Il mese di settembre è ricco di appuntamenti elettorali in varie parti d’Europa. Su tutti l’attenzione principale si rivolge alla scadenza tedesca. In Germania gli elettori sono chiamati al voto il 26 settembre e su quello che succederà una volta definitivamente chiusa l’esperienza di Angela Merkel regna la più grande incertezza. La Norvegia, paese europeo ma collocato fuori dall’Unione di Bruxelles, ha già votato confermando quanto prevedevano i sondaggi: una sonora sconfitta della destra che governava da otto anni e la crescita robusta dei due partiti della sinistra radicale. Ora si attende di capire a quali conclusioni arriveranno le trattative per il nuovo governo. Trattative che non saranno certamente facili ma che alla fine dovrebbero consentire di formare una coalizione tripartita guidata dai laburisti e con la partecipazione del Partito di Centro e del Partito Socialista di Sinistra.
Si è votato nei giorni scorsi in Russia, dove la principale formazione di sinistra è il Partito Comunista della Federazione Russa, si voterà nel fine settimana, oltre che nella già citata Germania, in Islanda e nella città austriaca di Graz. Questo ciclo elettorale ci sonsente di fare il punto sulla presenza di forze della sinistra radicale che hanno un peso elettorale significativo e che sono il risultato di percorsi ideologici, politici, organizzativi tra loro molto diversi. Per questo non è privo di interesse capire le ragioni della loro influenza e anche i dilemmi strategici che devono affrontare all’interno di sistemi politici dalle caratteristiche peculiari.
Germania: le difficoltà della Linke
Il quadro elettorale tedesco è mutato sensibilmente nell’arco di pochi mesi. All’inizio del processo sembrava confermata la prevalenza della Unione dei due partiti democristiani che in quel momento poteva garantirsi la continuità con la lunga esperienza di governo della Merkel. Successivamente la debolezza del candidato della CDU-CSU Armin Laschet, considerato massima espressione della continuità con la cancelliera uscente, e l’incapacità del partito di maggioranza relativa di presentarsi agli elettori con un giusto mix di continuità e cambiamento, ha prodotto una pesantissima crisi dei democristiani che sembrano destinati a non andare molto oltre il 20%.
In calo CDU-CSU è salita la stella verde. Il partito dei Grunen, guidato da una coppia di leader moderati che hanno confermato l’annacquamento della radicalità originaria del partito, ha potuto presentarsi come il possibile nuovo asse centrale della politica tedesca. Un partito liberale-ecologista sufficientemente rassicurante da proporsi come naturale guida di una nuova coalizione di governo. Qualche errore commesso dalla candidata Annalena Baerbock, la sua inesistente esperienza di governo, ma anche il dubbio che il riallineamento al centro dei Verdi fosse frutto di un certo opportunismo, hanno ridimensionato l’iniziale ascesa del partito ecologista.
Le debolezze altrui hanno cambiato il destino del Partito Socialdemocratico. Sembrava inevitabile un’ulteriore batosta elettorale tale da rendere sempre più marginale una formazione politica che per molto tempo ha rappresentato il modello del partito operaio di massa e poi della felice transizione verso il partito popolare piglia-tutto. Il declino era iniziato con l’adesione alla ideologia della “terza via” blairiana o “nuovo centro” delineato da Helmut Schroeder. La base del partito ha espresso nelle votazioni interne un certo riallineamento a sinistra su posizioni classicamente socialdemocratiche, ma finora questa correzione di linea non sembrava aver convinto gli elettori. Alla fine il candidato socialdemocratico alla Cancelleria Olaf Scholz, esponente della destra del partito, ha potuto rappresentare per un discreto numero di elettori oscillanti, una buona soluzione per continuare la linea centrista della Merkel con qualche moderata promessa di correzione sociale (ad esempio sull’incremento del salario minimo).
Se saranno confermate le tendenze dei sondaggi, Scholz dovrebbe diventare il nuovo cancelliere, ma se ci saranno cambiamenti effettivi nella politica tedesca dipenderà molto da quale sarà la futura coalizione di governo, dato che al momento (esclusa la destra nazional-populista dell’AfD) esistono numerose combinazioni possibili.
