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Black Hurricane

di Stefano
Galieni

«lontano in un’altra parte della città / Rubin Carter ed un paio di amici stanno facendo un giro in auto / sfidante numero uno per la corona dei pesi medi / non aveva alcuna idea di che tipo di guaio stava per cacciarsi / quando un poliziotto lo fa accostare al lato della strada / proprio come la volta prima e la volta prima ancora a Paterson / questo è il modo in cui vanno le cose / se sei nero è meglio che non ti faccia nemmeno vedere per strada / a meno che tu non voglia essere incastrato». È una strofa, della canzone Hurricane, dedicata da Bob Dylan alla vicenda di Rubin Carter, pugile afroamericano accusato e incarcerato dal 1966 al 1985 ingiustamente per un omicidio per rapina che non poteva aver commesso. La canzone uscì nel giugno 1975 e fotografava la vita quotidiana dei neri non certo negli Stati del sud o del midwest ma nel New Jersey. 

Poco è cambiato da allora. Normale che negli Usa i controlli di polizia si accaniscano contro gli afroamericani e i latinos, è normale che su di loro si esercitino forme di violenza che non attengono ad alcun regolamento, normale che le persone fermate rischino di lasciarci la pelle. 

Si potrebbero scrivere volumi e volumi in cui, cambiando città, anno, a volte modalità, si sono ripetute le stesse scene. Uccisioni – con motivazioni spesso pretestuose – rivolte, in cui spesso si mescolano esasperazione e bisogno di reagire, anche in maniera violenta, razzie, scontri con la polizia se non con la Guardia nazionale, arresti, poi una pausa, calma apparente mentre il fuoco brucia sotto la brace.

Una scia di sangue che non si è mai interrotta. Se negli anni Sessanta la presenza del Black Panther Party, le lotte per i diritti civili, alcuni leader carismatici riuscivano quantomeno a spostare sul terreno della politica il conflitto, poi tutto si frantuma e – tranne lodevoli eccezioni – le esplosioni di rabbia popolare, verso un segregazionismo mai affrontato diventano solo riot, rivolte.

Quanto sta accadendo in questi mesi di trumpismo in USA, sembra delineare una nuova condizione. Le manifestazioni che diventano occasione di saccheggio non spariscono, la rabbia dei ghetti riesplode puntuale ma è tornata prepotentemente al centro la politica. E, si badi bene, non quella che si esaurisce nel tentativo di cambiare col voto l’ordine delle cose. Sta emergendo una nuova generazione in tal senso diversa e forse più forte. 

In piazza, se sparano o soffocano un “nero” durante un fermo, più o meno lecito, scendono ragazzi e ragazze anche wasp, i cui obiettivi “di classe” si connettono con le tematiche antisegregazioniste. Il timore di Trump e del suo staff degli “Antifa” come espressione di una “sinistra radicale e socialista”, non sono infondati ma la ricetta law and order, potrebbe rivelarsi insufficiente. Certo polarizza lo scontro fra i suprematisti bianchi che negli anni hanno fatto più vittime dell’Isis in Usa e le frange più estreme dei nuovi movimenti. E certamente, nella America profonda, quella rurale e contadina da sempre, conservatrice, tradizionalista, in cui le armi in casa sono superiori al numero di elettrodomestici, il Trump sceriffo potrebbe fare colpo. Ma molte cose sono cambiate negli USA dove, da oltre 10 anni, parole un tempo impronunciabili come “socialismo” sono divenute non solo popolari ma hanno assunto un forte carattere valoriale. Girando sui social sono decine, forse centinaia, le associazioni, organizzazioni, di cui è difficile comprendere la portata, ma in cui è alta la presenza giovanile, che si presentano con simbologie antifasciste e antirazziste, con falce e martello, col rosso come colore predominante e in cui si ritrovano persone unite dal rifiuto del modello di sviluppo liberista e non divise dal colore della pelle. Difficile comprendere quale sarà la portata di un movimento in cui la ribellione si mescola al pacifismo, la lotta per i diritti primari (scuola, sanità, casa, lavoro) porta anche ad individuare come nemico non chi è più povero o chi tenta di emigrare passando dal Messico quanto chi è ricco e potente, bianco o nero che sia. 

L’orribile morte di George Floyd è avvenuta il 25 maggio a Minneapolis. Da allora sono passati poco più di due mesi ma tante sono state le vittime dovute alla brutalità della polizia.

