Nell’articolo della scorsa settimana, prendendo le mosse da un intervento di Salvatore Cannavò a commento del film di Nanni Moretti, ho ripreso alcune riflessioni di Pietro Ingrao, sviluppate in momenti diversi, sulla posizione assunta dal PCI relativamente agli eventi del 1956 e in particolare all’invasione sovietica dell’Ungheria.
Mi interessava ora valutare come, in sede retrospettiva, due autori ed esponenti politici diversi, per biografia e riferimenti politico-intellettuali, hanno considerato gli stessi eventi.
Magri e il “sarto di Ulm”
Nel caso di Lucio Magri, esponente del PCI poi del gruppo del Manifesto e del PDUP e infine rientrato nel PCI, il testo fondamentale di riflessione e rivisitazione storica è ovviamente “Il sarto di Ulm”. Per Magri, a differenza di Ingrao che in quell’anno era direttore dell’Unità e quindi dovette assumere difficili posizioni politiche, il 1956 poteva essere considerato come un fatto storico su cui ragionare, piuttosto che un momento anche autobiografico col quale misurarsi.
Magri affronta il tema “Ungheria” in due parti diverse del libro. Da un lato ricostruisce gli eventi collegandoli alla destalinizzazione avviata con il XX Congresso del PCUS. Partendo dalla considerazione di come si erano formati i regimi dell’est, quando “la spada del Cominform, nel 1948, aveva di colpo liquidato il tentativo di costruzione graduale di una società socialista nella forma originale delle “democrazie popolari”, che poteva includere il multipartitismo e l’economia a due settori, cosicché le differenze risultavano, anziché ridotte, brutalmente cancellate. Tutti erano stati integrati, nella politica estera e nella struttura economica, entro il sistema sovietico.”
Su questo contesto pesò lo choc prodotto dal XX Congresso e dal rapporto segreto di Chruscev dal quale non poteva non scaturire una legittima richiesta di riforme profonde, “soddisfarla, restaurando di colpo la situazione precedente, non solo era difficile, ma probabilmente, nel concreto, avrebbe portato alla restaurazione di regimi precedenti alla guerra, e alla loro integrazione nel blocco economico e militare atlantico. Il vertice sovietico non seppe e forse non volle cercare una soluzione intermedia e governarla; i governi locali, oltre a sentirsi bersaglio obbligato di qualsiasi rinnovamento, erano frastornati dal XX congresso. Una svolta poteva partire solo da una protesta dal basso, spontanea, priva di leader e di programmi definiti.”
Ricostruiti sommariamente gli eventi fino alle ultime decisioni di Imre Nagy, capo del governo ungherese, mentre la rivolta “cambiava i propri obbiettivi e i propri dirigenti”, per Magri “si aprì un dilemma, ben oltre il punto di partenza, e drammatico. Lasciare l’Ungheria al suo destino, ormai quello, rivolto a Occidente, con forte probabilità che l’imitassero altri stati consimili, come la Slovacchia e la Romania, o invaderla pagando un prezzo ancora più pesante? La seconda scelta guadagnava terreno, ma non ancora compiuta alle due e mezzo del 30 ottobre; alle quattro venne l’annuncio dell’occupazione anglo-franco-israeliana del canale di Suez.
A questo punto la partita cambiava regole e posta. Non era più in gioco l’Ungheria, ma l’intero equilibrio mondiale, il vincitore o il vinto della “nuova guerra fredda”, il rovesciamento di Chruscev. E infatti, consultati o di loro iniziativa, tutti i paesi comunisti, Cina e Jugoslavia comprese chiedevano una soluzione drastica. E drastica fu: contro una resistenza disperata che gli americani, dopo averla invocata, si guardavano bene dal sostenere e che si concluse con un migliaio di morti, ungheresi ma non solo. Inglesi, francesi, israeliani furono convinti presto a tornarsene a casa da Suez.