Tra queste i numeri potrebbero consentire la formazione di una coalizione rosso-rosso-verde con l’SPD, i Verdi e la Linke. Il partito della sinistra affronta questa scadenza elettorale con qualche difficoltà, tant’è che gli ultimi sondaggi collocano i suoi consensi attorno al 6-6,5%. Un calo di quasi tre punti sulle precedenti elezioni e con un pericoloso avvicinamento alla soglia del 5%, al di sotto della quale rischia l‘esclusione dal Bundestag (che potrebbe essere evitata con l’elezione diretta di 3 parlamentari nella parte dei collegi uninominali). Soprattutto se qualche elettorale facesse presa l’idea di un “voto utile” immediatamente spendibile in termini di governo.
Il partito è sorto, come PDS, soprattutto in quanto espressione di una identità specifica alla Germania dell’est, dove raccoglieva la quasi totalità dei voti. L’essere erede, per quanto profondamente rinnovato, della SED, il partito al potere nella DDR, gli ha sempre reso difficile la penetrazione elettorale all’ovest. Con la formazione di alcune organizzazioni dissidenti della socialdemocrazia a seguito della svolta centrista di Schroeder, la PDS ha contribuito alla costruzione della Linke. Il partito ha continuato ad essere attraversato da differenze di orientamento, con la parte orientale più radicata nei territori ma anche con una visione più pragmatica e moderata del ruolo del partito, favorevole alla ricerca di una partecipazione al governo e di possibili alleanze con l’SPD; all’ovest la composizione è più eterogenea con l’influenza di correnti provenienti dall’estrema sinistra e altri dalla socialdemocrazia e dal sindacato per ciò stesso ostili ad un avvicinamento all’SPD.
Le line di divisione interne si sono rimescolate con l’emergere di una tendenza “populista di sinistra” attorno alle figure di Sarah Wagenknecht, inizialmente vicina alla corrente comunista “ortodossa”, e di Oskar Lafontaine. Questa componente ritiene che la politica maggioritaria della Linke sia troppo attenta alle esigenze di minoranze identitarie e abbia allentato i legami con i ceti popolari, lasciandoli preda dell’egemonia delle destre populiste. Particolarmente acceso il confronto sul tema dell’immigrazione che la maggioranza ritiene vada affrontato dentro una concezione solidale e internazionalista, mentre la componente vicina alla Wagenknecht considera che ne vadano soprattutto evidenziati gli effetti negativi sui settori popolari economicamente e socialmente più fragili.
La Linke si presenta alle elezioni sotto la guida di due figure che cercano di rappresentare la diversità delle anime del partito: Janine Wissler proviene da un gruppo trotskista (della tendenza internazionale guidata fino alla sua scomparsa da Tony Cliff, che considerava l’URSS come una forma di capitalismo di stato) anche se l’esperienza politica compiuta a livello di Land l’ha distanziata da concezioni troppo dogmatiche; Dietmar Bartsch, rappresenta l’ala considerata più “moderata” e soprattutto l’anima orientale del partito.
La Linke guida il governo della Turingia con Bodo Ramelow e partecipa alle coalizioni di governo di Berlino e di Brema. Ha espresso la disponibilità a partecipare ad una coalizione di sinistra a livello federale. Ipotesi alla quale restano però particolarmente ostili i Verdi, mentre ha il favore della sinistra dell’SPD. Tra gli ostacoli principali per un possibile governo rosso-rosso-verde restano alcuni temi di politica internazionale come la partecipazione alla NATO e la presenza di militari tedeschi in missioni internazionali.
Oggi la Linke non è più così sbilanciata a favore dell’elettorato dell’ex DDR, dove è riuscita ad incunearsi l’AfD, e soffre maggiormente la concorrenza dei Verdi tra gli elettori particolarmente sensibili alle tematiche ambientaliste e dell’SPD, spostata a sinistra almeno nella retorica elettorale, su quelli attenti alle questioni sociali. Il voto di domenica ci dirà se e quanto potrà essere comunque influente nella nuova fase politica tedesca.
Islanda: una “strana coalizione” alla prova del voto
Un giorno prima dei tedeschi sono chiamati a rinnovare il loro parlamento (Althing) anche i cittadini islandesi. Non sono paragonabili ovviamente né i numeri, né la rilevanza politica dell’avvenimento. Nell’isola nordica sono chiamati al voto circa 250.000 elettori, l’equivalente di una città di medie dimensioni. Le particolarità del sistema politico islandese offrono però qualche elemento interessante di riflessione anche nel più ampio quadro della politica europea.
