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Alla destra danese non riesce la spallata

di Franco
Ferrari

Alla fine dello scrutinio lo scenario emerso dalle elezioni danesi del 1° novembre non corrisponde a quanto sembrava profilarsi dai primi exit poll. Il cosiddetto “blocco rosso”, termine tradizionale che indica tutti i partiti che si collocano nel campo del centro-sinistra, non solo prevale nettamente sul “blocco blue”, che invece copre tutte le formazioni che vanno dalla destra liberale fino all’estrema destra populista e xenofoba, ma non dipenderà obbligatoriamente dal nuovo partito centrista dei “Moderati” che si colloca al di fuori dei due schieramenti.
Al “blocco rosso” la stampa danese attribuisce 87 seggi sui 175 eletti in territorio danese. Ai quali potranno essere aggiunti almeno 3 dei 4 eletti nelle isole Faroe e in Groenlandia. All’interno dello schieramento di centro-sinistra il voto ha determinato una modifica dei rapporti di forza che influirà certamente sulla configurazione del prossimo governo.
Il Partito Socialdemocratico, guidato dalla Prima Ministra uscente, Mette Frederiksen, ha recuperato consensi dopo una lunga fase di declino. Raccoglie ora il 27,5% e sale da 48 a 50 seggi. Alla sua destra il Partito Social-Liberale, liberista in economia ma progressista sui temi sociali subisce una netta sconfitta perdendo ben 9 seggi e mantenendone solo 7.
I social-liberali che sostenevano dall’esterno il monocolore socialdemocratico hanno provocato la crisi che ha portato all’anticipo di sette mesi delle elezioni. La loro decisioni era legata al cosiddetto “scandalo dei visoni”. Durante l’epidemia del Covid, a seguito del timore che questi animali, utilizzati per le pellicce e di cui la Danimarca possedeva i più grandi allevamenti mondiali, diffondessero una variante pericolosa del virus, la Frederiksen ha deciso d’urgenza la loro completa soppressione. La decisione, oltre che piuttosto avventata, si è rivelata anche legalmente infondata.
Non sembra però che alla fine gli elettori abbiano dato particolare rilevanza alla vicenda, mossi evidentemente da altre preoccupazioni considerate più urgenti come le difficoltà economiche e gli effetti della guerra in Ucraina.
Fra i partiti che si collocano a sinistra della socialdemocrazia, l’ex Partito Socialista Popolare, che ora utilizza la denominazione di Sinistra Verde, ha guadagnato un seggio ottenendone 15, con l’8,3% dei voti. Si tratta di una formazione tradizionalmente vicina ai socialdemocratici, mentre il partito più radicale Enhedslisten (Lista Unitaria ma conosciuta anche come Alleanza Rosso-Verde) ha perso 4 seggi scendendo a 9. In percentuale ha raccolto il 5,2% contro il 6,9% delle elezioni precedenti.
Un arretramento che però non è stato considerato del tutto negativo dalla sua portavoce, Mai Villadsen, nei commenti del dopo voto. Il Partito ritiene di avere ottenuto alcuni risultati positivi nella sua azione di confronto con il governo socialdemocratico in particolare per la decisione, che la Frederiksen aveva avversato per anni, di incrementare gli stipendi dei pubblici dipendenti, ormai non più adeguati al costo della vita, al punto che molti concorsi pubblici nei settori sanitario e assistenziale andavano deserti.
Nei confronti della socialdemocrazia, l’Alleanza Rosso-Verde resta molto critica per quanto riguarda le politiche riguardanti l’immigrazione e l’integrazione degli immigrati già presenti sul suolo danese. Ormai da diversi anni le politiche governative si sono fatte sempre più restrittive con una serie di misure apertamente xenofobe, come la decisione di sottrarre agli immigrati, al momento del loro arrivo, qualsiasi bene di cui disponessero. Oppure la cosiddetta legge contro i ghetti, ovvero i quartieri con una maggioranza di immigrati che è diventata di fatto non uno strumento per una migliore integrazione ma per la criminalizzazione di tutti coloro che non sono nati in Danimarca.