Quel finale era obbligato? Al contrario: fu la conclusione inevitabile di una serie di errori colossali dei comunisti, sia a Budapest sia a Mosca, e di contrapposte ipocrisie. La mia tesi (come atti successivi avrebbero confermato) è che la vicenda ungherese del ’56 segna una tragica e costosa battuta di arresto, ma non la fine di una tendenza alla distensione, che sarebbe durata. La Polonia ne definisce meglio il valore e il limite, infatti Kadar, che ne assunse a Budapest la dura eredità, si mosse sostanzialmente per anni più o meno come Gomulka.”
Nel capitolo successivo del libro, Magri valuta il modo in cui il PCI reagì a quella vicenda. Prende in considerazione l’idea, largamente circolata, secondo la quale fu quella “la grande occasione che allora, rifiutando una rottura con l’Urss, il Pci perse per sbloccare la democrazia italiana, evitare la perenne conventio ad excludendum, formare una grande forza socialdemocratica capace di sottrarre il governo del paese al monopolio democristiano.”
Una tesi sostenuta, fra i tanti, da Italo Calvino nel 1980, in una intervista a Scalfari, basata sulla convinzione che il problema del PCI fosse di farsi “legittimare” come forza di governo. E che questa “legittimazione” sarebbe potuta avvenire già nel 1956.
Magri si dichiara “del tutto in dissenso con questa posizione, anzi la considero dirimente nella ricostruzione della storia del Pci e della politica italiana”. Anche se ritiene che di fronte alle rivolte in Europa orientale i comunisti, “Togliatti compreso, abbiano capito poco, assunto posizioni sbagliate e mal motivate, e abbiano subìto perciò conseguenze negative rilevanti”.
Si trattava secondo l’autore del “Sarto di Ulm” di lavorare per “una soluzione con strumenti politici e non militari, occorreva un aiuto esterno, pagando anche un prezzo da entrambe le parti, ma evitando una ripresa della guerra fredda o una sua pessima conclusione”.
“Il Pci, – scrive Magri – e in generale l’opinione di sinistra italiana, non capì e non seguì questa dinamica, né tanto meno intervenne per favorire una soluzione. Sbagliò Di Vittorio a leggere, già il 25 ottobre, la prima presenza militare sovietica a Budapest come una repressione e nel vedere solo come protesta che cominciava già ad assumere i caratteri di un’ingestibile jacquerie; e sbagliò Togliatti classificando dall’inizio la protesta come una controrivoluzione in atto, facendo di ogni erba un fascio. Quando poi ogni possibilità fu bruciata e Chruscev, sollecitato da tutti i partiti comunisti, decise la vera invasione, il Pci lo sostenne.”
Quindi una serie di errori ma Magri pone una delle questioni cruciali e fornisce la sua risposta:
“doveva invece proprio in quel momento rompere con l’Urss, disertare il campo comunista mondiale ormai degenerato? Già allora pensai di no e rimango di tale parere per una serie di ragioni. Più altre tre della cui importanza solo più tardi mi sono accorto.”
Provando a sintetizzare il ragionamento le tre ragioni sono queste:
- “La rottura di un legame, su cui il Pci si era costruito, fatta nel momento in cui l’Urss aveva già avviato un rinnovamento e il campo a esso collegato mostrava corposi successi (una tendenza che i fatti di Ungheria non avevano interrotto e sarebbe continuata per anni), sarebbe risultata non solo incompresa ma inaccettabile per la grande maggioranza dei quadri, dei militanti e degli elettori comunisti. Sicuramente ne sarebbe seguita una lotta e una dissoluzione del Pci. Forse ne sarebbe sorto un altro più duro, minoritario, certo legato all’Urss, e ci sarebbe stata una modesta scissione a destra, orientata a confluire nel Psi.”
