controllano di eludere o evadere legalmente le tasse.
Per questo ora appare necessario riportare sotto controllo il fenomeno dell’evasione ed elusione fiscale che finora la globalizzazione finanziaria non regolata ha reso sempre più facile per le imprese globali, che spostano i loro profitti nei Paesi a basso regime fiscale. Uno studio di Tørsløv, Wier e Zucman delle Università di Copenhagen e Berkeley stima che nel 2015 due terzi dei profitti esteri delle multinazionali americane e il 5% di tutti gli utili netti prodotti nell’economia mondiale, siano finiti nei paradisi fiscali, eludendo centinaia di miliardi di euro di tasse negli USA e in Europa14.
Secondo Oxfam, “nel 2015 Italia, Francia, Spagna e Germania hanno perso un gettito fiscale di circa 35,1 miliardi di euro, gettito che è invece finito per l’80% in Olanda, Lussemburgo e Irlanda, grazie alle sofisticate operazioni di spostamento dei profitti”. A questi tre Paesi vanno aggiunti anche Malta e Cipro. I governi di questi Paesi stringono accordi riservati con le global corporations per far consentire loro di far sparire miliardi che in tal modo vengono tolti ai cittadini europei.
Se si fa business in Europa, se si ha una holding e si cerca un luogo dove installarla, Amsterdam è il posto giusto. Ci sono i circa 10 mila contabili, avvocati e consulenti che lavorano direttamente o indirettamente nel settore dell’elusione fiscale. Ma, non è soltanto il fisco, praticamente inesistente per le holding di partecipazioni (che nella quasi totalità dei casi sono solo delle “letterbox companies”), ad attirare le global corporations, c’è anche la flessibilità della governance societaria, con il voto plurimo nelle assemblee degli azionisti (triplo da subito, con la possibilità di moltiplicare i diritti per 5 dopo tre anni e per 10 dopo cinque) come strumento per il mantenimento del controllo da parte di azionisti forti di minoranza e l’assenza del voto di lista (per cui le minoranze indesiderate non hanno diritto di rappresentanza nel board).
Chi non può aprire una sede ad Amsterdam, Lussemburgo o Dublino per eludere o evadere, è costretto a portare tutto il carico fiscale, compreso quello di chi le imposte non le paga, siano essi evasori o multinazionali. Un carico doppio o triplo che falcidia il profitto dei piccoli e medi imprenditori, imprese che hanno già margini inferiori rispetto alle grandi.
Il FMI15 sottolinea la necessità di sviluppare i progressi nella cooperazione internazionale in materia fiscale con un’attenzione particolare alle circostanze dei Paesi emergenti e a basso reddito in modo che sia possibile garantire che questi Paesi possano continuare a riscuotere entrate fiscali dalle attività delle global corporations, contrastando le loro strategie di profit shifting e la competizione fiscale tra Stati. Entrate necessarie per aiutarli a raggiungere una maggiore crescita economica, ridurre la povertà e raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile del 203016.
Ma, i paradisi fiscali vengono utilizzati anche dagli individui ricchi che vivono in “comunità recintate” (gated communities) e spostano i loro fondi in conti bancari non dichiarati nei paradisi fiscali off-shore, come evidenziato dalle rivelazioni dette Wiki Leaks, Luxembourg Leaks, HSBC Leaks, Swiss Leaks, Panama Papers (che hanno permesso alle autorità fiscali a recuperare oltre 500 milioni di dollari in tasse e sanzioni non pagate in tutto il mondo), Malta Files, Paradise Papers, Mauritius Leaks e Luanda Leaks rese disponibili soprattutto grazie alle inchieste del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi.
Ogni paradiso fiscale ha la sua specializzazione all’interno del grande gioco della finanza offshore – ad esempio, Jersey è specializzata in trust, le British Virgin Islands in costituzione di società che garantiscono l’anonimato, il Liechtenstein in fondazioni -, differiscono anche nella loro tolleranza verso la criminalità (tra i territori britannici Gibilterra è più a rischio di Guernsey, ma più pulita di Anguilla) e servono regioni geografiche diverse (Mauritius per l’Africa e l’India; Emirati Arabi Uniti per il Medio Oriente; Cipro per l’ex Unione Sovietica; le Bahamas per gli Stati Uniti).
Un fenomeno, quello dei paradisi fiscali, che è strettamente legato a quello della “secessione privata dalla società” – fenomeno di segregazione sociale che il filosofo politico Michael J. Sandel definisce “sky-boxification of society”, utilizzando la metafora delle cabine di lusso per i vip negli stadi di baseball, mentre i poveri stanno sotto il sole o la pioggia – da parte delle imprese globali e dei ricchi che le controllano, che ha ridotto le basi fiscali degli Stati in tutto il mondo e limitato la loro capacità di ridistribuire i benefici economici derivanti dall’integrazione commerciale e di intervenire direttamente nell’economia per sostenere la domanda aggregata.
Nel 2016, ben 82 mila milionari si sono trasferiti in un nuovo Paese grazie a politiche d’immigrazione fatte per attirare i ricchi del pianeta, fondamentalmente vendendo la cittadinanza, i permessi di soggiorno e le residenze fiscali17. La Banca Mondiale ha stimato un’evasione fiscale a livello mondiale tra i 21 mila e i 31 mila miliardi di dollari nel 2016. Un fenomeno che viene sostenuto attivamente da grandi istituzioni bancarie e finanziarie. Ad esempio, di recente la magistratura francese ha multato la banca svizzera UBS per 4,5 miliardi di euro per aver aiutato un gruppo di francesi ricchi a sottrarre al fisco nazionale 10 miliardi di euro tra il 2004 e il 2012. Sono circa 220 le banche straniere sospettate di aver aiutato migliaia di italiani a nascondere soldi al fisco. Dal 2014, le indagini di Guardia di Finanza, Procura di Milano e Agenzia delle Entrate hanno fatto incassare allo Stato italiano 5,63 miliardi di euro grazie a patteggiamenti (per l’accusa di riciclaggio) e accordi firmati da 113 soggetti, tra gli ultimi UBS che ha accettato di pagare 111 milioni e mezzo e che come altre banche aveva una fitta rete di funzionari che venivano in Italia quotidianamente per contattare i clienti, offrire servizi di spallonaggio e di copertura finanziaria e societari per nascondere all’estero patrimoni illeciti. La Deutsche Bank deve affrontare multe, azioni legali e l’eventuale perseguimento di “alti dirigenti” da parte delle autorità di regolamentazione americane e britanniche a causa del suo ruolo in uno schema di riciclaggio (Global Laundromat) da 80 miliardi di dollari da parte di criminali russi con legami con il Cremlino e il KGB tra il 2010 e il 2014.
I paradisi fiscali hanno aiutato i più ricchi e potenti del mondo ad appropriarsi di una parte sproporzionata dei benefici della globalizzazione, impedendo a tutti gli altri di vedere quanto possiedono. Questo, a sua volta, ha eroso la fiducia nella democrazia e nel capitalismo in tutto il mondo. Limitare le operazioni dei paradisi fiscali e imporre una vera trasparenza sulla proprietà di capitali finanziari, immobili ed imprese è fondamentale se i cittadini vogliono veramente essere in grado di “riprendere il controllo” dei destini dei loro Paesi.