Nell’attuale parlamento sono rappresentati ben 8 partiti che si suddividono 63 seggi. Storicamente il “formato” della politica islandese ruotava attorno a quattro formazioni politiche: due borghesi e due operaie. A destra il Partito dell’Indipendenza, nato negli anni ’30 dalla fusione di liberali e conservatori è sempre stato radicato nella borghesia urbana con un importante seguito in altri settori sociali. E’ stato per lungo tempo il partito prevalente della politica in Islanda. Un po’ più spostato al centro è il Partito del Progresso, rappresentativo della borghesia e del ceto medio rurale con agganci nel mondo cooperativo. A sinistra si sono tradizionalmente collocati i socialdemocratici e alla loro sinistra i comunisti. Questi ultimi hanno seguito un percorso piuttosto originale. Negli anni ’20 hanno operato come corrente significativa all’interno della socialdemocrazia e del sindacato ad essa strettamente collegato. Nel 1930, influenzati anche dal conflitto esistente a livello internazionale tra la Seconda e la Terza Internazionale, hanno dato vita al Partito Comunista Islandese che è esistito come tale solo fino al 1938. In questo anno la sinistra socialdemocratica si è separata dal proprio partito ed è confluita assieme ai comunisti in un Partito Socialista unitario. Dopo un avvio stentato i comunisti sono riusciti a mettere radici sia tra la nascente classi operaia che tra le comunità di pescatori e si sono trasformati nel primo partito della sinistra sopravanzando la socialdemocrazia.
Per effetto del nuovo quadro internazionale nel quale anche l’Islanda, per la presenza di militari britannici, si trova coinvolta, i comunisti entrano per la prima volta al Governo in una coalizione di unità nazionale. Nel 1956 una nuova scissione della sinistra socialdemocratica confluisce nella formazione dell’Alleanza Popolare, che nasce inizialmente come coalizione per poi trasformarsi in un partito unitario. Al suo interno continua ad essere predominante la presenza dei comunisti che assumono però una strategia di trasformazione pacifica e democratica in direzione del socialismo. Dopo il 1968 allentano i loro rapporti con gli altri Partiti Comunisti. In diverse occasioni partecipano a coalizioni di governo nelle quali sostengono l’uscita dalla Nato e la difesa degli interessi del Paese in materia di pesca (la cosiddetta “guerra del merluzzo” con la Gran Bretagna). Tra il 1998 e il 1999 la sinistra islandese avvia un processo di convergenza che ha come protagonisti oltre ai due tradizionali partiti, i socialdemocratici e i comunisti (che con la caduta del blocco sovietico hanno ridefinito la loro identità in senso democratico-socialista ma con all’interno un’anima marxista e operaia), il Movimento Popolare (scissione della socialdemocrazia) e l’Iniziativa Femminista che aveva avuto un significativo successo elettorale nei primi anni ’90. Da questo processo è sorta l’Alleanza Socialdemocratica. Una parte importante dell’ex Alleanza Popolare e del partito femminista non ha accettato di partecipare ad una unificazione vista come troppo moderata e ha promosso a sua volta la formazione del Movimento Sinistra Verde.
Nel 2009, a seguito della crisi mondiale che ha portato al fallimento le principali banche de Paese, le elezioni hanno segnato successo dei partiti di sinistra (socialdemocratici e rosso-verdi) che hanno formato un governo di minoranza con la tolleranza dei centristi del Partito del Progresso. Il Governo ha dovuto gestire un percorso di austerità, con la presenza del FMI, e la complicata vicenda di Icesave, una finanziaria che aveva raccolto denaro in quantità da cittadini britannici e olandesi e che si trovava nell’impossibilità di restituirlo. I governi dei due Paesi imposero all’Islanda un accordo gravoso, per due volte respinto da un referendum popolare. La destra che aveva grosse responsabilità nella crisi finanziaria cavalcava demagogicamente il malcontento popolare e tornava in sella nelle elezioni del 2013.
La perdita di fiducia degli islandesi nelle proprie istituzioni si è tradotta nell’emergere di nuovi partiti e nella frammentazione del sistema politico. I maggiori partiti sono stati colpiti e indeboliti da nuovi scandali. Nel 2017 il Parlamento risultava così composto: Partito dell’Indipendenza 11 seggi, Sinistra Verde 11 seggi, Partito del Progresso 8 seggi, Socialdemocratici 7 seggi, Partito di Centro 7 seggi, Pirati 6 seggi, Partito del Popolo 4 seggi, Partito della Riforma 4 seggi.