- “Già all’inizio del 1957 il gruppo dirigente sovietico si divise. Non era solo uno strascico del Rapporto segreto, ma una divaricazione politica generale connessa alle riforme da introdurre, ai fatti intervenuti nell’Europa orientale, alla versione che si dava della coesistenza pacifica. Ancor più che di divisioni, sapemmo dopo, si trattava di una rottura inconciliabile. (…) Se l’Ungheria fosse stata lasciata alla sua deriva, o addirittura avesse proposto crisi analoghe in paesi limitrofi, l’esito di quello scontro a Mosca era già prevedibile e si sarebbe concluso in modo opposto”, ovvero con la vittoria di chi era ostile alla destalinizzazione.
- Questa conclusione “sarebbe stata un bene per i comunisti e per tutti? Pur avendo indicato tutti i limiti del chruscevismo, e la parabola cui era destinato, credo proprio di no”.
Facendo riferimento alle tesi che si sono affermate nel processo di scioglimento del Pci e di formazione del Pds, secondo le quali sarebbe stato meglio se quel partito avesse avuto un’evoluzione più rapida verso la socialdemocrazia e poi la liberaldemocrazia, Magri riafferma il proprio dissenso:
“Dire che lo strappo, il mutamento di identità e di campo, andava compiuto nel 1956 mi pare del tutto insensato, un’autocritica poco riflettuta, dettata da un bisogno di togliersi dalle spalle il peso di una speranza delusa, o di una responsabilità oggi infamante.”
In sostanza, il punto di vista di Magri è che il Pci commise un errore nel non cercare di favorire più direttamente una soluzione politica anziché militare del conflitto ungherese, ma non a evitare la rottura con l’Unione Sovietica in quel contesto.
Un’alternativa trotskista?
Livio Maitan è stato per tutto il dopoguerra e fino alla sua scomparsa il maggiore esponente della corrente trotskista in Italia. Anche se la stessa corrente è stata sempre attraversata da divisioni e conflitti che permangono tutt’ora considerato che sono presenti al momento in Italia non meno di undici gruppi e organizzazioni rivali (Sinistra Critica, Communia Network che a Maitan si richiamano, Partito Comunista dei Lavoratori, Partito d’Alternativa Comunista, Sinistra Classe Rivoluzione, Frazione Internazionalista Rivoluzionaria, Resistenze Internazionali, Gruppo operaio “L’Internazionale”, Organizzazione Socialista Internazionalista, Nucleo Internazionalista d’Italia, Lega Trotskista d’Italia). Tutte queste formazioni, alcune costituite da piccolissimi gruppi di militanti, fanno capo ad altrettante tendenze internazionali. Ma ve ne sono almeno un’altra quindicina che non hanno una loro “sezione” nel nostro Paese. Una frammentazione che segnala come di per sé il richiamo a Trotski non indica una determinata strategia politica. Su moltissime questioni le varie tendenze che pur si richiamano ad un’unica ispirazione assumono posizioni politiche non solo differenti ma anche opposte (come è il caso ad esempio, per restare all’attualità, della guerra in Ucraina).
Il punto di vista e il ruolo di Maitan nel 1956 è ricostruito nella sua autobiografia “La strada percorsa”. Esprimendo una valutazione ampiamente condivisa, scrive: “Forse quanti ripercorrono a decenni di distanza gli avvenimenti di quel periodo, e a maggior ragione coloro che li ripercorreranno in futuro, avranno difficoltà a capire l’enorme sorpresa e l’enorme smarrimento provocati nelle file di tanta parte del movimento operaio dalle denunce di Chruscev e dagli avvenimenti di Polonia e di Ungheria”.
I Gruppi Comunisti Rivoluzionari, “la modesta organizzazione che avevamo costruito nel corso di sette anni non era impreparata alla prospettiva di una crisi dello stalinismo”. Eppure di fronte all’esito del XX Congresso del PCUS, “vivemmo, c’è appena bisogno di dirlo, settimane di vera e propria euforia intellettuale e morale e di grande impegno per sfruttare un’occasione tanto favorevole a riflessioni critiche”.
