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Aprire le gabbie. Cambiare il sistema. Il virus in carcere

di Sergio
Segio

Una grande sperimentazione di semi-detenzione autogestita di massa: è questo uno degli effetti più appariscenti e inediti del lockdown conseguente alla pandemia da Coronavirus che ha ferito il mondo, cambiandone in profondità le abitudini, incrinandone le sicurezze e sconvolgendone le economie. Il tutto con una rapidità stupefacente, sino al giorno prima inimmaginabile.

Al 28 aprile 2020, sono oltre tre milioni e 100mila le infezioni coronavirus confermate, 928mila i ricoverati e 218mila le vittime. Il numero dei confinati in casa ha raggiunto circa quattro miliardi di persone, quasi la metà della popolazione globale. Numeri che in ogni caso sono riduttivi, almeno per quanto riguarda contagi e decessi, essendo molta altra parte sommersa, non censita o addirittura nascosta dalle statistiche ufficiali. Miliardi di persone hanno dunque provato, e stanno ancora vivendo, una condizione di privazione di libertà, per quanto assai attenuata rispetto a quella della carcerazione effettiva. Quest’ultima, sempre a livello mondiale, risulta in crescita e riguarda oltre 11 milioni di persone, di cui la metà è ristretta in soli cinque paesi: Stati Uniti (2,1 milioni), Cina (1,65 milioni), Brasile (690mila), Russia (583mila), India (420mila).

Sorvegliare e curare

Miliardi di persone rinchiuse costituiscono uno scenario distopico che nessuno scrittore di fantascienza o sceneggiatore era mai arrivato a immaginare. Da un giorno all’altro ci si è trovati a vivere in una società rigidamente disciplinata e altamente controllata.

La task force contro le fake news da ultimo introdotta dal governo italiano per controllare le informazioni diffuse sulla pandemia pare, in effetti, ispirata alla fantasia di George Orwell. Ma persino quella dimensione dispotica e allucinata raccontata in 1984 risulta ora surclassata dall’utilizzo massiccio e pervasivo delle più avanzate tecnologie di sorveglianza digitale, anch’esse introdotte di punto in bianco senza resistenza o remora alcuna.

In molti paesi europei si è presto affermato un modello cinese. Si è aperta la caccia con droni e geolocalizzazione ai trasgressori delle misure di auto-reclusione e di distanziamento sociale, si stanno introducendo sistemi di sorveglianza di massa attraverso app di tracking o di contact tracing mentre i parlamenti sono chiusi e resi superflui dalle decretazioni d’urgenza e dai dispositivi dello Stato d’eccezione.

Nell’intero Occidente gli istituti e le procedure democratiche, già minati dall’interno da decenni di predominio della grande finanza e delle corporation transnazionali, sono stati ulteriormente svuotati; con un colpo di mano, come nell’Ungheria di Orbán o in maniera più subdola e inavvertita, come nel Belgio, dove la prima ministra Sophie Wilmès dispone ora di poteri speciali senza nemmeno aver dovuto passare per il rito dell’approvazione parlamentare come Orbán. Il primo ministro della Slovenia, Janez Jansa, ha immediatamente imitato quello ungherese, forzando i limiti costituzionali e ampliando, oltre ai propri, i poteri delle polizie nel controllare i cittadini e reprimendo la stampa.

Nuovi e ampi poteri ha ottenuto anche Emmanuel Macron in Francia, i cui cittadini avevano già dovuto abituarsi a leggi di emergenza, prima come reazione al terrorismo jihadista, poi con il contrasto e la repressione dei movimenti sociali di protesta. Leggi che, more solito, progressivamente si sono invece stabilizzate.