Sull’onda delle rivelazioni dei Panama Papers, la quarta direttiva dell’Unione Europea contro il riciclaggio del denaro ha imposto alle imprese di rivelare i loro veri proprietari, iscrivendoli in un apposito registro pubblico, mentre i dati sui titolari effettivi dei trust devono essere disponibili per le autorità fiscali e di contrasto al riciclaggio e gli avvocati. L’ONU ha incluso la lotta contro i flussi finanziari illeciti come obiettivo all’interno dei suoi Sustainable Development Goals.
Un’azione di repressione dell’evasione fiscale internazionale è difficile perché richiede volontà politica e un coordinamento internazionale, ma dal punto di vista tecnico-pratico sarebbe relativamente facile. Nel 2010, il presidente Obama ha convertito in legge il Foreign Account Tax Compliance Act che impone lo scambio automatico di dati tra banche straniere e l’Internal Revenue Service degli Stati Uniti. Uno schema di scambio simile è stato implementato in tutto il mondo dal G20 e dall’OCSE nel 2014 con uno standard di rendicontazione comune. Sebbene queste riforme escludano i Paesi poveri e lasciano una considerevole ricchezza e profitti ancora nascosti offshore, dimostrano che la pressione pubblica, il controllo e la volontà politica possono produrre cambiamenti. Strumenti legali efficaci per prevenire l’evasione fiscale offshore sono incredibilmente semplici e possono essere attuati in brevissimo tempo, come gli Stati Uniti hanno dimostrato con il giro di vite sugli oligarchi russi legati al regime di Putin. Tutto quello che si deve fare è rendere illegale per le banche l’esecuzione di transazioni con territori che non rispettano le regole sulla trasparenza fiscale. Questo li chiuderebbe all’istante. Un lavoro che può essere svolto efficacemente disponendo di un registro trasparente degli assets e reprimendo i trust e le altre strutture fiduciarie.
Al G-7 dei ministri finanziari di Chantilly è stato deciso che deve essere fissato un livello minimo di tassazione – sul modello della Global Intangible Low-Taxed Income americana (10,5%) – per scoraggiare la competizione verso il basso da parte dei Paesi per attrarre il business delle corporations.
Dal 2013 si è discusso in sede OCSE – il forum che a Parigi riunisce i 36 principali Paesi a economia di mercato (75% del PIL mondiale) – su come mettere fine allo scandalo dell’elusione fiscale che permette a società multinazionali di fare utili e di non pagare quasi nulla di tasse. Le attuali regole fiscali globali risalgono agli anni ’20 del secolo scorso e hanno dimostrato di non essere in grado di tenere sotto controllo le global corporations che vendono servizi a distanza e attribuiscono gran parte dei loro profitti alla proprietà intellettuale – come brevetti di farmaci, marchi, design, software e altre royalties – detenuta in giurisdizioni a bassa tassazione. Le amministrazioni Obama e Trump avevano di fatto bloccato il negoziato contro le richieste degli altri Paesi del mondo, a cominciare dai grandi Paesi europei.
Con l’amministrazione americana tornata (apparentemente) a credere nella diplomazia multilaterale con Joe Biden, l’iniziativa per l’istituzione di una global minimum tax è stata presa dal ministro del Tesoro americano, Janet Yallen, che in marzo aveva inviato una proposta di 21 pagine ai Paesi del G20 e all’OCSE, che da anni discuteva a vuoto su un’aliquota universale da applicare ai profitti di impresa.18 D’altra parte, il principale beneficiario di una tassa globale minima sui profitti delle global corporations americane potrà essere il governo federale USA, da decenni danneggiato nelle sue entrate dalla corsa globale verso il basso della tassazione delle imprese. Un accordo globale è certamente un buon affare per gli Stati Uniti che possono tassare di più le loro multinazionali e proteggersi da quelle che cercano di andare offshore.
Introdurre un sistema di tassazione internazionale più equo e più efficiente era già una priorità prima della crisi economica dovuta alla pandemia da CoVid-19 ed è ora diventata una necessità per sostenere la leva dell’intervento pubblico post-virus. Riuscire a tassare le multinazionali e a restringere i margini di elusione legale, sono dei passaggi essenziali per le strategie economiche dell’amministrazione Biden e anche di molti Paesi europei.
In un primo momento, Yellen aveva proposto agli interlocutori del G7 un prelievo minimo del 21%,19 una quota coerente con la riforma tributaria proposta da Biden al congresso americano. Tra quelle proposte, infatti, c’è anche l’aumento dal 10,5% al 21% dell’imposta sugli utili realizzati all’estero dalle aziende USA.
Il piano per l’occupazione e le infrastrutture di Biden aveva come corollario l’aumento dell’aliquota della tassazione sui cittadini con un reddito superiore ai 400 mila dollari20 e sulle società dal 21 al 28% – anche cambiando il codice fiscale per chiudere le scappatoie che consentono alle aziende di spostare i profitti all’estero, introducendo un’aliquota minima da applicare a tutti i profitti aziendali nel mondo (facendo aumentare quella USA dal 10,5% al 21%) e rafforzando la caccia ai paradisi fiscali -, oltre che il ricorso al debito. L’amministrazione Biden vuole favorire il “made in America” anche cercando di eliminare gli incentivi per gli investimenti offshore e di invertire una tendenza in base alla quale, anche se le società americane sono le più redditizie al mondo, gli Stati Uniti raccolgono meno entrate fiscali societarie in percentuale del PIL rispetto a quasi tutte le economie avanzate dell’OCSE.
In ogni caso, il problema del mancato gettito fiscale riguarda tutte le economie avanzate, come anche quelle emergenti e povere. Per più di un decennio dalla Grande Recessione, i principali Paesi a corto di entrate hanno cercato di trovare modi per riscuotere entrate fiscali dalle multinazionali che hanno sede in paradisi fiscali come Irlanda, Svizzera, Lussemburgo e località caraibiche come le Isole Cayman.21 La cosiddetta corsa al ribasso tra Paesi ha sostanzialmente ridotto le aliquote fiscali sulle società negli ultimi due decenni. Il tasso aziendale medio legale tra i Paesi OCSE era del 32,2% nel 2000; questo era sceso al 23,2% nel 2020, secondo l’OCSE.
