editoriali

(Alter)europeisti, organizzatevi!

di Francesca
Lacaita

Agli inizi di maggio sono uscita da Diem25, dopo aver contribuito a fondare il collettivo di Milano quattro anni prima e averlo coordinato tutto questo tempo. Il lockdown ha senz’altro fatto esaurire le riserve di pazienza, ma almeno ha reciso tutte le remore che impedivano di trarre le logiche conseguenze dalla costatazione del fallimento del progetto iniziale – che, ricordiamolo, era democratizzare l’Unione Europea “entro il 2025”.

Ovviamente la data finale aveva un’importanza solo relativa. Il senso fondamentale del progetto era la nascita di un soggetto transnazionale con lo scopo di realizzare le istanze e gli obiettivi “altereuropeisti”, quali una Costituzione europea a fondamento di un’entità politica democratica, una cittadinanza europea transnazionale, indirizzi politici ecologisti, femministi e socialisti. “Altereuropeisti” lo siamo quasi tutti a sinistra, ad eccezione di qualche “sovranista”, ma l’“altereuropeismo” di per sé non è la priorità di praticamente nessuno. Doveva esserlo, appunto, di Diem25. Purtroppo la sconfitta alle elezioni europee ha accentuato la tendenza all’avvitamento sul proprio ombelico e la deriva verso modalità politiche “postmoderne” che in teoria dovrebbero far avvicinare alla politica chi non è aduso ad essa, ma che di fatto (lo si è visto anche a proposito del M5S, delle Sardine e di altri) conduce inesorabilmente al disimpegno dei molti e all’autoreferenzialità dei pochi. Ora Diem25 non è che uno dei tanti soggetti che compongono il quadro frammentato e sfilacciato della sinistra. “Altereuropeista”, certo. Come tutti.

L’effettiva parabola di Diem25 non toglie però nulla alle ragioni che sottostettero alla sua nascita. Non mancano analisi sulle storture della UE così com’è oggi, e nemmeno proposte di soluzioni che potrebbero incontrare un ampio consenso, a sinistra e non solo. Quello che manca è un soggetto in grado di informare al di là dell’attualità o dei canali ufficiali (ad esempio, chi è informato adesso sullo stato dell’arte della Conferenza sul futuro dell’Europa?), di tenere un dialogo costante con soggetti politici, sociali e culturali affini, di rendere visibili al di là dei confini lotte che hanno bisogno di solidarietà per affermarsi, di canalizzare energie verso obiettivi specifici, di mantenere lo slancio e l’entusiasmo, di costruire una sfera pubblica europea “di massa”. Vaste programme? È in ogni caso ciò di cui ora abbiamo bisogno. Democratizzare l’Europa non può essere compito (solo) dei partiti, che hanno, anche a livello europeo, le proprie legittime priorità “di parte”. Lo stesso vale a maggior ragione per i sindacati o per altre organizzazioni che hanno pure un braccio a Bruxelles, ma che sono principalmente concentrati sul livello nazionale, o per quelle associazioni che si coordinano a livello europeo per campagne specifiche, ma che non possono occuparsi di molto altro. Appunto, manca un soggetto che si proponga come suo proprio obiettivo il cambiamento del quadro istituzionale europeo e l’affermazione di determinati indirizzi politici, non identificato con particolari partiti politici, ma identificato certamente con un chiaro progetto di trasformazione sociale.

Il radicamento in un progetto di trasformazione sociale è importante per evitare l’altra triste parabola, quella dei movimenti eurofederalisti. Teoricamente l’obiettivo di un’Europa democratica e federale avrebbe dovuto aggregare energie attraverso un largo spettro politico, in una sorta di CLN europeo. In pratica, mancando il momento “di rottura”, l’obiettivo della federazione europea, già necessariamente vago per quanto riguarda i dettagli, diventava evanescente, e si traduceva sostanzialmente nel sostegno all’UE così com’è, secondo il principio che quanto viene dall’“Europa” è “comunque un passo avanti” (anche se di fatto allontana dal fine dichiarato, come il Trattato di Maastricht, il Trattato di Lisbona o il Fiscal Compact), e alle classi dirigenti europee. Storicamente invece tutti i progetti che riguardavano l’assetto europeo esprimevano senza mezzi termini una propria visione della politica e della società – è per questo che diciamo che l’Europa federale del Manifesto di Ventotene è ben diversa da quella di von Hayek. Diem25 aveva un suo programma specifico, che avrebbe meritato di essere maggiormente diffuso e condiviso, prima di essere cestinato senza cerimonie all’indomani delle elezioni europee. Naturalmente avrebbe avuto bisogno di energie enormi e di un’ampia base a livello transnazionale per essere quantomeno conosciuto e ritenuto fattibile – ma in quel caso si sarebbe dovuta riconsiderare la scelta di presentarsi da subito alle elezioni europee senza un adeguato radicamento sociale, al di fuori dei social. Dopotutto non eravamo Forza Italia ai tempi della “discesa in campo”. E nemmeno potevamo contare sulle simpatie dell’europeismo mainstream come Volt.

La difficoltà a coordinarsi attorno a un progetto politico condiviso trova il suo corrispettivo in quella che è diventata un’ossessione non solo dell’altereuropeismo, ma della sinistra intera, e che, in un contesto come quello italiano, è diventata una vera e propria trappola: l’ossessione per l’“evento”, quello che si può condividere sui social media, quello che attesta la propria esistenza “soggettiva”, quello che viene prodotto e consumato con poca o nessuna preoccupazione per come coltivare politicamente quanto emerso, come connetterlo ad altre istanze, come farlo incidere nel medio e nel lungo termine. Sugli “eventi” la politica mainstream costruisce la sua propaganda; la stessa cosa non può valere per una politica che si vuole “alternativa” e che si trova a remare controcorrente. Pensare in particolare di incidere in un ambito come la politica europea, dove le variabili sono numerose e più complesso il gioco dei rapporti di forza organizzando eventi che generalmente si esauriscono in sé stessi è, a dir poco, illusorio. Insomma, ci vuole organizzazione. Ci vuole il gioco di squadra. E il gioco di sponda. Ci vuole dialogo a tutto tondo, e ci vuole coordinamento, perché il meno possibile di quel dialogo vada perso. Soprattutto, ci vuole la consapevolezza che cambiare l’Europa è un lavoro a tempo pieno, dai tempi lunghi. Se solo tutti gli altereuropeisti ne fossero consapevoli.

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