Per i GCR, pur non arrivando alla “conclusione che stesse per scomparire la diversità tra i partiti comunisti di ispirazione staliniana e le socialdemocrazie. Resta tuttavia che il Pci era ormai entrato in un processo che lo avrebbe portato a mutare natura. Un processo che sarebbe stato lungo e contrastato, ma di cui il 1956 avrebbe costituito un punto di partenza”. Non a caso un precedente testo di bilancio storico del passaggio dal Pci al Pds era stato intitolato da Maitan “Al termine di una lunga marcia”.
Per quanto riguarda la politica del Pci una delle principali preoccupazioni del dirigente trotskista, in questo come in altri testi è di contestare “coloro che hanno presentato o continuano a presentare Togliatti sotto una luce favorevole, come un dirigente politico e uomo di cultura che avrebbe dato un contributo di prim’ordine alla critica dello stalinismo”. Quelle di Togliatti, nel corso del 1956, furono “operazioni gattopardesche”. Per quanto riguarda la “dinamica di presa di distanze nei confronti dell’Urss e del suo partito-guida” questa era nel Togliatti del 1956 una “indicazione anticipatrice” della “strada della trasformazione in un partito socialdemocratico”, pur senza “che si arrivasse a cancellare le differenze tra il Pci e i partiti della socialdemocrazia”. C’è in questi giudizi, che in genere l’estrema sinistra, non solo trotskista, fatica a superare anche in sede storica, una sostanziale incomprensione, sia della logica di fondo nella quale si muove Togliatti, che è quella del leader, di una grande forza politica con una base di massa, sia della ricerca di un’alternativa non socialdemocratica e di classe alla crisi del modello staliniano.
Secondo la lettura trotzkista degli avvenimenti ungheresi, espressa da una citazione dell’epoca, si era “dinnanzi ad uno degli episodi più grandiosi della storia contemporanea, dinnanzi ad un episodio che rivela nel modo più luminoso le inestimabili qualità del proletariato, che conferma la pienezza del suo ruolo rivoluzionario, che scopre un tesoro di inesauribili energie, vergogna a coloro che si comportano come filistei impauriti.” Ai “compagni ungheresi” si garantisce di “lottare strenuamente perché coloro che la rifiutano (ndr: la solidarietà), coloro che mentono e che calunniano, espiino, sino in fondo, prima o poi il loro ignobile crimine.”
Commentando questa citazione a distanza di anni, Maitan scriveva: “A posteriori si potrà forse pensare che un più che legittimo sentimento di solidarietà ci suggeriva valutazioni troppo ottimistiche sul movimento nel suo insieme e sulle sue potenzialità future. Ciò non toglie, ripetiamolo, che per gli aspetti essenziali le analisi coglievano nel segno.”
Al di là dei giudizi politici del tempo e successivi, dalla autobiografia di Maitan si possono trarre alcune indicazione su come si mossero i trotskisti italiani in quei mesi. Da alcuni anni, sulla base di una decisione dell’organizzazione internazionale (che fu una delle ragioni per la sua spaccatura in due tronconi contrapposti), avevano avviato una forma di entrismo definito “sui generis” che in Italia si concretizzava nell’adesione al PCI. A fianco dell’inserimento nel Partito Comunista continuava però ad operare un gruppo che manteneva in piedi pubblicamente un’organizzazione indipendente e la relativa stampa (e questa era la ragione del “sui generis”).
Anche Maitan, che non era iscritto al PCI ma era la principale figura pubblica dei GCR, “nelle settimane più calde – politicamente parlando, perché dal punto di vista meteorologico la fine dell’inverno era molto fredda, con nevicate nella stessa capitale – chi scrive, spesso con la sua compagna di allora, Anna Maria Satta, passava una sera dopo l’altra in sedi del Pci, partecipando a dibattiti che si protraevano non di rado sino alle prime ora del mattino, con aggiornamenti nei giorni successivi.” Il dirigente trotskista aggiunge che “benché non fossi affatto reticente sulla mia identità politica, non ricordo un solo episodio di intolleranza, neppure da quanti rimpiangevano i giorni felici del monolitismo. Di solito, alla sorpresa per la comparsa di un animale politico di una specie sconosciuta, seguiva un visibile interesse per le ricostruzioni storiche e le valutazioni dei nostri interventi.”