Da Erdoğgan a Orbán, la debolezza complice dell’Europa

Di fronte al golpe bianco di Orbán le istituzioni comunitarie tacciono, forse imbarazzate ma di sicuro distratte o complici. Obiettivamente conniventi, come già con Erdogan, al quale tutto viene consentito: dalle complicità con Daesh, alla strage di diritti e di oppositori in Turchia, all’aggressione perenne e genocida contro i kurdi, all’invasione del Nord-Est siriano, alla presenza militare nel Mediterraneo e all’ingerenza in Libia, al ricatto permanente, nonostante i miliardi di euro elargitigli per bloccare fuori dalle mura della Fortezza Europa il fiume dolente di profughi siriani.

Forse a Bruxelles, nonostante tutto, considerano il premier magiaro un membro presentabile, se pur a vocazione autoritaria: in fondo, una sua proposta di legge promette solo cinque anni di carcere alla stampa non allineata. Può persino essere presentato come moderato, ma solo se paragonato al presidente delle filippine, già tristemente noto per la sua war on drugs, in realtà una guerra contro chi le droghe consuma, la cui polizia ha sterminato in pochi anni migliaia di tossicodipendenti e spacciatori attraverso esecuzioni extragiudiziali. Alle stesse forze dell’ordine, Rodrigo Duterte ha ora ordinato di sparare contro chi violi le misure introdotte per contrastare l’epidemia di coronavirus. Detenzione autogestita, anche in quel caso, ma a rischio della vita.

L’eterogenesi del virus

La realtà dunque supera spesso la capacità di fantasia e d’invenzione. La sorpassa perlopiù in peggio. Eppure, anche in quest’occasione, dietro e a fianco del dramma e delle tragedie, si sono sviluppate e diffuse in modo altrettanto virale insospettate reazioni solidali, pratiche di mutuo aiuto e di spontaneo supporto ai più deboli e bisognosi. Vale a dire a quella parte di società di sovente abbandonata e trascurata dalle istituzioni o sacrificata nelle logiche dell’emergenza e dei grandi numeri. Effetti indiretti positivi, attuali o potenziali, sono riscontrabili anche sul piano generale e su scala più ampia. La dottrina dell’austerity, amministrata dal suo sommo sacerdote, la cosiddetta Troika, contro la quale in Europa hanno sinora vanamente lottato vasti movimenti e per la quale hanno sofferto interi popoli, come quello greco, ha finalmente collassato. Certo, va osservato che gli scenari determinatisi rischiano di mettere in forse la sopravvivenza dell’intero progetto europeo, peraltro reso costitutivamente fragile dalla centralità della moneta a discapito di un’Europa sociale e dei diritti dei popoli.

Passare dal rigorismo a guida ordoliberista al trionfo degli egoismi, delle belligeranze nazionali e delle pulsioni sovraniste, ben rappresentati dal Gruppo di Visegrád o dall’italiano Salvini, equivarrebbe al passare dalla padella alla brace.

La guerra è la peggior pestilenza

Pochi risultati ha purtroppo prodotto il meritevole appello del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che il 23 marzo ha chiesto un cessate il fuoco ai tanti paesi in armi: «Porre fine alla malattia della guerra e combattere la malattia che sta devastando il nostro mondo: si comincia fermando i combattimenti ovunque. Ora».

Pochi e irrilevanti quelli che hanno accolto l’invito, come la guerriglia colombiana dell’Esercito di liberazione nazionale, i guerriglieri marxisti-leninisti del Bagong Hukbong Bayan nelle Filippine, la milizia separatista del Camerun meridionale o, in modo più significativo, pur temporaneo, le Forze Democratiche Siriane e la coalizione araba a guida saudita impegnata nella guerra in Yemen. Gli Stati e le potenze interessati hanno invece fatto orecchie da mercanti, in questo caso di armi. Un mercato sempre più florido, come documenta il SIPRI: nel 2019 il volume delle spese militari globali ha raggiunto 1917 miliardi di dollari, una crescita del 3,6% sull’anno precedente.