G7, G20 e buona parte dei Paesi (130 su 136) che partecipano al negoziato sull’Erosione della Base e il Trasferimento dei Profitti (BEPS) hanno trovato un accordo di principio su una proposta che si basa su due pilastri:
- un’aliquota minima “di almeno il 15%” (il termine “almeno” è stato voluto dalla Francia che ha un livello di tassazione dei profitti delle imprese del 32%) per tutte le multinazionali, con il duo Yallen/Biden che inizialmente avrebbe voluto il 21%, per cui anche se una società sposta la sua sede fiscale in un paradiso fiscale, dovrà comunque pagare la differenza al Paese dove ha la “casa madre”, fino ad arrivare al 15% degli utili;
- l’intenzione di tassare una quota definita “residuale” da calcolare sulle aziende con “superprofitti” – margini di profitto superiori al 10% dei ricavi; il 20% (ma perché non il 50 o il 100%?) della quota eccedente il 10% dei profitti verrebbe ridistribuita ai Paesi in cui vengono realizzati – non dove hanno la “casa madre” -, in modo da far pagare alle multinazionali le tasse dove fanno business, dove effettivamente vendono servizi e prodotti. Ma, il tetto minimo dei ricavi messo al 10% potrebbe essere troppo alto, evitando così a una multinazionale di dover essere tassata su questo pilastro. Notoriamente, infatti, le piattaforme del capitalismo digitale come Amazon che hanno politiche aggregate di distribuzione dei profitti molto bassi – tra il 3 e il 6% – rispetto ai ricavi.
Inoltre, le aziende saranno obbligate a pubblicare in modo più standard i dati relativi all’impatto ambientale delle loro attività così che gli investitori possano decidere più facilmente se finanziarle.
Il percorso, comunque, appare ancora incerto e contrastato e, se ci saranno, adiversi anni prima di vedere i primi risultati.
L’OCSE e l’UNDP hanno lanciato nel 2015 un piano per aiutare i Paesi poveri a combattere l’elusione fiscale delle multinazionali. Così è nato Tax inspectors without borders (Tiwb, vedi http://www.tiwb.org), un progetto attuato in 98 Paesi che fa leva su una squadra di funzionari molto competenti “prestati” dai Paesi ricchi a quelli poveri per missioni di controllo tributario nella guerra organizzata dalle imprese contro gli Stati che durano tra i 12 e i 18 mesi al massimo (gli ispettori distaccati sono pagati dalla loro amministrazione d’origine, mentre le spese di missione sono pagate dai Paesi ospitanti). Lavorano a stretto contatto con le amministrazioni fiscali dei Paesi che li ospitano per aiutarli ad analizzare le operazioni internazionali delle grandi aziende presenti. L’obiettivo più importante sono i cosiddetti prezzi di trasferimento delle operazioni transfrontaliere tra imprese associate (ossia i prezzi ai quali la casa madre e le sue controllate all’estero si scambiano beni e servizi), uno strumento usato per ingannare il fisco e a lungo tollerato dai legislatori. Spesso queste operazioni diventano degli strumenti per trasferire artificialmente gli utili verso Paesi con aliquote delle imposte sul reddito basse o inesistenti.
Ad esempio, la British American Tobacco (BAT) è stata accusata dalla Rete di Giustizia Fiscale di privare diversi Paesi poveri di centinaia di milioni di dollari di tasse usando “manovre finanziarie” per spostare i profitti in una filiale del Regno Unito. La BAT, la più grande compagnia di tabacco del mondo, eviterebbe di pagare 700 milioni di dollari tra il 2019 e il 2030 in Bangladesh, Indonesia, Kenya, Guyana, Brasile e Trinidad e Tobago. Nel solo 2016, la BAT è riuscita a spostare 941 milioni di dollari, circa il 12% del suo utile al lordo delle imposte di quell’anno, dalle società straniere alla sua controllata britannica BAT Holdings. Questo ha ridotto il conto fiscale della società, in parte perché l’imposta sulle società del Regno Unito è stata addebitata al 19% – inferiore a molti dei Paesi in cui la BAT vende sigarette. Si tratta ora di vedere se il comportamento della BAT infrange le regole dell’OCSE contro gli abusi tributari, che sono diventate leggi in molti Paesi poveri e che dal 2016 hanno consentito di recuperare nel mondo 500 milioni di dollari. Molto poco rispetto ai 240 miliardi di imposte perse ogni anno a causa della “ottimizzazione fiscale” (l’insieme dei metodi per ridurre al minimo il carico fiscale) delle multinazionali. Ma, siamo solo all’inizio: 60 Paesi – dalla Giamaica al Cameroun, dalla Papua Nuova Guinea al Marocco, dall’Armenia al Burkina Faso – hanno chiesto l’aiuto del Tiwb.
Il salvataggio del capitalismo da parte delle banche centrali e degli Stati: la creazione delle bolle finanziarie
In occasione della Grande Recessione del 2007-2009, solo gli interventi degli Stati nazionali (varianti dal 5% del PIL statunitense al 40% di quello irlandese) e delle banche centrali (FED, BCE, Banca del Giappone, etc.) su una scala senza precedenti, attraverso programmi keynesiani di stimolo, e soprattutto attraverso salvataggi bancari, acquisti di titoli “spazzatura” e “tossici”, prestiti ed enormi espansioni del credito e della moneta (quantitative easing), hanno evitato il crollo del capitalismo e cercato di combattere i rischi di stag-deflazione (crescita lenta e bassa inflazione).
La FED ha pompato miliardi di dollari nell’economia americana e a fine 2017 era arrivata ad avere un bilancio da circa 4.500 miliardi di dollari (equivalente al 23% del PIL USA) con il programma attivato nel 2009 di acquisti sia dei titoli “tossici” subprime, i Residential Backed Mortgage Securities (per 1.770 miliardi di dollari) sia dei titoli del Tesoro (per 2.465 miliardi di dollari), il cosiddetto quantitative easing, per salvare e stimolare l’economia. Da ottobre 2017 aveva deciso di ridurre il suo bilancio, evitando di rinnovare i titoli in scadenza e, quindi, togliendo dollari dalla circolazione sui mercati domestici ed internazionali per un valore di circa 50 miliardi al mese. A fine 2018 il rapporto bilancio FED/PIL era sceso al 19,5%, ma da allora la FED ha deciso di rallentare (e poi di arrestare) la smobilitazione in presenza di un rallentamento economico generale. Da settembre 2019, poi, ha ripreso di fatto la strada del quantitative easing, immettendo liquidità per 60 miliardi al mese sul mercato interbancaro americano tramite l’acquisto di titoli di Stato a breve scadenza. In pochi mesi, i titoli nell’attivo di bilancio della FED sono passati da 3.800 miliardi a 4.150. Con la pandemia da CoVid-19 la scelta di stampare moneta ha assunto proporzioni senza precedenti. Il bilancio della FED è arrivato a 7.151 miliardi a metà ottobre 2020, con un’iniezione monetaria pari a quasi 3 mila miliardi in 7 mesi.
La BCE, da parte sua, è arrivata ad avere un bilancio da oltre 4.000 miliardi di euro, una cifra pari al 35% del PIL europeo, che continua a salire dato che dal novembre 2019 ha avviato un nuovo round di quantitative easing, oltre a nuovi prestiti alle banche a tassi agevolati e tassi ancor più negativi. Con la pandemia da CoVid-19, il bilancio della BCE è salito a 6.705 miliardi ai primi di ottobre 2020 (pari a quasi il 60% del PIL dell’Eurozona), arrivando a detenere quasi il 30% del debito pubblico dell’Eurozona.