Sui rapporti tra trotskisti e Pci, Maitan racconta un altro aneddoto che vale la pena di riportare: “Nel gennaio 1958 l’Istituto Gramsci organizzava un Convegno di studi gramsciani, con relazioni di Eugenio Garin, Palmiro Togliatti, Cesare Luporini e Roberto Cessi. Chi scrive vi prendeva parte come corrispondente del giornale (ndr: “Bandiera Rossa”) e, a questo titolo, chiedeva di poter prendere la parola sulla relazione di Togliatti. La richiesta suscitava palese incertezza tra i membri della presidenza, che rinviavano la risposta. (…) La soluzione era presto trovata: si rinviavano subito i dibattiti alle commissioni e mi si comunicava che avrei potuto assistere alla commissione presieduta da Togliatti. Non era l’assemblea plenaria, ma si trattava della commissione più importante, cui avrebbero partecipato una cinquantina di persone, tra cui il direttore dell’Istituto moscovita per il marxismo-leninismo, G. D. Obicki, e il dirigente comunista jugoslavo Boris Ziherl. (…) Quando Togliatti prendeva posto alla presidenza notavo subito che aveva sul tavolo il mio saggio su Gramsci pubblicato da Schwarz. Mi pareva un’indicazione chiara che mi avrebbe fatto parlare. Effettivamente Togliatti chiedeva subito se qualcuno volesse la parola. Silenzio, anche dopo un secondo invito. Decidevo quindi di fare il passo: la parola mi veniva subito data e potevo svolgere il mio intervento sino in fondo tra l’attenzione generale. Avevo già abbozzato un intervento sui giudizi di Gramsci su Trotsky e mi sentii tanto più autorizzato a farlo in quanto Togliatti vi aveva fatto riferimento, sia nel testo scritto sia nella relazione orale. (…) Alla fine Togliatti pronunciava una frase che in un convegno accademico sarebbe stata una pura formalità, ma in quella sede e nei miei confronti aveva un valore più pregnante: “Non posso che ringraziare Livio Maitan per il suo intervento. Tutti sanno che per noi il consenso e il dissenso sono elementi, in convegni come questo, di approfondimento delle questioni per il raggiungimento più agevole della verità” (dal resoconto dattiloscritto).”
In quei mesi i GCR registrano un certo afflusso di nuovi militanti che consentono di trasformare il giornale “Bandiera Rossa” in quindicinale e di aprire una sede a Roma. Maitan non quantifica numericamente questa crescita dell’organizzazione che comunque non deve avere superato qualche decina di nuovi aderenti, dato che ancora a metà degli anni ’60 i “Gruppi” non contavano più di 200 militanti. Tra questi a Roma i GCR “riuscivano a mettere radici e a reclutare nelle file del Partito comunista, in ambienti che potremmo definire pasoliniani, in borgate come il Tufello – dove aveva aderito il segretario della sezione del Pci, Alvaro Gorini”, di cui però non dice se continuò a svolgere la stessa funzione politica nel Pci anche da militante trotskista. Certamente la sua scelta appare meno drammatica dell’idea di suicidarsi dell’immaginario segretario di sezione del film di Nanni Moretti.