Per la pandemia della guerra non esiste alcun vaccino; l’unica terapia sarebbe quella di fermare la macchina feroce del business bellico e del warfare, quel “complesso militar-industriale-finanziario” che governa il mondo. In un mondo confinato in casa, in molte sue parti, ad esempio l’Italia, continuano a doverne uscire tutte le mattine i lavoratori anche del settore bellico, compresi gli addetti alla produzione dei cacciabombardieri nucleari F35, senza vergogna considerata “essenziale” dai governanti.

Se il piano economico e politico è assai sdrucciolevole e incerto, più agevole è cogliere qualche riflesso positivo in materia ambientale e di diritti. Si è, infatti, registrato un crollo dei valori dell’inquinamento e un recupero di terreno e di possibilità di sopravvivenza da parte della fauna, quanto meno in Occidente: si sono così potuti vedere animali selvatici camminare tranquillamente nei sobborghi di qualche città, oppure delfini giocare davanti alle rive, in acque sino a poche settimane fa avvelenate da scarichi o affollate di grandi navi e rumorosi motoscafi.

Diritti animali e diritti umani

Come a Chernobyl, quando l’uomo si ritira o è costretto a ridurre la distruttività ambientale che lo caratterizza, gli animali si riprendono e la natura torna a sorridere. La stessa OMS, oltre un quindicennio fa, indicava negli allevamenti industriali, vere e proprie catene di montaggio dell’orrore, una causa delle malattie zoonotiche, qual è anche l’attuale Coronavirus. Non a caso la Cina è il maggior produttore al mondo – di allevamenti e di virus. In 30 anni ha triplicato il numero di animali costretti in condizioni inenarrabili, attraverso il landless systems, vale a dire senza terra e con il massimo di sfruttamento.

Se all’uomo in questi decenni è stato sottratto il pensiero critico, una cultura dell’alternativa e del conflitto che lo ha progressivamente – e si spera non irrimediabilmente – reso passivo di fronte agli effetti devastanti del “Capitalocene”, la martoriata natura, invece, prima o poi si ribella. Anche riguardo al carcere, all’invasività che esso ha raggiunto nell’organizzazione sociale, bisognerà decidersi a pensare che il problema comincia da quello della prigione feroce e nascosta in cui vengono da sempre costretti gli animali. Bisognerà decidersi a capire che agire per i diritti umani in modo incisivo e duraturo, modificando le culture e le politiche al riguardo, è impossibile senza mettere in campo e intrecciare anche quelli degli altri animali.

Se tra i piccoli segnali positivi emersi nel tempo della pandemia si può registrare il fatto che il Portogallo ha deciso di regolarizzare i richiedenti asilo, in modo da garantire loro l’indispensabile assistenza sanitaria, o che alcuni degli Stati Uniti hanno sospeso le esecuzioni capitali programmate, a partire dal Texas dove storicamente la cultura della forca (in quel caso dell’iniezione letale) è più radicata e praticata, allo stesso modo va considerato il blocco delle corride in numerose città spagnole, che ha consentito la salvezza a centinaia di tori o il fatto che – finalmente – la Cina abbia imposto limitazioni nel commercio di animali vivi e abbia escluso dall’elenco di quelli commestibili i cani (si stima che 10 milioni siano uccisi lì ogni anno per la loro carne) e i gatti.

Non si possono enfatizzare, poiché si tratta di provvedimenti contingenti e temporanei, ma si possono considerare pur sempre spunto e premessa di possibili cambiamenti, anzitutto culturali, e di politiche future più attente a quel sistema fragile, vulnerato e interdipendente costituito dai diritti globali.