All’inizio del 2006 la somma dei bilanci dei principali istituti di emissione – FED, BCE, Banca del Giappone, Banca popolare della Cina, Bank of England, Banca Nazionale svizzera e Riksbank svedese – valeva l’equivalente di poco più di 5 mila miliardi di dollari, che era l’ammontare delle loro passività, il denaro che essi avevano messo in circolazione. A metà del 2017, eravamo a 23 mila miliardi di dollari, una cifra che restava ancora in crescita costante con la prosecuzione dei programmi di creazione di moneta e acquisto dei titoli alla BCE (dal settembre 2018 passata al tapering finale da 15 miliardi al mese fino a fine 2018; poi con il nuovo quantitative easing da 20 miliari di euro al mese da novembre 2019), alla Bank of England (complessivamente oltre 435 miliardi di sterline) e alla Banca del Giappone (l’equivalente di circa 40 miliardi di dollari al mese).
In oltre un decennio, i bilanci delle grandi banche centrali erano cresciuti in aggregato da meno di 10 mila ad oltre 25 mila miliardi di dollari, ossia fino a circa un terzo del PIL mondiale. Una reimmissione graduale sul mercato dei titoli – Buoni del Tesoro e obbligazioni garantite da mutui – acquistati delle banche centrali in 10 anni che avrebbe richiesto tempi lunghi (almeno un decennio), anche se il peggioramento della congiuntura economica generale ancor prima del blocco dovuto alla pandemeia da CoVid-19 ha riorientato le banche centrali verso un nuovo round di interventi “non convenzionali”. La BCE, ad esempio, aveva lanciato una terza operazione di rifinanziamento a lungo termine mirata (TLTRO III) consistente in prestiti biennali allo 0% di interesse volti ad aiutare le banche a coprire oltre 720 miliardi di euro delle TLTRO esistenti e ad evitare una stretta creditizia che avrebbe aggravato il rallentamento economico. Il problema, verificato con tutti i TLTRO precedenti, è che le banche trattengono i soldi, perché prestarli alle imprese e alle famiglie è troppo “rischioso” ed in ogni caso le nuove regole bancarie decise dall’Unione Europea le obbligano a mettere “a riserva” una quantità maggiore di capitali.
Per contrastare l’impatto economico della pandemia CoVid-19, la FED ha prima annunciato un massiccio programma da 1,5 trilioni di dollari per iniettare liquidità nel sistema finanziario e contribuire a arginare il crollo dei mercati finanziari, mettendo centinaia di milioni nelle operazioni di “repo” ed estendendo i suoi acquisti per includere banconote, note, titoli protetti dall’inflazione del Tesoro, titoli con cedola e altri strumenti. Poi, dopo che l’amministrazione Trump ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale, la FED ha ridotto i tassi di interesse quasi a zero (tra 0% e 0,25%) e ha annunciato un nuovo programma di quantitative easing da almeno 700 miliardi di dollari in acquisti di titoli del Tesoro e titoli garantiti da ipoteca (MBS). La FED e le altre principali banche centrali (europea, giapponese, canadese, svizzera e britannica) hanno anche ridotto i prezzi sulle loro linee di swap per rendere più semplice la fornitura a basso costo di dollari agli istituti finanziari di tutto il mondo che affrontavano lo stress nei mercati del credito. In pochi giorni la FED si è trasformata in una sorta di banca centrale globale22 e ha pompato oltre 200 miliardi di dollari nelle linee swap (fornendo dollari in cambio di valuta locale) che sono state aperte anche con la banche centrali di Australia, Brasile, Corea del Sud, Danimarca, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Singapore e Svezia. La Banca centrale cinese, non inclusa negli accordi swap stabiliti dalla FED, ha ridotto la quantità di liquidità che le banche come riserva per cercare di stimolare più prestiti alle imprese.
Il presidente della FED Jerome Powell era convinto che dovessero essere prese le giuste decisioni dal governo federale – principalmente spendendo denaro per sostenere piccole imprese, famiglie e individui -, per fare sì che lo shock rimanesse temporaneo, altrimenti si sarebbe verificata una crisi di lungo periodo caratterizzata da un’ondata di fallimenti che avrebbero spazzato via imprese e investimenti e fatto accumulare crediti inesigibili alle banche. “Non abbiamo gli strumenti per raggiungere gli individui e in particolare le piccole imprese e altre imprese e persone che potrebbero essere senza lavoro … non abbiamo quegli strumenti … questo è un problema poliedrico e richiede risposte da diverse parti del governo e della società … Penso che la politica fiscale sia un modo per indirizzare gli aiuti a particolari popolazioni e gruppi … pensiamo che le risposte fiscali siano fondamentali.”
In ogni caso, la FED ha riattivato un programma già utilizzato durante la crisi finanziaria del 2008, creando un’entità (CPFF) dedicata al finanziamento della carta commerciale (azioni e obbligazioni) per sostenere il flusso di credito a famiglie e imprese. Questo strumento consente alla FED di acquistare debito a breve termine emesso da società che cercano di raccogliere liquidità per coprire le esigenze di finanziamento a breve termine. Inoltre, la FED ha attivato un’entità (MMMFLE) per fornire liquidità ai fondi comuni di investimento (un settore da 3,8 trilioni di dollari), garantendo fino ad un anno di prestiti a istituti finanziari che offrono come garanzia buoni del tesoro statunitensi acquistati da fondi comuni di investimento. In questo modo, la FED haq cercato di incoraggiare le banche ad acquistare titoli dai fondi comuni, in modo da evitare che i fondi fossero costretti a vendere titoli con uno sconto se subivano pressioni da parte di famiglie o imprese che desideravano ritirare denaro.
Successivamente, con un terzo degli americani ormai bloccati nelle loro abitazioni, lo stallo nelle trattative tra repubblicani e democratici al Senato riguardo all’approvazione di un pacchetto da 2,35 miliardi di dollari (circa l’11% del PIL) per il salvataggio dell’economia americana e la persistente caduta libera del mercato azionario (il 23 marzo l’indice Dow Jones ha toccato quota 18.308, ossia 11 mila punti – il 38% – in meno rispetto al suo record del 20 febbraio), la FED ha sbalordito mercati e osservatori, annunciando che si sarebbe impegnata in “acquisti illimitati” di titoli di Stato e di titoli garantiti da ipoteca, ossia che era pronta ad iniettare nell’economia tutta la quantità di denaro necessaria “a sostenere il regolare funzionamento del mercato”. La FED ha inoltre annunciato nuove misure che mettevano a disposizione 300 miliardi di dollari di credito a datori di lavoro e consumatori. Il piano consentiva di finanziare direttamente l’“economia reale” (invece di prestare denaro alle principali banche private) con interventi per fornire liquidità sia ai mercati primario (PMCCF) e secondario (SMCCF) di obbligazioni corporate (un mercato da 6,5 trilioni di dollari), sia al mercato del credito al consumo, con un piano di sostegno (TALF) all’emissione di asset-backed securities (ABS) garantite da prestiti studenteschi, prestiti auto, prestiti con carta di credito, prestiti garantiti dalla Small Business Administration (SBA) e alcuni altri assets. Ne giro di due settimane il bilancio della FED è salito ad oltre 6 trilioni di dollari in assets posseduti.