La Socialdemocrazia, sotto la guida della Frederiksen, ha adottato in gran parte le politiche xenofobe richieste e perseguite da anni dall’estrema destra. Ultima la decisione di mandare i richiedenti asilo in Ruanda. Una scelta analoga a quella perseguita dalla destra conservatrice britannica.
Come possibile sostegno di una nuova maggioranza a guida socialdemocratica, la stampa include anche il partito “Alternativa” che ha ottenuto 6 seggi, 1 in più delle elezioni precedenti nonostante abbia subito una piccola scissione dalla quale è nata la formazione dei “Verdi Liberi” che non ha superato la soglia per entrare in Parlamento, fermandosi allo 0,9%. Alternativa è un partito ecologista moderato ed europeista.
I socialdemocratici danesi sono quindi riusciti, anche se per il rotto della cuffia, ad evitare il destino dei loro confratelli svedesi, esclusi dal governo dopo le recenti elezioni politiche. In che misura questo risultato è stato ottenuto con uno spostamento politico a destra su temi cruciali è più difficile valutare. In queste elezioni, a differenza delle precedenti, sono riusciti a recuperare consensi, ma l’1,6% in più è andato soprattutto a discapito degli alleati social-liberali e in un contesto complessivo di arretramento delle forze che hanno sostenuto il governo uscente.
La destra esce complessivamente frammentata e indebolita dal voto. I liberali, principale forza di opposizione, sono stati quasi dimezzati, perdendo 20 dei 43 seggi di cui disponevano. Al loro fianco ci sono ben 5 partiti di cui 3 (Democratici, Nuova Destra, Partito del Popolo) sono schierati su posizioni populiste e xenofobe. I Democratici, presenti per la prima volta, il cui nome è ripreso dall’omonima formazione dell’estrema destra svedese, hanno ottenuto 14 seggi, mentre il più tradizionale partito della destra populista, il Dansk FolkeParti ha passato per poco la soglia di sbarramento del 2%.
Il nuovo partito dei Moderati, fondato e guidato dall’ex primo ministro Lars Lokke Rasmussen (liberale di destra), ha ottenuto un ottimo risultato conquistando 16 seggi, ma non è riuscito a diventare il kingmaker decisivo per condizionare la formazione del nuovo governo, come sperava.
L’incarico sarà dato ancora alla Frederiksen che dovrà decidere se provare a formare una coalizione o proseguire con un governo di minoranza, consentito dalle regole istituzionali danesi che non prevedono un voto di fiducia del Parlamento ma solo che non passi un voto di sfiducia, per il quale la destra da sola non avrebbe i numeri. Dovrà anche valutare se aprire la maggioranza al sostegno di partiti dell’opposizione come ha più volte proposte negli ultimi mesi, con il dichiarato obiettivo di far fronte alle difficili prospettive economiche che si intravedono. Mentre i partiti del “blocco blue” hanno ripetutamente respinto questa offerta, non si può escludere che un simile accordo sia gradito ai Moderati di Rasmussen. Questo nuovo assetto consentirebbe alla Frederiksen di non dover fare concessioni a sinistra e di consolidare lo spostamento a destra della socialdemocrazia danese che si è registrato negli ultimi anni.
Per quanto riguarda Enhedlisten (Alleanza Rosso-Verde), come spesso succede a partiti della sinistra radicale che si trovano a partecipare o a sostenere coalizioni dominate dalla socialdemocrazia, non è riuscita a capitalizzare i risultati strappati su alcune questioni ambientali o sociali. Il partito resta molto forte a Copenaghen dove è il primo partito a livello municipale e dove ha cercato di mettere in atto politiche più avanzate anche in contrasto con la locale socialdemocrazia, ma fatica ad ampliare il suo seguito tra i settori più tradizionali delle classi lavoratrici e al di fuori delle grandi città. Uno dei suoi principali leader, Pelle Dragsted, ha pubblicato lo scorso anno, un libro (“Socialismo nordico”) che ha cercato di aprire una discussione strategica e ideologica sulla visione del partito. Un dibattito che ha sollecitato, come inevitabile, anche critiche da sinistra, ma di cui questo partito, come tutta la sinistra radicale europea ha certamente bisogno.

Franco Ferrari

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