Per il momento, terribili e prevalenti sono naturalmente gli effetti negativi, a partire dalle vittime non tanto e non solo del virus ma di una sanità pubblica scientemente e colpevolmente indebolita a favore di quella privata votata al massimo profitto, da un impoverimento di massa, dalla recessione globale incipiente o dalla massiccia perdita del lavoro; negli Stati Uniti, ad esempio, a metà aprile, oltre 26 milioni di lavoratori hanno chiesto sussidi di disoccupazione. Eppure e perciò, proprio da qui, dopo questa esperienza, si può e si deve rilanciare una riflessione e una proposta per un reddito di base universale e incondizionato per sostenere i cittadini nel dopo-pandemia. La Spagna, tra i paesi più colpiti dal virus, ha annunciato di volerlo fare con le dichiarazioni di Nadia Calviño, ministra dell’Economia e vicepremier. Un buon esempio, che si spera diventi rapidamente contagioso.

Il virus in prigione

Se il mondo intero pare divenuto una prigione, per quella propriamente tale si sono introdotte misure tese a ridurre il sovraffollamento delle celle, che produce normalmente un quotidiano disagio, ma che con l’epidemia diventa una vera e propria bomba a orologeria. Si è così consentita la scarcerazione di un certo numero di reclusi, attraverso la riduzione o la sospensione delle pene oppure con modalità di detenzione domiciliare.

La preoccupazione per il Covid-19 e i rischi di trasmissione moltiplicati nelle celle, assieme alle misure ulteriormente restrittive imposte dalle amministrazioni penitenziarie, nel mese di marzo hanno innescato proteste e rivolte in Italia e in Colombia. Numerosi detenuti sono morti (rispettivamente, 13 e 23, oltre a numerosi feriti), in alcuni casi per cause ufficialmente ancora non definite, in altri sicuramente per una repressione violenta da parte dell’istituzione. Ma rivolte e proteste si sono poi diffuse in numerose carceri di diversi continenti: dall’Europa all’America Latina, dall’Africa all’Asia, dagli Stati Uniti all’Oceania. In alcuni altri casi anche con morti: 12 in Venezuela, cinque in Argentina, tre in Perù, due nello Sri Lanka. Anche per il timore di un’esplosione generalizzata, del virus e delle proteste, numerosi governi hanno pertanto disposto la liberazione anticipata di un certo numero di reclusi. È avvenuto in diversi Paesi Europei e in alcuni degli Stati Uniti. Paradossalmente, quelli che ne hanno scarcerati in misura maggiore sono regimi ben poco sensibili ai diritti umani come in Iran e Turchia: il primo dichiara di averne liberati circa 100mila, mentre il secondo dovrebbe arrivare a 90mila; a fronte, rispettivamente, di una popolazione detenuta complessiva di 230mila e 233mila. Proprio in quest’ultima nazione, le esclusioni dalle misure dei prigionieri politici hanno provocato una rivolta nella città a maggioranza curda di Batman il 4 aprile.

Appare dappertutto chiaro che la logica, insomma, è quella di liberare il carcere dai detenuti, non viceversa. Come non è mai il momento della pace, così non è mai tempo di diritti e di libertà. L’una e gli altri non sono mai calati dall’alto come benevolenza del principe, ma conquistati dal basso, quasi sempre a caro prezzo. È una lezione che ci viene dalla Storia. L’epoca della pandemia non fa eccezione.


Questo il testo che apre il numero di maggio di Global Rights International Magazine, dal titolo Aprire le gabbie. Cambiare il sistema. Il virus in carcere, con il seguente indice:

Sergio Segio, Aprire le gabbie, cambiare il sistema. Il virus in carcere

Orsola Casagrande, Prigionieri in Turchia, abbandonati al loro destino

Orsola Casagrande, Intervista a Serbay Koklu, avvocato di Abdullah Ocalan

Nayrouz Qamrout, Voci da un carcere in Palestina

Orsola Casgrande, Liliany Obando: Le carceri in Colombia sono luoghi disumani

Morti nelle carceri: Appello per un comitato di verità e giustizia

José Miguel Arrugaeta, Prigionieri politici baschi, vittime di una politica di vendetta


Il magazine è scaricaricabile interamente e gratuitamente.

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