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Antica adulazione e antica contestazione

di Maria
Pellegrini

di Maria Pellegrini –

Gli scrittori dell’età antiche, soprattutto i poeti latini, più vicini a noi dei greci, sono vissuti volentieri all’ombra del Potere. Del resto era inevitabile che fosse così. L’attività dello scrittore e del poeta (eccettuati pochi casi privilegiati) non ha avuto nel passato altro mezzo di sostentamento o di promozione che la protezione dei potenti. Quindi essi hanno sempre cercato, per ragioni economiche e di prestigio, la benevolenza dei potenti. E, a loro volta, i potenti di ogni livello – ma soprattutto quelli al vertice della piramide statale – si sono spesso compiaciuti di avere intorno scrittori e poeti che elogiassero i loro meriti, talora ipotetici, e la nobiltà del loro casato. Il mecenatismo non era un fatto estetico o sentimentale, ma politico ed economico.

Esempio di tale rapporto, in un certo senso eticamente discutibile, è quasi tutta la storia delle lettere, delle classi e delle istituzioni latine. Ciò è reso ancora più evidente dalla conoscenza dell’estrazione sociale della maggior parte degli scrittori che, prima o poi, provenienti da comunità, municipi e poi province sempre più lontane, raggiungevano Roma e vi si insediavano stabilmente cercando appoggi che rendessero meno difficile la loro nuova condizione: spesso si trattava di media o piccola borghesia contadina, come nel caso di Virgilio, o microcommerciale e semiproletaria, come nel caso di Orazio, tanto per fare due esempi illustri; mentre i potenti erano quasi sempre degli aristocratici, o degli antichi plebei arricchiti e divenuti poi il nerbo della nuova “nobiltà plebea” entrata nel Senato. Ma nella storia di Roma e nella spregiudicatezza delle sue conquiste, e nella ancora più agghiacciante vicenda delle guerre civili e delle proscrizioni del I secolo a. C., si verificarono anche casi di sovrapposizione dei due ruoli, cioè l’azione politica e l’opera letteraria riassunte in un’unica persona in figure di potenti che furono anche scrittori di alto rango quali Catone, Cicerone, Cesare, lo stesso Augusto, Seneca e, in seguito, Marco Aurelio.

Quelli che sembrano i più liberi degli scrittori latini, Catullo e Lucrezio, sentono anch’essi il bisogno di ingraziarsi un “potente”, alla cui ombra affidano la protezione della propria persona o della propria opera. Il Liber dei carmi catulliani è dedicato a Cornelio Nepote, non uomo politico, ma influente scrittore amico di Cicerone e dell’editore Pomponio Attico; il poema lucreziano, De rerum natura, è dedicato al pretore e poi governatore della provincia di Bitinia, nonché ambizioso e in fondo mediocre carrierista Lucio Memmio. Ma, sin dall’età arcaica, Livio Andronico era un ex schiavo liberato nell’ambito della gens Livia. Il padre della letteratura latina, Ennio, autore di un poema epico – di cui resta solo una piccola parte di frammenti – che celebrava la storia di Roma dalle origini fino ai suoi tempi, era stato condotto a Roma e all’inizio protetto dall’accigliato e potente Catone il Censore; invece il peta Nevio, autore di un poema epico e di numerose commedie, di cui restano scarsi frammenti, aveva osato sfidare la potente famiglia dei Metelli senza avere protettori ed era stato anche incarcerato e infine esiliato; Terenzio, autore di commedie, e Lucilio il padre della satira, operavano con tranquillità protetti dal clan degli Scipioni; Sallustio godeva dell’appoggio personale di Cesare; Cicerone si barcamenava ad altissimo livello; Cesare e Augusto ovviamente bastavano a se stessi; i poeti Orazio, Virgilio, Properzio e Ovidio furono protetti da Mecenate; il poeta Tibullo da Messalla; lo storico Livio, pompeiano, si convertì e divenne precettore dei ragazzi della corte augustea; Lucano, autore del poema Farsaglia, era un brillante cortigiano di Nerone, di cui all’inizio della sua opera scrisse un vero e proprio panegirico, ma poi condannato a morte per aver partecipato alla congiura contro di lui; il filosofo e poeta Seneca, prima inviso a Caligola e Claudio, riuscì a conquistarsi le simpatie di Agrippina, madre di Nerone, che egli ricambiò collaborando con lo spietato matricidio compiuto dal figlio, poi anche lui costretto al suicidio perché fu tra i congiurati che tentarono di uccidere l’imperatore; il poeta Stazio, scrisse versi encomiastici per Domiziano; l’apocalittico Giovenale, nemico di tutti, in realtà scrisse versi che elogiavano la munificenza e il mecenatismo d’un imprecisato imperatore, presumibilmente Nerone; l’epigrammista Marziale cercò d’ingraziarsi con opportuni versi le simpatie di Domiziano; il cupo storico Tacito, pur sapendo di non poter risuscitare l’antica repubblica, e odiando gli imperatori, ma anche ritenendo dei pericolosi illusi i “martiri del regime”, percorse tuttavia una non spregevole carriera politica protetto da prìncipi che egli segretamente disprezzava; Plinio il Giovane scrisse il famoso Panegirico di Traiano; Svetonio fu addirittura segretario e bibliotecario-archivista del Palazzo traianeo e poi adrianeo. Non si hanno invero notizie politicamente allarmanti di piaggeria soltanto su pochi autori: Plauto, Persio, e, malgrado la sua lunga e apprezzata presenza nel Palazzo neroniano, Petronio, autore del primo romanzo latino il Satyricon, personalità di eccelso livello con il suo aristocratico distacco e disincanto.