Ma la principale iniziativa politica di quei mesi, che trovò il suo momento di maggior successo in un’assemblea tenuta a Milano il 16 dicembre, subito dopo l’VIII Congresso del Pci, fu il tentativo di costituire un cartello, piuttosto eterogeneo, di formazioni che si collocavano alla sinistra del PCI. Oltre ai trotskisti ne facevano parte “Azione Comunista”, guidata da Giulio Seniga (e finanziata coi fondi che aveva sottratto al Pci e portato in Svizzera), che si rivolgeva soprattutto a quei militanti che si rifacevano alle posizioni di Secchia, la Federazione comunista libertaria (in origine anarchica da essa emergeranno alcuni dei futuri leader di “Lotta Comunista”), il Partito comunista internazionalista di Onorato Damen, entrato in conflitto e divisosi qualche anno prima dalla componente fedele ad Amadeo Bordiga.
Anche “Azione Comunista” prende posizione a favore degli insorti ungheresi pur “mettendo in guardia i compagni, del possibile sbandamento di tali avvenimenti su posizioni nazionaliste e anticomuniste che intaccherebbero ulteriormente il fronte internazionale dei lavoratori a tutto vantaggio delle forze capitalistiche reazionarie.” Ma, come rileva Giorgio Amico, autore di una storia del gruppo, “ponendo attenzione a non citare mai Stalin o il XX Congresso”. Altri autori, non favorevoli al Pci, come Arturo Peregalli o Giorgio Galli, che a quel tempo collaborava strettamente con Seniga, hanno rilevato, il primo come “il movimento, solidarizzando con gli operai che si mettono contro i carri armati russi, perde molte delle simpatie che aveva guadagnato precedentemente presso i militanti stalinisti di base”, e il secondo che “perde agli occhi di molti militanti – che identificano la brutalità sovietica con la violenza rivoluzionaria – le simpatie di chi era attratto dalle sue posizioni di durezza e intransigenza”.
Il tentativo di aggregazione in un Movimento della sinistra comunista durò pochi mesi per le numerose incompatibilità sul piano teorico e politico delle formazioni promotrici, tra chi voleva praticare l’entrismo nel Pci e chi no, chi era per operare nei sindacati e chi no e così via. Oltre a giudizi critici ma fortemente differenziati sulla natura dell’Unione Sovietica e dei paesi del blocco socialista.
La Quarta Internazionale, di cui Maitan era uno dei massimi dirigenti, lanciava appelli agli operai ungheresi a formare dei Consigli sul modello dei soviet russi del ’17, per difendere gli elementi della struttura socialista rifiutando il ritorno al capitalismo e abbattendo (anche con la violenza) la burocrazia al potere e cacciare i sovietici. Ma è poco probabile che questi proclami abbiano avuto una qualche influenza sugli eventi.
Non c’era nessuna presenza trotskista in Ungheria nel 1956 e un piccolo gruppo si formerà solo successivamente in esilio a Parigi per iniziativa di Balasz Nagy (noto per molti anni nel movimento trotskista come Michel Varga), che era stato segretario del Circolo Petofi e vicino alla tendenza comunista raccolta attorno al primo ministro Imre Nagy. Questo piccolo gruppo, denominato Lega dei socialisti rivoluzionari d’Ungheria si affilierà però alla tendenza così detta “lambertista” (dal nome con cui era conosciuto il suo principale leader Pierre Lambert) fortemente ostile nei confronti della Quarta Internazionale di Maitan. In generale non ci fu nemmeno un significativo spostamento di militanti comunisti verso le organizzazioni trotskiste in altri paesi europei, con la limitata eccezione della Gran Bretagna, dove circa duecento militanti organizzati attorno a Peter Fryer, inviato del quotidiano comunista a Budapest, aderirono all’organizzazione trotskista guidata da Gerry Healy. Anche in questo caso si trattava di un gruppo rivale della tendenza internazionale a cui appartenevano i GCR italiani.
In larga maggioranza coloro che nel 1956 ruppero con il movimento comunista si spostarono verso il socialismo o la socialdemocrazia, oppure diedero vita a riviste indipendenti che alimentarono il dibattito politico fornendo alcune delle premesse della nuova sinistra degli anni ’60.