Questo prolungato massiccio intervento finanziario degli Stati e delle banche centrali ha avuto anche altri tre principali effetti collaterali:
1. Ha soppresso per oltre un decennio la volatilità dei mercati, spingendo verso l’alto le valutazioni praticamente di tutte le attività finanziarie: S&P500, il principale listino di Wall Street, è salito dai minimi di 848 punti del febbraio 2009, toccando i 2.500 punti alla fine del 2017 e continuando a salire oltre i 2.800 punti nella prima metà del 2018, per poi scendere da inizio ottobre, soprattutto a seguito di un calo delle quotazioni dei titoli tech che hanno trascinato Wall Street verso un ritorno alla volatilità quotidiana e un azzeramento dei guadagni messi a segno nel corso dell’anno. Un percorso incerto continuato anche nel 2019 e con un crollo dei valori nelle prime settimane del marzo 2020, per poi avviare una nuova, ininterrotta, risalita.
Valori azionari in aumento sono legati ai profitti aziendali in due modi: in primo luogo, sono scommesse sugli utili societari, nel senso che gli operatori di borsa si aspettano che i prezzi futuri siano legati al tasso al quale le società sono in grado di ricavare surplus e realizzare profitti dai loro lavoratori. In secondo luogo, i profitti stessi sono distribuiti dalle società, al loro interno, per riacquistare le proprie azioni, e ad individui facoltosi (come amministratori delegati e azionisti destinatari di dividendi), che sono nella posizione di catturare la propria porzione di surplus e usarla per impegnarsi in acquisti speculativi sul mercato azionario.
Se durante gli anni ’60, gli azionisti delle corporations americane ricevevano circa l’1,7% del PIL in contanti pagato in dividendi e nel numero netto di azioni che erano state acquistate; ora è intorno al 4,7% del PIL. Si tratta di uno spostamento di circa il 3% del PIL o di 567 miliardi di dollari all’anno. Quasi tutto il nuovo denaro creato dal quantitative easing delle banche centrali ed “iniettato” nelle istituzioni finanziarie – come fondi pensione e compagnie d’assicurazione – non è stato investito in attività produttive, ma si è invece riversato nei mercati azionari ed immobiliari, gonfiando i prezzi delle azioni e degli immobili, generando poco o nulla in termini di ricchezza reale o occupazione. Le politiche ultra espansive attuate nel corso di oltre 10 anni hanno reso incredibilmente conveniente indebitarsi e le grandi corporations ne hanno approfittato rifinanziandosi sui mercati a costi irrisori, non per realizzare nuovi investimenti produttivi (ammodernare i macchinari, fare ricerca o espandersi), ma per destinare una quota maggiore delle loro risorse a dividendi, a piani di riacquisto di azioni proprie (“buy-backs”) – in cui le società acquistano le proprie azioni al fine di aumentare il prezzo delle azioni e di remunerare gli azionisti evitando che paghino le tasse sui profitti -, a risorse cash per scoraggiare takeovers ostili o per acquisire concorrenti (per costruire monopoli), e a investimenti a breve termine liquidabili. Le società, alla disperata ricerca di compiacere gli azionisti, acquistano le proprie azioni al fine di ridurre l’offerta sul mercato e aumentarne le quotazioni e i prezzi.
In America, prima del 1982, i riacquisti erano illegali perché considerati una forma di manipolazione del mercato, ma nei decenni successivi, a seguito del cambiamento nelle politiche regolatorie da parte della Securities and Exchange Commission, sono diventati un elemento fondamentale del processo decisionale aziendale, dando più denaro agli investitori e consentendo ai consigli di amministrazione aziendali di sostenere i prezzi delle azioni. Le società americane hanno speso circa 7 trilioni di dollari per il riacquisto di azioni proprie dal 2004 al 2014. La maggiori aziende farmaceutiche americane hanno speso 300 miliardi di dollari in buy-backs tra il 2008 e il 2017 e altri 290 miliardi per pagare dividendi, ossia l’equivalente di poco più del 100% dei loro profitti complessivi. Questo mentre Merck e Pfizer, due delle maggiori aziende farmaceutiche, hanno fatto fatica a sviluppare dei nuovi medicinali di successo. Anche un gigante come Apple, considerata una delle aziende più innovative e dinamiche, ha destinato 50 miliardi di dollari per il riacquisto delle proprie azioni nel 2017 e altri 100 nel 2018. Dalla morte di Steve Jobs (2011) in poi, Apple ha distribuito 325 miliardi dollari ai suoi azionisti, mentre ha speso solo 58 miliardi per ricerca e sviluppo. A maggio 2018, le società americane hanno annunciato un record di 201 miliardi di dollari di riacquisti di azioni proprie. Le società S&P 500 hanno riacquistato poco meno di 800 miliardi di dollari di azioni proprie nel 2018, un nuovo record e hanno previsto di nuovi riacquisti per un trilione nel 2019. Ma, la maggior parte del beneficio di quei riacquisti è andato agli americani più ricchi: circa l’84% di tutte le azioni di proprietà degli americani appartiene al 10% più ricco delle famiglie e l’1% delle famiglie possiede quasi il 38% di tutte le azioni.
In questo modo, i grandi azionisti vengono privilegiati in modo sfacciato rispetto agli altri stakeholders delle aziende – dipendenti, clienti e comunità in cui operano – e agli investimenti (acquisti di nuovi macchinari, acquisizioni, ingresso in nuovi mercati, etc.). Caterpillar, ad esempio, ha speso 1 miliardo di dollari per il riacquisto di azioni proprie nella seconda metà del 2018, prima di dare il via a un nuovo round da 10 miliardi di riacquisti nel 2019, mentre ha deciso il licenziamento di centinaia di lavoratori.
