«Ogni giorno si combatte una guerra in ogni luogo di lavoro dove da una parte ci sono lavoro, salute, diritti, futuro e dall’altra parte ci sono precarietà, produzione ad ogni costo, massimo profitto, ricatto occupazionale, sicurezza sul lavoro non rispettata. In questa guerra lo Stato nella forma di controlli sul rispetto delle normative di sicurezza, i sindacati nella formazione ed organizzazione dei lavoratori e lavoratrici dovrebbero essere sempre chiaramente schierati con la parte debole, quella che cerca di costruire un futuro dignitoso per se per la propria vita e per i propri figli. Dovrebbero tutelare chi lavora e non chi ricerca il massimo profitto. In evidenza nella tragedia sul lavoro accaduta a Montemurlo dove è morta una giovane mamma di 23 anni non è andata così.
Di chi sia la colpa non lo sappiamo, lo accerterà la magistratura ma quello che sappiamo è che qualcosa non ha proprio funzionato e tutti i soggetti in campo devono sentirsi responsabili ed interrogarsi su questa immane tragedia». Con questo testo breve e intenso, i compagni e le compagne di Rifondazione, della provincia di Prato, hanno voluto a loro modo rendere omaggio all’ennesima vittima dell’insicurezza sul lavoro che tanto scalpore emotivo sta facendo emergere nel Paese, anche fra i media mainstream, di solito abili nel rimuovere la strage continua determinata da questi che, a vario titolo, vanno classificati come omicidi.
Ed è terribile che a rendere “notiziabile” questa tragedia abbiano influito la giovane età della vittima, il sorriso delle foto diffuse, che sia servito un giovane volto strappato oscenamente alla vita per scoprire quello che, per chi lavora o si occupa a diverso titolo di lavoro, è la quotidianità.
Basti pensare al 29 aprile, due giorni prima la “festa del lavoro”: deposito Amazon di Alessandria, cade una trave nel deposito, bilancio 1 morto e 5 feriti; Montebelluna, Treviso, un operaio di 23 anni, muore perché investito da una impalcatura. Stesso giorno a Taranto, un gruista di 49 anni muore precipitando da una banchina. Silenzio. Secondo il rapporto trimestrale dell’Inail, le morti denunciate sul posto di lavoro per infortunio, sono state, al 31 marzo, 185. L’anno precedente, stesso periodo, erano state 166. La fuoriuscita dalla crisi si traduce in una crescita dei morti sul lavoro, dell’11,4%. È diminuito il numero di chi muore “in itinere”, (andando al lavoro) è aumentato quello di chi ha perso la vita durante il turno. Un aumento che, al di là di differenze geografiche e dei singoli comparti, colpisce uomini e donne, diminuiscono quelle di lavoratori e lavoratrici stranieri, perché sono quelli che più hanno risentito del calo occupazionale, aumenta il numero degli over 50 (da 52 a 70 casi) e raddoppia quello di chi ha un’età compresa fra i 60 e i 69 anni, (da 19 a 38) con buona pace degli emuli della ex ministra Fornero.
Nel 2020, nonostante il lockdown si era giunti, bilancio annuale, a superare le 2000 vittime e l’Inail ha conteggiato anche chi ha contratto il covid al lavoro. Da marzo 2020 a marzo 2021, 551 vittime, questo per chi si indignava ad ogni ipotesi di stop alla produzione.
Sono 165.528 le denunce di infortunio sul lavoro da Covid-19 segnalate all’Inail dall’inizio della pandemia al 31 marzo 2021, un quarto del totale delle denunce di infortunio pervenute all’Istituto e il 4,6% di tutti i contagiati comunicati dall’Iss alla stessa data. Ma quante saranno state le persone che non hanno denunciato all’Inail di essersi ammalate al lavoro?