Da questa elezione è emerso un governo che vede insieme la Sinistra Verde con il Partito dell’Indipendenza e il Partito Progressista. In pratica una formazione arcobaleno che include la destra tradizionale, il centro rurale e la sinistra radicale. Per quanto il sistema politico islandese non sia mai stato polarizzato su due blocchi contrapposti come avvenuto in genere negli altri Paesi scandinavi, la decisione di partecipare a questa eterogenea coalizione ha suscitato molto malcontento e dubbi nella Sinistra Verde. Non superato dal fatto che alla guida del governo sia andata la leader della Sinistra, Katrin Jakobsdottir.
L’ultimo sondaggio pubblicato a pochi giorni dal voto prevede un forte calo della Sinistra Verde che scenderebbe a 6 seggi (-5). Questo arretramento sarebbe compensato dalla crescita dei partiti che si collocano variamente a sinistra del centro. I socialdemocratici guadagnerebbero un seggio, salendo a 8. Lo stesso i Pirati che salirebbero a 7. Farebbe il suo ingresso un nuovo partito che si colloca a sinistra del partito di Katrin Jakobsdottir: il Partito Socialista.
Fondato il 1° maggio 2017, ha ottenuto un seggio nelle elezioni comunali di Rekyavik dell’anno successivo, restando all’opposizione della nuova maggioranza di centro-sinistra emersa dalle elezioni. Il Partito Socialista si propone come rappresentante dei ceti sfavoriti ed è apertamente critico del capitalismo. Secondo i sondaggi potrebbe fare il suo ingresso nell’Althing con 4 seggi. Considerato che i Pirati negli ultimi anni hanno assunto un profilo di sinistra sui temi sociali non restando più solo ancorati alla tutela dei nuovi diritti digitali e della trasparenza delle istituzioni, l’insieme delle forze di sinistra raggiungerebbe i 25 seggi, non sufficienti per costituire una maggioranza senza l’apporto di altri partiti. Le altre forze politiche che entrerebbero in Parlamento sarebbero: il Partito della Riforma (liberale) 6 seggi, il Centro 4 seggi (-3), i Progressisti 9 seggi (+1), il Partito dell’Indipendenza 15 (-1), il Partito del Popolo (populista xenofobo) 4 (=).
Il dato politico più rilevante sarebbe l’impossibilità di ricostituire la coalizione uscente che avrebbe solo 30 seggi e questo soprattutto per il forte calo della Sinistra Verde che scenderebbe dal 16,9% al 10,2%. Naturalmente parliamo ancora di sondaggi e occorrerà ragionare sui risultati effettivi, prima di trarre insegnamenti più precisi da questa esperienza. Per ora si può dire che il tentativo di un partito di sinistra radicale di guidare una coalizione così eterogenea e basata su partiti orientati in direzione contraria, non è stata apprezzata dagli elettori. Questa scelta ha però consentito l’emergere di altre forze collocate nel campo della sinistra radicale (come il Partito Socialista) o più genericamente dell’alternativa progressista (come i Pirati).
Oltre alle sue specificità politiche l’Islanda si caratterizza per il forte spirito ugualitario e anche per la capacità di innovazione sociale. Dal 2015 al 2017 l’isola ha sperimentato la riduzione dell’orario di lavoro (a 35 ore settimanali) a parità di salario. Il successo dei test hanno portato alla generalizzazione di questa idea. Contemporaneamente da alcuni anni è stata resa obbligatoria la parità salariale uomini-donne a conferma di una lunga tradizione di protagonismo femminile. Non a caso la prima organizzazione sindacale, sorta nel 1914, fu di donne lavoratrici, seguita l’anno successivo da quella dei marinai. Sempre nel 1915 venne riconosciuto il diritto di voto femminile per quello che a tutt’oggi è considerato il parlamento più antico del mondo, in quanto le sue origini sono fatte risalire al 930 circa.
Graz: un’anima rossa e sociale in un mondo conservatore
Graz, seconda città austriaca per dimensioni con circa 300.000 abitanti, è chiamata domenica 26 settembre a rinnovare il Consiglio comunale. Si tratta di una città nella quale il primo partito è quello conservatore (Popolare) e ad esso appartiene l’attuale sindaco. Le elezioni sono state anticipate di qualche mese sulla scadenza naturale nella speranza, secondo gli osservatori, di poter allineare la maggioranza dell’amministrazione a quella nazionale, riducendo il peso della destra xenofoba e populista (FPOe) e rafforzando i Verdi che a livello nazionale governano con il Partito Popolare.