Conclusioni
Come si è visto da questa rapida rassegna, la rivolta ungherese ha dato vita nel tempo a valutazioni diverse sia nell’analisi degli avvenimenti che nelle conseguenze politiche che se ne sarebbero dovute trarre. Le due posizioni estreme, quella della pura e semplice azione “controrivoluzione” alimentata dall’imperialismo, come quella della rivoluzione “antiburocratica” destinata ad instaurare un socialismo migliore di quello imposto dal modello staliniano, risultano troppo schematiche per un processo in rapidissima evoluzione, nel quale confluivano rivendicazioni diverse.
Oggi prevale la lettura che ne fa un evento puramente anticomunista e nazionalista, anticipatore del mutamento degli anni ’89-’90, considerato inevitabile data l’impossibilità di riformare il socialismo dei paesi dell’est. Una visione che il governo di Orban ha interamente assunto come propria, emarginando dalla storia ufficiale tutte quelle personalità e tendenze che invece si muovevano nella direzione di un altro socialismo, come il Primo ministro Nagy, seppure in modo confuso e incerto. La lettura deterministica del processo storico, non priva di elementi di grossolana falsificazione, serve soprattutto a legittimare il potere attuale. Esiste ancora una forte tendenza a riscrivere la storia nelle sedi politico-istituzionali per usarla a supporto delle scelte politiche contingenti.
Una tendenza che un tempo veniva attribuita ai regimi totalitari, secondo la nota citazione di Orwell secondo la quale “chi controlla il passato, controlla il futuro e chi controlla il presente controlla il passato”, ma in realtà è ben più diffusa. Non solo per l’emergere con forza di correnti nazionaliste e revansciste a sfondo etnico-razziale, che per loro natura tendono ad “inventare tradizioni” (secondo la definizione utilizzata dallo storico Eric Hobsbawm), quanto per la stessa assunzione di questo metodo da parte di istituzioni che dovrebbero essere democratiche. Avevamo già segnalato come il Parlamento europeo, approvando nel tempo due diverse risoluzioni sull’Ucraina degli anni ’30, ne abbia riscritto la storia, non perché la storiografia abbia fornito nuovi elementi di valutazione, ma perché nel frattempo era cambiato il contesto geopolitico. La nuova versione della storia viene utilizzata come giustificazione del conflitto militare in corso.
Per quanto riguarda più direttamente gli interrogativi da cui siamo partiti, alcuni risposte non possono che essere interlocutorie, altre più nette. Innanzitutto è difficile ritenere che le posizioni assunte in occasione degli eventi dal 1956 dal Pci e da altre forze di sinistra siano realmente alla base dei problemi della sinistra odierna in Italia, cancellando tutta una serie di scelte politiche compiute in anni più vicini, a partire dalla decisione di sciogliere il Pci o dal modo in cui il centro-sinistra ha governato in nome dei benefici di una globalizzazione ormai entrata ampiamente in crisi.
La storia con i “sé” può fornire elementi di riflessione se si basa su alternative effettivamente presenti nel dato momento storico. Nel 1956 una prospettiva ispirata a Trotsky era del tutto inesistente, come la permanente marginalità delle forze che ad esso si ispiravano ci porta a confermare.
Il Pci poteva assumere una posizione differente? Intanto va tenuto presente che l’analisi compiuta da questo partito e dalla sua leadership e la prospettiva politica che si cercò di aprire nel 1956 non fu caratterizzata solo dal sostegno alla repressione messa in atto dall’Unione Sovietica, ma anche da un più complesso tentativo di uscire dallo stalinismo, senza confluire nella socialdemocrazia. Quindi mantenendo aperta una prospettiva di rinnovamento dell’insieme del blocco socialista e delle forze comuniste.