È pur vero che il poema lucreziano, a parte la sua opportunistica dedica a Memmio, ebbe un effetto corrosivo sui pilastri della tradizione quiritaria, e che la poesia di Catullo fu anch’essa un reagente sovvertitore della moralità e del moralismo tradizionalista. Ma né Lucrezio né Catullo possono essere considerati dei contestatori politici, giacché essi, come persone, dalla politica energicamente e programmaticamente rifuggivano. Come per le ragioni anzidette né Giovenale, né Marziale, né Tacito possono essere considerati dei ribelli, e se proprio li si volesse considerare tali, li si dovrebbe ritenere dei ribelli alla rovescia, cioè dei nostalgici delle virtù del passato.

Se poi gli storici Sallustio, Pompeo Trogo, Tacito, smascherano la brutalità dell’imperialismo romano, lo fanno diplomaticamente attraverso gli anatemi di personaggi ostili a Roma: così la famosa lettera di Mitridate riportata nelle Storie di Sallustio – ripresa poi da Pompeo Trogo -, e la violenta frase proverbiale «Fanno il deserto, e lo chiamano pace» (nell’Agricola di Tacito).

Sulla qualità dei testi dovuti a questa collaborazione fra scrittori e potentati (che a volte poteva essere invece competizione per ragioni ideali, o di orientamento politico), c’è molto da discutere. C’è certo un abisso fra la qualità dell’Eneide, “poema augusteo” di Virgilio, e quella della storiografia di Velleio Patercolo, tutta incentrata sulle figure di Tiberio e di Seiano, il potente prefetto delle coorti pretoriane; e fra l’ispirazione dei Carmi filoaugustei di Orazio e quella delle Selve di Stazio, che iniziano con un solenne elogio di Domiziano, terzo e ultimo imperatore della dinastia Flavia. Queste e altre situazioni di palese cortigianeria, o di segreta opposizione, sono caratterizzate da risultati molto diversi di qualità letteraria.

Può dunque sembrare un paradosso, ma è al contrario una realtà sempre più emergente (sostenuta del resto da uno studioso di altissimo rango qual è Antonio La Penna) che l’unico vero contestatore globale della letteratura è uno scrittore di favole di ispirazione esopica, un ex-schiavo originario della Tracia, quel Fedro che ottenuta la libertà sotto Augusto, incorse nell’ira di Seiano, il potente capo dei pretoriani che ravvisò in quelle poesiole apparentemente ingenue sui costumi e le vicende degli animali una disamina impietosa dei vizi morali e politici dell’intera società imperiale. La accattivante metafora animalesca in Fedro è solo un velo trasparente che invece di coprire svela ancora più chiaramente le brutture di un mondo dominato dalla prepotenza, dall’ingiustizia, dal bieco clientelismo, dalla vergogna schiavista. Del resto sta scritto a chiare lettere: Fabula de te narratur, «La favola narra di te», non dunque dell’animale di turno, ma della belva-uomo.

E oggi? Il rapporto fra scrittore e Potere si è fatto apparentemente meno stretto, in nome della “libertà dell’artista”. Ma esso esiste sempre, con mediazioni più sottili, occulte, e spesso nelle sfere più basse del Potere: le segreterie ministeriali, i presidenti di premi letterari, i consulenti delle case editrici, le amicizie personali. È opportuno che lo scrittore riprenda a sentire la “sacralità” del proprio lavoro, ma uscendo prima dalle clientele e tuffandosi nella vita, per riprendere fecondo contatto con essa, e poi rinchiudersi nel proprio studio a cercare le radici più profonde e solide della sua ispirazione, se essa davvero c’è.

Il manifesto di questa “conversione” potrebbe diventare la lettera di Machiavelli all’amico Francesco Vettori, ambasciatore a Roma: Machiavelli, non lontano da San Casciano a Val di Pesa, si dedicava all’amministrazione del proprio podere e leggeva classici, andava all’osteria ove partecipava a giochi a carte e liti sui passanti; poi, a sera, si chiudeva nel suo studio, vestiva “panni reali e curiali”, scriveva e leggeva i padri antichi e “tutto si trasferiva in loro”. Senza illudersi di essere libero dai condizionamenti del Potere, egli doveva sapere, come noi credo, che la vera libertà dell’artista è l’alta qualità della sua opera. Schiavitù è l’opera mediocre e tutte le basse azioni necessarie a procurarle ugualmente consenso.

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