Secondo ACLED (Armed Conflict Location and Event Data), una ong che monitora quello che sta accadendo negli USA ci sono state ad oggi oltre 7750 manifestazioni in più di 2000 diverse località. E per smontare la narrazione repubblicana, il 93% di queste manifestazioni si è concluso senza alcun incidente. Almeno altre mille manifestazioni si sono poi organizzate per questioni connesse alla pandemia. Il nesso fra repressione, ghettizzazione di chi è povero e chi sta pagando duramente l’assenza di una politica sanitaria degna di questo nome è stato colto perfettamente da chi ha dato vita alle mobilitazioni. Addirittura in numerosi casi insieme ai giovani e agli afroamericani, hanno manifestato sindaci, governatori, parlamentari, soprattutto la generazione delle giovani donne che, entrata al Congresso, sta spostando a sinistra l’asse democratico. Ma ovviamente i riflettori sono rimasti puntati sui momenti in cui ci sono stati tentativi di saccheggio o in cui hanno tuonato le armi, dimenticando che a sparare sono stati spesso anche i suprematisti filo Trump. Per il presidente uscente esiste un’unica regia attorno a queste mobilitazioni, col risultato che si è potenziato l’apparato repressivo e di fatto è stato praticamente dato mandato alle forze dell’ordine di sedare con ogni mezzo i tumulti, anche quando apparentemente pacifici. 

L’Acled ha una leadership totalmente femminile e si occupa delle violenze perpetrate dai governi in numerose parti del mondo, una delle sue esponenti, Roudabeh Kishi, in un’intervista a The Guardian invitava a porre l’attenzione su due aspetti delle manifestazioni. Il primo, forse scontato, l’opinione pubblica statunitense e internazionale ha ricevuto una “narrazione distorta” dai mezzi di informazione che hanno – non ci stupisce – dato risalto quasi esclusivamente alle manifestazioni caratterizzate da incidenti come quella imponente e devastante di Portland. A Portland, va ricordato, è stato prima ucciso un suprematista bianco pro Trump che stava sparando durante un corteo. Il suo uccisore è stato a sua volta ucciso dalle forze dell’ordine in circostanze ancora da chiarire. Ma è il secondo aspetto su cui si sofferma la ricercatrice e che fa pensare che se una regia c’è stata ed è tutt’ora in atto, questa proviene direttamente dalla Casa Bianca. In molte manifestazioni le automobili della polizia sono state utilizzate per caricare i cortei come fossero arieti e in ancora più occasioni la polizia ha fatto uso spropositato delle armi da fuoco. 

In ogni occasione in cui si sono verificati simili azioni le manifestazioni sono sfociate in disordini per attuare ulteriori azioni repressive. E poi arresti a migliaia e il ferimento di giornalisti, almeno un centinaio, in 12 diversi Stati. Un giornalista perderà probabilmente un occhio per un proiettile di gomma sparato dalla polizia. 

Ad oggi è difficile trovare la cifra comune per descrivere un movimento diffuso e solo in parte riassumibile nell’ormai celebre hastag #BlackLivesMatter. Quel movimento, nato nel 2013 dopo l’assoluzione di George Zimmerman, che aveva sparato al diciassettenne afroamericano Trayvon Martin il 26 febbraio 2012, uccidendolo. Dopo altre due uccisioni, quella di Micheal Brown a Ferguson e di Eric Garner, a New York, morto con le stesse modalità utilizzate per soffocare George Floyd, le creatrici dell’hashtag e le fondatrici del movimento, Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi, appartenenti alla comunità afroamericane, tra il 2014 e il 2016 hanno esteso il loro progetto iniziale a una rete di oltre 30 rami locali. Ma non esiste una gestione centralizzata del movimento che tutt’ora appare parcellizzato e in via di crescita. Interessante il fatto che assieme ai temi cari alle realtà antisegregazioniste trovino un proprio ruolo le lotte contro il patriarcato, l’omofobia, un internazionalismo che travalica identità di genere, nazionalità, status sociale e che pur ponendo al centro l’identità nera getta le basi per rivedere radicalmente il modello di sviluppo e di convivenza su cui si sono basati finora gli USA.

Difficile attendersi risultati concreti a breve termine e i cambiamenti, se ci saranno, non dipenderanno esclusivamente dai risultati delle presidenziali.

Molte e molti andranno a votare più che per Biden contro Trump, ma il cammino di questo percorso che interroga anche l’Europa è appena iniziato

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