Molti di coloro che hanno criticato la presa di posizione del Pci del tempo, lo hanno fatto nella convinzione che questo diverso atteggiamento aprisse la strada ad un “inserimento nel sistema” o come disse Calvino, ad una “legittimazione” in quanto forza di governo, piuttosto che di cambiamento sociale. Questo avvenne per il Psi, la cui evoluzione ulteriore però si mosse in direzione di un ripensamento dell’idea di socialismo quanto nel progressivo inserimento nelle strutture di potere esistenti, fino a farsi interprete e protagonista della modernizzazione liberista dell’Italia, prima di essere travolto dalle indagini giudiziarie.
L’operazione togliattiana, pur non esente da ambiguità e a volte da eccessive prudenze, si proponeva di cercare non la “legittimazione” del partito presso le classi dominanti, quanto di portare su un terreno più avanzato quei milioni di persone (classe operaia e popolo) che guardavano al Pci come strumento di emancipazione ma, per la stessa ragione, vivevano fortemente il mito staliniano e dell’Unione Sovietica. Ed anche di contribuire ad un’analoga evoluzione l’intero blocco socialista.
Anche secondo alcuni osservatori stranieri, né sprovveduti né comunisti come Donald Blackmer e Joan Barth Urban, una rottura del Pci con l’Unione Sovietica nel ’56 avrebbe portato alla disgregazione del partito. Ma qui ci troviamo inevitabilmente a fare la storia con i “sé”.
Una storia siffatta, se consente di non cadere in un piatto giustificazionismo, presenta almeno due problemi. Il primo è che ognuno può scrivere la propria, secondo quelli che sono i propri desideri, senza che sia possibile alcuna verifica empirica delle reali conseguenze. Lo stesso Magri ad esempio ipotizza alcune dei possibili effetti di un cambiamento di campo dell’Ungheria. Quale sarebbe stato l’esito del non intervento sovietico? La costruzione di un socialismo antiburocratico e antiautoritario o l’anticipazione degli eventi del 1989-90, con uno spostamento a destra di tutta la situazione globale e dei rapporti di classe nei vari paesi? O una delle infinite varianti intermedie possibili?
Il secondo problema della storia fatta con i “sé” è di diventare facilmente autoconsolatoria. Non saprei se questa sia effettivamente la corretta interpretazione della formula del “balzo di tigre” di Benjamin che Cannavò riprende. O piuttosto vada inteso come capacità di ripartire da alcuni momenti effettivi del passato per trovare nuove strade nel presente. La teoria della storia di Benjamin, espressa in un momento drammatico caratterizzato dalla vittoria del nazifascismo in gran parte dell’Europa, espressa in formula affascinanti che però danno adito ad interpretazioni contrastanti, si basa sulla negazione dell’idea di progresso e sul rifiuto di ogni forma di storicismo. In una prospettiva che mescola insieme marxismo critico e messianismo ebraico come ha sintetizzato Enzo Traverso.
In ogni caso una forza o un movimento politico che si propone di cambiare il mondo non può pensare di consolarsi per le sue sconfitte attuali, con la speranza che fra qualche decennio uno storico benevolo mosso da “empatia per i vinti”, ne riconosca le ragioni ma ne debba constatare anche la scarsa influenza sulla realtà.
Franco Ferrari
Riferimenti bibliografici
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Blackmer, D. L. M., Unity in Diversity. Italian Communism and the Communist World, 1968, MIT Press.
Gozzini, G. e Martinelli, R., Storia del Partito comunista italiano. Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, 1998, Einaudi, Torino.
Guerra, A e Trentin, B. Di Vittorio e l’ombra di Stalin, 1997, Ediesse, Roma.
Ingrao, P. Masse e potere, 1977, Editori Riuniti, Roma.
Ingrao, P. Le cose impossibili, 2011, Aliberti, Reggio Emilia (prima edizione 1990, Editori Riuniti, Roma).
Magri, L. Il sarto di Ulm, 2009, Il Saggiatore, Milano.
Maitan, L. La strada percorsa, 2002, Massari editore, Bolsena.
Urban, J. B., Moscow and the Italian Communist Party, 1986, Cornell University Press, Ithaca and London.