La città austriaca presenta però una forte anomalia rispetto al sistema politico nazionale, articolato su quattro partiti (Popolari, Socialdemocratici, Liberali, Verdi) e sull’assenza di una formazione della sinistra radicale. Il secondo partito, con circa il 20% dei voti, è il Partito Comunista Austriaco (KPOe). I comunisti in Austria sono sempre stati in netta minoranza all’interno del movimento operaio, data la forte preponderanza del Partito Socialdemocratico che negli anni ’20 aveva mantenuto un profilo di sinistra con una propria peculiare identità ideologica (l’austro-marxismo). Con l’avvento di un regime di tipo fascista che cancellò con la forza le casematte del movimento operaio e socialista (in particolare la “Vienna rossa” della grande urbanistica popolare), il Partito Comunista ampliò la sua influenza, diventando la principale organizzazione attiva nella resistenza clandestina. Alla fine della guerra, entrò in un governo di unità antifascista, per poi perdere progressivamente influenza elettorale e trovarsi escluso dal Parlamento all’inizio degli anni ’60.
L’occupazione sovietica di una parte del Paese, durata qualche anno dopo la fine della guerra, le vicende ungheresi del ’56 e poi quelle cecoslovacche del ’68 alimentarono l’anticomunismo e rinchiusero i comunisti austriaci in una condizione di isolamento e marginalità politica. Dopo la sconfitta della corrente marxista rinnovatrice raccolta attorno alla rivista Wiener Tagebuch, il partito seguì una linea filosovietica. La caduta del blocco socialista ed in particolare della Germania Orientale che aveva sempre avuto una certa influenza nella politica dei comunisti austriaci, il partito si divise in diversi tendenze. Una parte spinse per la trasformazione in senso post-comunista ma venne messe in minoranza ed i gran parte uscì dal partito. La maggioranza che decise di mantenere il nome e difendere la sua continuità storica era composta da una tendenza rinnovatrice (neo-comunista) ed una più tradizionalista.
Mentre la maggioranza nazionale ha visto prevalere la prima, nella Stiria (la regione di cui Graz è la capitale) è sempre stata più forte la seconda. In particolare resta forte, in questa struttura regionale, l’ostilità verso l’Unione Europea.
Il Partito Comunista conta, nelle elezioni di domenica prossima, di consolidare il ruolo di secondo partito mantenendo quanto meno il 20% conquistato nelle ultime elezioni. Le ragioni del successo dei comunisti di Graz, vengono individuate nelle peculiari condizioni istituzionali in cui operano e in alcune iniziative assunte dalla dirigenza locale.
A Graz, a differenza di quanto avviene nelle elezioni politiche non è mai stata introdotta la soglia di sbarramento (per il Parlamento è del 4%) il che ha consentito al Partito di mantenere un livello di consenso, seppure inferiore al 2%, senza che questo si traducesse nell’esclusione dal Consiglio comunale. Il secondo elemento specifico riguarda la formazione dell’amministrazione della città. Questa non è il frutto di accordi di coalizione ma viene formata sulla base del principio proporzionale. In questo modo il Partito Comunista è potuto accedere a ruoli di direzione politico-amministrativa senza dover essere corresponsabile delle scelte delle altre forze politiche rappresentate nell’amministrazione.
A queste condizioni istituzionali si aggiungono poi le scelte specifiche compiute dalla KPOe. La prima è stata di puntare sulla questione delle abitazioni. A Graz vi sono molti abitanti in affitti i cui interessi si scontrano con quelli dei grandi locatari. Un problema che veniva ignorato dalle formazioni politiche consolidate. Il Partito istituì anche una linea telefonica alla quale potevano essere esposti i problemi e le difficoltà che i cittadini incontravano per tutelare un loro bisogno fondamentale. Il Partito ha sempre continuato a dedicare attenzione alla questione abitazioni, creando una “offerta politica” laddove si presentava una “domanda politica” inevasa dal sistema dei partiti esistente.