Inoltre, molte di queste grandi corporations (una su 10 nei Paesi emergenti e avanzati) hanno finito per trasformarsi in quelle che la Bank of International Settlements (BIS), la banca centrale delle banche centrali globali, considera imprese zombie, decotte o a bassa produttività, ossia in “imprese che non potrebbero sopravvivere senza un flusso di finanziamenti a basso costo“. Il FMI segnala che dal 2008 è quadruplicato, sia negli USA sia nell’Eurozona, lo stock dei bond con rating BBB, ovvero ancora considerati a livello investment grade, investimenti sicuri, ma di livello basso, mentre sono raddoppiati gli speculative grade, ovvero i bond spazzatura. Secondo il FMI, sono da considerarsi a rischio almeno circa 19 mila miliardi di dollari di debito corporate: non sarebbe possibile fare fronte a quasi il 40% del debito societario in otto Paesi principali – Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia e Spagna – qualora ci fosse una flessione grave quanto quella del 2008. Una ricerca di Bloomberg ha identificato 69 aziende in tutto il mondo che hanno aumentato i loro livelli di debito del 50% o più tra il 2013 e il 2018, hanno almeno 5 miliardi di dollari di debiti e insieme, sono sedute su quasi 1,4 trilioni di obbligazioni e prestiti, la maggior parte dei quali classificati come junk (spazzatura) e in scadenza entro i prossimi 7 anni (Harrington et alter, 2018). Molto del debito di queste imprese è formato da leveraged loans (“finanziamenti a leva”), crediti super-speculativi erogati da investitori di vario tipo. Finanziamenti che poi vengono rivenduti sul mercato come titoli negoziabili e che spesso vengono “impacchettati”, con ulteriore leva sopra, in cartolarizzazioni chiamate Clo (Collaterized loans obligations). Il mercato dei leveraged loans è raddoppiato negli USA dal 2010, arrivando a 1.300 miliardi di dollari, ai quali vanno sommati i 267 miliardi di euro dell’Europa. La metà di questi – circa 850 miliardi di dollari – è “impacchettata” in Clo. In sostanza, basta poco, un ulteriore rallentamento della crescita o un aumento dei tassi, per portare molte imprese al default. Inoltre, tra il 2004 e il 2013 i piani di riacquisto di azioni proprie delle grandi imprese Fortune 500 hanno totalizzato 2.400 miliardi di dollari. Nel 2014, queste imprese hanno distribuito 885 miliardi di dollari ai loro azionisti, una cifra superiore al loro reddito netto di 847 miliardi. Operazioni che sono servite a gonfiare le quotazioni dei titoli e a far salire gli indici delle Borse, rendendo felici investitori mordi e fuggi, meno alle prospettive aziendali di lungo termine. In altre parole, si è pensato più a gratificare i soci azionisti, indebitandosi, che a costruire il futuro, per cui nei prossimi anni molte aziende, soprattutto negli USA e nei Paesi emergenti, saranno vulnerabili ad eventuali incrementi dei tassi di interesse.
A questo proposito, Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts e possibile candidata democratica alle presidenziali del 2020, ha presentato un disegno di legge denominato Accountable Capitalism Act volto a regolamentare i comportamenti delle grandi corporations al fine di combattere la tirannia della shareholder value theory, favorire la ridistribuzione della ricchezza e dare maggiore voce ai lavoratori e alle comunità locali. Secondo questa proposta, le società con oltre un miliardo di dollari di entrate annuali dovranno ottenere dal governo federale una licenza ad operare (federal corporate charter) che attesta che quando vengono prese le decisioni non vengono considerati solo gli interessi finanziari degli azionisti, ma anche quelli dei principali stakeholders aziendali – lavoratori, clienti e comunità in cui operano (una delle criticità della proposta deriva dal fatto che ha una prospettiva nazionale, mentre quasi la metà delle vendite totali delle attività delle S&P 500 proviene da clienti stranieri). Chiunque possieda azioni potrebbe citare in giudizio una società se ritiene che la direzione aziendale non stia rispettando i propri obblighi. I dipendenti delle grandi società sarebbero in grado di eleggere almeno il 40% del consiglio di amministrazione, dando così vita a forme di “co-determinazione” (sull’esempio del modello tedesco). Ciò implicherebbe la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori a decisioni come l’assunzione di finanziamenti alla politica, che richiederebbe l’approvazione dal 75% di tutti i consiglieri di amministrazione e azionisti. Infine, i dirigenti che ricevono quote di azioni come compenso dovrebbero tenerli per almeno cinque anni, mentre i buy-backs di azioni proprie sarebbero possibili solo a distanza di tre anni l’uno dall’altro. Circa 3.500 società pubbliche e centinaia di altre società private americane, che però rappresentano una grande parte dell’occupazione e dell’attività economica complessiva, sarebbero interessate da questa nuova legislazione. Verrebbe creato un nuovo ufficio delle corporations all’interno del Dipartimento al Commercio, che sarebbe responsabile per la concessione delle licenze e che potrebbe revocarle se un procuratore generale dello Stato lo richiede o se l’ufficio scopre che l’azienda ha una storia di condotta illegale significativa ripetuta e non è riuscita a intervenire per correggerla.
Fiutando il pericolo contenuto nelle proposte di regolazione normativa e fiscale della Warren e di altri candidati democratici alla presidenza, oltre che nella crescente crisi di legittimità etica del capitalismo e nei contro-movimenti nazional-populisti, il Business Roundtable (presieduto da Jamie Dimon, CEO di JP Morgan Chase), l’associazione della Corporate America con 181 global corporations che impiegano 15 milioni di dipendenti (da JP Morgan Chase ad Amazon, Apple, AT&T, General Motors, American Airlines, Walmart, Accenture, Bank of America, Blackrock, Boeing, etc.), ha rivisto i suoi valori, approvando una carta etica che propone di passare dalla primazia del shareholder capitalism a quello del stakeholders capitalism, mettendo al centro contributi e responsabilità nei confronti non solo degli azionisti, ma anche di lavoratori, fornitori, clienti, ambiente e comunità (19 agosto 2019).
Per 40 anni i CEO di queste corporations hanno combattuto i sindacati, esternalizzato posti di lavoro all’estero, puntato su tecnologie che sostituiscono il lavoro senza riqualificare i propri lavoratori e abbandonato le comunità locali quando potevano fare le cose a basso costo altrove. Difficile pensare che ora abbiano davvero cambiato idea e modus operandi.
L’idea originaria di Klaus Schwab, il fondatore del World Economic Forum (WEF) di Davos (1971), era quella di promuovere il “multi-stakeholders capitalism“, l’idea che le imprese avessero responsabilità sociali più ampie rispetto alla mera ricerca del profitto per gli azionisti, ma l’agenda del capitalismo era sta definita dal pensiero neoliberista di Milton Friedman e il credo degli “uomini di Davos” è stato per 50 anni quello della massimizzazione dei profitti. Dagli anni ’70, il WEF ha pubblicato un “indice di competitività globale” annuale che ha spinto i governi nazionali a una corsa al ribasso per adottare tasse più basse e taglio delle regolamentazioni. Nel manifesto per l’incontro del 2020, Schwab ha cercato di tornare alle origini. Ha inserito lo stakeholder capitalism e il capitalismo sostenibile come temi chiave di discussione, e ha invitato Greta Thunberg e altri giovani attivisti ambientali (ma anche il negazionista climatico Donald Trump), sostenendo che “le aziende non sono solo realtà economiche, ma anche organismi sociali. Non vanno giudicate solo dai profitti, ma anche misurando effetti negativi e costi esterni dei loro prodotti. Calcolando i danni ambientali che creano o quanto promuovono l’inclusione e giustizia sociale”23.
Un chiaro segnale che l’élite economica globale si sente a disagio, è sulla difensiva, preoccupata della propria immagine pubblica. Sta cercando di individuare nuove strategie di accumulazione perché sa bene che riscaldamento globale e disuguaglianze minacciano i profitti delle aziende, nonché le vite, le case e le comunità. Il CoVid-19, la devastazione economica che ha prodotto e il movimento contro l’ingiustizia razziale negli USA hanno dimostrato che non è ancora il momento per una forma più benevola di capitalismo: il comportamento delle aziende non è cambiato in materie come i diritti e la sicurezza dei dipendenti e l’uguaglianza razziale e di genere. Milioni di lavoratori sono rimasti senza lavoro, affollando le mense per i poveri. Molte aziende hanno continuato a pagare dividenti agli azionisti e a realizzare grandi profitti, ma non hanno fatto abbastanza per proteggere i lavoratori.