Il Covid ha certamente influito nella crescita in questo periodo nel numero delle vittime ma se si prendono in esame i 5 anni pregressi ci si accorge che c’è quasi una continuità nel tempo per cui, indipendentemente dalle mansioni, dalla crescita di nuovi sistemi di sicurezza sul lavoro, dall’automazione che aumenta come lo smart working, c’è sempre, costante, un prezzo di sangue da pagare al profitto. E dietro le vittime c’è un esercito di infortunate/i più o meno gravi, che supera sempre le 65 mila unità. Quasi un tributo dovuto e “normale” che fa notizia solo nelle famiglie colpite e che a volte non porta neanche al giusto risarcimento.
Le ragioni? La fretta imposta non più dai vecchi capireparto ma dal timore di perdere una commessa e con questa il posto di lavoro, l’assenza di controlli da parte del poco personale dell’ispettorato preposto, la perenne carenza di sistemi di sicurezza che magari costano, determinano un rallentamento della produttività, ma non espongono a rischi, il non rispetto delle tante normative che pure esistono per tutelare salute e sicurezza nel luogo di lavoro.
Certo oggi questi luoghi si sono polverizzati, non esistono quasi più i grandi concentramenti produttivi ma trionfa la logica del capannone e della fabbrichetta invisibili tanto ai sindacati quanto a chi è preposto ai controlli. Oggi ribellarsi è più difficile, si è tornati a condizioni ottocentesche per cui chi rompe troppo le scatole viene marginalizzato a volte anche dagli stessi colleghi. Sfugge ad ogni radar quel mondo, come quello in cui è morta la giovane Luana, in cui, secondo le prime indagini, un macchinario, un orditorio modernissimo, in cui ci sono cellule fotoelettriche che lo disattivano nel caso che il lavoratore resti impigliato, non sono entrate in funzione, forse a causa di una “saracinesca” che risultava aperta.
Ma di persone come lei, più giovani e più anziane, uomini e donne, è pieno il Paese e anzi, che almeno da noi l’Inail fornisce dati e statistiche ex post che in altri paesi europei non sono contemplati. Volti e storie prive di identità, come gli uomini e le donne che affogano nel Mediterraneo, la cui vita conta meno e la cui identità la cui storia resta relegata nell’ambito privato delle persone vicine. Sono un problema del calcolo fra costi e benefici. Se mettere in sicurezza una fabbrica costa troppo, se rallenta troppo la produzione, se fa perdere potere in un mercato basato sulla concorrenza spietata allora cosa conta una vita spezzata?
Passata l’ondata emotiva si tornerà a fare la conta quotidiana delle e degli invisibili, vincerà il meccanismo dell’indifferenza e della rimozione perché la vita, come la produzione e il consumo debbono continuare.
O forse sarà possibile invertire la rotta e dare veramente senso alla frase reiterata “Mai più?”
Dipende dagli attori politici, economici e sindacali, dipende da una cultura che deve rimettere al centro il valore della vita, con cui abbiamo dovuto fare i conti nella pandemia, anche al di fuori da questa, considerando morti come questa e come le tante senza nome ne volto, non come un incidente, una “morte bianca”, ma, appunto un omicidio i cui responsabili vanno ricercati non solo fra i titolari di una impresa ma ripercorrendo l’intera catena produttiva.
È possibile? Se vogliamo avere una sinistra degna di questo nome è semplicemente necessario, non possibile.
Venerdì mattina, le colleghe e i colleghi di Luana, saranno in sciopero per la sicurezza sul lavoro e terranno un presidio in Piazza delle Carceri a Prato.
Un tempo non lontano una morte simile non si limitava a riempire di lacrime le pagine dei social e dei giornali, portava le persone fuori, in piazza e in strada. Quando avveniva, miglioramenti nelle condizioni di lavoro si ottenevano. Ci vorrebbe la voce forte e senza mediazioni di sindacati e forze politiche che intendano rappresentare veramente, anche accettando lo scontro, chi lavora.
E se fosse anche questa la strada da riprendere?