Il Partito ha anche deciso che i suoi rappresentanti istituzionali dovevano ridursi drasticamente il compenso (equiparandolo a quello di un cittadino normale) destinando la differenza ad aiutare persone in difficoltà. Questa decisione, a cui pure non sono mancate le critiche, ha consentito di rafforzare contatti e credibilità tra i ceti popolari. Indubbiamente l’esperienza dei comunisti di Graz può essere considerata un successo, che ha consentito anche di entrare nel Consiglio regionale della Stiria, ma il consenso ottenuto si è trasferito in misura minima sul voto politico nazionale. E’ stata utilizzata una opportunità politica, facilitata da un contesto istituzionale favorevole, ma non si è ancora realizzato un passaggio dal consenso per un’agenda specifica di misure sociali a livello locale ad una visione alternativa complessiva sulle prospettive della società austriaca.
Russia: i comunisti si confermano seconda forza
La realtà politica, istituzionale e sociale russa presenta, come è evidente, forti anomalie rispetto ai sistemi politici finora considerati. Le elezioni restano sostanzialmente eventi non competitivi nei quali il potere organizzato attorno a Putin e al partito Russia Unita definisce i margini entro i quali è consentito un certo grado di critica e di contestazione.
Russia Unita ha vinto le elezioni con quasi il 50% dei voti e un relativo arretramento rispetto al dato precedente. Questo conferma una certa riduzione del consenso per il partito del potere legato alle condizioni economiche e sociali del Paese che sono tutt’altro che brillanti. Anche la gestione piuttosto opaca della pandemia malgrado il relativo successo della produzione di un vaccino nazionale (lo “Sputnik) hanno prodotto un certo malessere nell’opinione pubblica. Molto probabile che Russia Unita sia effettivamente il primo partito della Russia anche senza i brogli che le vengono attribuiti, ma difficile dire quanto di questo sia convinto e quanto invece sia frutto di adattamento al potere e alle varie clientele che attorno ad esso si organizzano. Russia Unita si presenta ideologicamente come una formazione nazional-conservatrice, ma molte adesioni sono di tipo opportunistico piuttosto che di vera convinzione. Forse solo in politica estera Putin e il suo blocco di potere godono di un consenso effettivo avendo espresso un certo protagonismo sulla scena globale a difesa di quelli che vengono ritenuti essere gli interessi primari del Paese.
Il Partito Comunista della Federazione Russa si è confermato come l’unica forza di opposizione dotata di una qualche consistenza e autonomia. Il suo voto si è assestato, secondo i dati ufficiali relativi alla parte proporzionale, attorno al 19%, con un crescita di circa 6 punti (corrispondenti a 3 milioni di voti in più). Il PCFR presenta al suo interno differenza ideologiche e idee diverse su come confrontarsi con il potere. In qualche caso si sceglie un profilo basso, in altri una posizione più aggressivamente critica. Anche in relazione al movimento di Navalny (molto enfatizzato all’estero, ma probabilmente dall’influenza circoscritta all’interno) le posizioni del PCFR sono state ambivalenti.
Nel partito prevale la corrente definibile come “social-patriottica” che si riconosce nel leader del partito Gennady Ziuganov, ma in queste elezioni è riuscito a presentare candidati di diverso orientamento sia aderenti al partito che indipendenti. Il partito si trova in una condizione nella quale resta un riferimento importante per settori significativi di società (non solo “nostalgici” del sistema precedente) ma non riesce pienamente ad essere portatore di un progetto alternativo credibile.
Si è dato molto spazio sulla stampa italiana ad una possibile influenza delle indicazioni di voto del gruppo di Navalny sulla crescita elettorale dei comunisti. Va detto che i suggerimenti dell’oppositore attualmente imprigionato si rivolgevano alla votazione della metà degli eletti alla Duma per i quali si applica il sistema maggioritario. Solo in quella parte era possibile un voto differenziato collegio per collegio. La lista diffusa del movimento di Navalny comprendeva sia candidati del Partito Comunista che del Partito Liberal Democratico (estrema destra), di Yabloko (liberali) e di altre formazioni. E’ possibile che questa operazione di Smart Vote abbia avuto una certa influenza in una realtà metropolitana come Mosca, dove effettivamente molti candidati comunisti si sono trovati in testa allo scrutinio, per essere poi sopravanzati dagli esponenti di Russia Unita grazie all’aggiunta del voto elettronico (arrivato quando i dati del voto non virtuale erano già noti). Meno probabile che abbia pesato in quei tre milioni di suffragi in più arrivati ai comunisti nella votazione proporzionale.
Per la Russia la vera partita inizierà quando il ruolo di Putin arriverà a scadenza e in quel caso forse i comunisti dovranno presentarsi all’appuntamento con un nuovo leader e un progetto politico quanto meno aggiornato.