2. L’enorme disponibilità di denaro a buon mercato ha consentito ai sistemi bancari e finanziari dei Paesi ricchi di stimolare le economie dei Paesi emergenti, canalizzando imponenti flussi di investimenti e prestiti in dollari ed euro sia al settore privato sia a quello pubblico/statale. Investimenti e prestiti a breve termine che hanno prodotto rendimenti molto più elevati rispetto a quelli che si potevano ottenere in America o in Europa, dove le banche centrali hanno imposto per anni tassi di interesse pari a zero.
Un flusso di capitali che in parte ha alimentato investimenti produttivi, ma che molto spesso è stato utilizzato per sostenere i consumi (soprattutto di prodotti importati) da parte delle nuove classi medie e per far avanzare grandiosi progetti immobiliari ed infrastrutturali decisamente poco o per nulla sostenibili sul piano ambientale ed economico. Un ciclo che si è chiuso con il primo ciclo di rialzo dei tassi d’interesse americani e con l’imposizione di dazi sulle importazioni da parte dell’amministrazione Trump. Una combinazione che ha mandato in crisi le economie di molti dei Paesi emergenti (Argentina, Turchia, Sud Africa, Messico, etc.) e rafforzato il dollaro, attirando flussi di capitali internazionali verso gli Stati Uniti e accelerando così il fenomeno delle “fughe di capitali” dai Paesi emergenti (con il loro corollario di svalutazioni monetarie, crisi delle bilance dei pagamenti e dei debiti esteri, fallimenti bancari e societari, etc.).
3. Ha consentito di spostare il costo della grande crisi dal settore finanziario ai contribuenti già in sofferenza, facendo crescere esponenzialmente i debiti pubblici. Se nel 2007 il debito sovrano nell’Eurozona era pari al 25% del PIL, nel 2014 è giunto al 94%, mentre negli USA è passato dal 65% al 110% nel 2018. Di conseguenza, è aumentata (e con un possibile rialzo dei tassi è destinata ad aumentare in futuro) la spesa per interessi che rappresenta un ulteriore trasferimento di denaro dai poveri ai ricchi e al sistema finanziario. Si pensi, ad esempio, che l’Italia, un Paese che da solo alimenta un decimo del mercato mondiale dei titoli pubblici, benché dal 1990 al 2018, con la sola eccezione del 2009, abbia chiuso ogni anno con un avanzo primario, cioè con entrate superiori alle uscite, complessivamente per oltre 700 miliardi di euro, il debito pubblico ha continuato ad aumentare a causa del circolo vizioso degli interessi passivi sul debito (che ogni anno costano allo Stato poco più del 3,5% del PIL) e del crollo del PIL dopo l’esplosione della crisi globale del 2008 (paradossalmente, dal 2011 al 2016 il debito pubblico italiano è aumentato anche di 32 miliardi di euro a causa dei derivati stipulati dal Tesoro con varie banche d’affari per tutelarsi da un rialzo dei tassi di interesse che poi invece, grazie alle decisioni della BCE, sono scesi). Tra il 2007 e il 2016, sono stati pagati quasi 760 miliardi di euro (756,4 miliardi) per saldare interessi sul debito, una cifra che corrisponde alla media del 4,8% del PIL nel corso di questi 10 anni (quasi 1 euro su 20 di ricchezza prodotta ogni anno, una percentuale assai più elevata di quella che spende lo Stato per l’istruzione o la sanità). L’Italia ha un avanzo primario di circa l’1,5% del suo PIL (per cui le entrate sono superiori alle spese), ma non riesce ugualmente a frenare l’ascesa del debito pubblico, in quanto deve sborsare ogni anno circa l’11% delle entrate solo per pagare gli interessi sui titoli di debito posseduti da banche e investitori privati. Una situazione aggravata ulteriormente dalla deflazione e dalle politiche di austerità – un’intensificazione del neoliberismo – implementate in Europa e altrove dal 2010 che hanno portato ad una continua stagnazione e ad un ulteriore aumento delle disuguaglianze.
- Si vedano: Golden D., The price of admission. How America’s ruling class buys its way into elite colleges –and who gets left outside the gates, Crown Publishing, New York, NY, 2006; Markovits D., The meritocracy trap. How America’s foundational myth feeds inequality, dismantles the middle class, and devours the elite, Penguin Press, New York, NY, 2019.[↩]
- Nel Regno Unito la Thatcher ha ridotto le imposte sulle società dal 52% al 35% negli anni ’80, il New Labour le ha ridotte al 28% e i governi Cameron e May al 19%.[↩]
- Si vedano: Saez E. e Zucman G., The triumph of injustice. How the rich dodge taxes and how to make them pay, W. W. Norton, New York, NY, 2019; Progressive wealth taxation, Brookings Papers on Economic Activity, https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2019/09/Saez-Zucman_conference-draft.pdf [↩]
- Gordon D.M., Fat and mean. The corporate squeeze of working americans and the myth of managerial “downsizing”, The Free Press, New York, 1996; Stages of accumulation and long economic cycles, in Hopkins T.K. e Wallerstein I., a cura di, Processes of the world-system, Sage Publications, Beverly Hills, CA, 1980:9-45; Up and down the roller coaster, in U.S. capitalism in crisis, New York, Economics education project for radical political-economics, 1978:22-34.[↩]
- si veda il mio articolo https://transform-italia.it/la-pandemia-americana-da-oppioidi/[↩]
- Si pensi, ad esempio, all’attuale competizione per la corsa allo spazio che, accanto a un tradizionale colosso come Boeing, vede arrivare nuovi competitors che cercano di mettere le mani sul programma della navicella spaziale della NASA da oltre 6 miliardi di dollari avviato nel 2014. Per ora, c’è stato il fallimento sia del primo test dei motori dello Space Launch System (SLS) sia del primo lancio della navetta spaziale Starliner Cst-100 di Boeing che, per un’anomalia del sistema elettronico, ha sbagliato orbita e non è riuscita ad agganciare la Stazione Spaziale Internazionale come previsto. Oltre a Boeing, che ha ottenuto 4,2 miliardi di finanziamenti, coinvolge la Lockheed Martin e soprattutto SpaceX, la società di Elon Musk che, con la sua navicella Crew Dragon, ha effettuato un volo test di successo nel marzo 2019, ma quattro successivi test del prototipo Starship sono falliti clamorosamente. Nel 2020 voleva cominciare a trasportare gli astronauti nello spazio con costi molto più contenuti di Boeing. Solo il lancio della prima metà del 2021 è stato un successo. Poi, nella dispendiosa corsa al business dei voli spaziali ci sono molti dei grandi players della Silicon Valley: Jeff Bezos con il progetto Blue Origin; Paul Allen, cofondatore di Microsoft, con Stratolauch Systems; Larry Page e Sergey Brin con GoogleX; Peter Diamandis con Planetary Resources. A questi, si aggiunge Richard Branson con Virgin Orbit e Virgin Galactic. La Blue Origin di Jeff Bezos ha citato in giudizio il governo degli Stati Uniti per la decisione della NASA di assegnare un contratto di lander lunare da 2,9 miliardi di dollari a SpaceX di Elon Musk. Blue Origin aveva offerto alla NASA 2 miliardi di dollari se avesse cambiato idea sul contratto del lander lunare.[↩]
- Si vedano: Bourdieu P., Distinction: a social critique of the judgement of taste, Harvard University Press, Cambridge, MA., 1984; Boltanski L. e Esquerre A., Arricchimento, Una critica della merce, Il Mulino, Bologna, 2000.[↩]
- Si veda Turkewitz J., A boom time for the bunker business and doomsday capitalists, The New York Times, 12 agosto 2019, https://www.nytimes.com/2019/08/13/us/apocalypse-doomsday-capitalists.html?action= click&module=Top%20Stories&pgtype=Homepage [↩]
- Si vedano: Harari Y.N., The world after coronavirus, The Financial Times, 21 marzo 2020; 21 lezioni per il XXI secolo, Bompiani, Milano, 2018; Homo deus. Breve storia del futuro, Bompiani, Milano, 2018; Marsh S., Extreme biohacking: the tech guru who spent $250,000 trying to live for ever, The Guardian, 2018, https://www.theguardian.com/science/2018/sep/21/extreme-biohacking-tech-guru-who-spent-250000-trying-to-live-for-ever-serge-faguet[↩]
- Si veda Dentico N., Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo, Editrice Missionaria Italiana, Verona, 2020.[↩]
- Si veda Giridharadas A., Winners take all. The élite charade of changing the world, Allen Lane, London, 2019.[↩]
- La senatrice democratica Elizabeth Warren ha proposto un’imposta sul patrimonio che prenda di mira esplicitamente le famiglie americane più ricche, suggerendo che l’IRS dovrebbe imporre una tassa annuale del 2% sui patrimoni superiori a 50 milioni di dollari e del 3% sui patrimoni superiori a un miliardo di dollari.[↩]
- Si stima che i paradisi fiscali esistenti in giro per il mondo custodiscano tra i 10 e i 30 mila miliardi di dollari (pari al 10-20% del PIL mondiale) per conto dei più ricchi e delle global corporations da loro controllate. Il FMI stima che ogni anno nel mondo si scambiano tangenti per un importo di 1,5–2 trilioni di dollari, mentre l’evasione fiscale costa ai governi più di 3 trilioni di dollari all’anno e almeno altri 5 trilioni vengono persi attraverso le attività illecite di riciclaggio (money laundering). Soldi che potrebbero essere destinati all’assistenza sanitaria, all’istruzione e alle infrastrutture per milioni di persone in tutto il mondo. Ma, il costo per la società è molto maggiore: la corruzione distorce gli incentivi e mina la fiducia del pubblico nelle istituzioni. È la causa di molte ingiustizie economiche che donne e uomini subiscono ogni giorno. Inoltre, grandi scandali per corruzione, evasione ed elusione fiscale alimentano la percezione che élites politiche e grandi interessi economico-finanziari giocano con regole diverse rispetto al resto della cittadinanza, senza un sufficiente controllo pubblico e una vera legittimità democratica.[↩]
- Tørsløv T., Wier L. e Zucman G., $600 billion and counting: why high-tax countries let tax havens flourish, University of Copenhagen and University of Berkeley, 2017, http://gabriel-zucman.eu/files/TWZ2017.pdf[↩]
- FMI – International Monetary Fund, Global value chains: what are the benefits and why do countries participate?, 2019, https://www.imf.org/en/Publications/WP/Issues/2019/01/18/Global-Value-Chains-What-are-the-Benefits-and-Why-Do-Countries-Participate-46505[↩]
- Su questo tema si veda anche il mio articolo: https://transform-italia.it/far-pagare-le-tasse-alle-global-corporations-e-ai-ricchi/[↩]
- Si veda Abrahamian A.A., Cittadinanza in vendita, La Nuova Frontiera, Roma, 2017.[↩]
- Negli ultimi anni, l’OCSE, lavorando con più di 100 Paesi in tutto il mondo, ha adottato nuovi standard internazionali sullo scambio automatico di informazioni a fini fiscali che hanno ridotto l’uso dei paradisi fiscali da parte degli individui e hanno portato a oltre 100 miliardi di dollari di entrate fiscali aggiuntive ai Paesi dell’OCSE, secondo ai dati dell’organizzazione. Il Fondo Monetario Internazionale sottolinea la necessità di sviluppare i progressi nella cooperazione internazionale in materia fiscale con un’attenzione particolare alle circostanze dei Paesi emergenti e a basso reddito in modo che sia possibile garantire che questi Paesi possano continuare a riscuotere entrate fiscali dalle attività delle global corporations, contrastando le loro strategie di profit shifting e la competizione fiscale tra Stati. Entrate necessarie per aiutarli a raggiungere una maggiore crescita economica, ridurre la povertà e raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile del 2030.[↩]
- Uk e Paesi dell’Unione Europea, però, hanno considerato la soglia del 21% troppo alta. In UK la corporate tax è al 19%, ma in tanti piccoli Paesi UE è molto sotto quella soglia.[↩]
- Il presidente Joe Biden ha chiesto aumenti delle tasse sui ricchi per aiutare a finanziare la spesa proposta per infrastrutture e programmi sociali, compreso l’aumento dell’aliquota fiscale massima al 39,6% dall’attuale 37% e quasi il raddoppio dell’aliquota fiscale sulle plusvalenze al 39,6% per gli americani che guadagnano 1 milione di dollari all’anno o di più.[↩]
- Nel gennaio 2021, il Parlamento Europeo ha deciso che 6 dei 20 maggiori paradisi fiscali sono Paesi dell’UE, con due dei primi cinque posti occupati dagli Stati membri. Inoltre, uno studio del direttore dell’Osservatorio EUTax conclude che circa l’80% dei profitti trasferiti nell’UE sono trasferiti ai paradisi fiscali dell’UE.[↩]
- Tooze A., In the coronavirus pandemic, America is ailing—and flexing its global muscle like never before, Foreign Affairs, 2020, https://foreignpolicy.com/2020/04/01/us-coronavirus-leading-world-america-first/2/. Di Tooze si vedano anche: The rise and fall and rise (and fall) of the U.S. financial empire, Foreign Affairs, 2021, https://foreignpolicy.com/2021/01/15/rise-fall-united-states-financial-empire-dollar-global-currency/; Whose century?, London Review of Books, 2020, https://www.lrb.co.uk/the-paper/v42/n15/adam-tooze/whose-century; The pandemic has ended the myth of central bank independence, Foreign Affairs, 2020, https://foreignpolicy.com/2020/05/13/european-central-bank-myth-monetary-policy-german-court-ruling/; American Pivots, London Review of Books, 2019, https://www.lrb.co.uk/v41/n07/adam-tooze/is-this-the-end-of-the-american-century; Crashed. How a decade of financial crises changed the world, Allen Lane, London, 2018.[↩]
- Si veda Livini E., “Mai più profitti senza un’etica”, La Repubblica, 18 dicembre 2019:32-33.[↩]