In questa nota presento una breve rassegna di alcune proposte di riforma del quadro fiscale europeo, quelle che mi sembrano più interessanti e innovative. Sono contributi elaborati da economisti. Quindi non hanno immediata rilevanza pratica. Tuttavia pongono le basi teoriche per eventuali proposte politiche. Sono stati pubblicati in epoca molto recente, in seguito all’esplosione dell’epidemia Covid, e quasi tutti cercano di far tesoro dell’esperienza avviata con il Next Generation EU. Le direzioni di riforma sono fondamentalmente due: la creazione di eurobond e la modifica delle regole fiscali. In tutti i contributi si respira un’aria di rinnovamento ideologico: basta con le idiozie sull’austerità espansiva; basta con il rifiuto delle politiche fiscali espansive; il governo di ogni paese ha il dovere d’intervenire nell’economia, e non solo per affrontare eventuali shock con politiche anticicliche, ma anche per sostenere lo sviluppo di lungo periodo con gli investimenti pubblici e la politica industriale. Gli aspetti legali delle riforme sono molto complessi, ma non li toccherò qui. Mi limiterò a rinviare a Tosato (2022). Per un’ampia rassegna dei dibattiti politici e istituzionali rinvio invece a Salmoni (2022).
Un nuovo Patto di Stabilità senza parametri quantitativi
Blanchard et al. (2021) e Martin et al. (2021), che seguono lo stesso approccio, propongono di depotenziare le regole fiscali basate su parametri quantitativi, in particolare, i vincoli del 3% al rapporto deficit/pil e del 60% al rapporto debito/pil. Questi parametri non vanno abbandonati perché altrimenti bisognerebbe riscrivere i trattati. Vanno mantenuti come target di lungo periodo. Però il Patto di Stabilità può essere modificato sostituendo alcune regole quantitative (come la Procedura di Deviazione Significativa e la Procedura di Deficit Eccessivo) con uno standard qualitativo secondo il quale ogni stato si impegna ad assicurare la sostenibilità del proprio debito con un’elevata probabilità. Gli impegni e il loro mantenimento verranno verificati da analisi economiche condotte da istituzioni europee. Se risulta che la probabilità è al disotto di una certa soglia, lo stato inadempiente sarà invitato a correggere il tiro. Va comunque mantenuto l’Articolo 126 del Trattato sul Funzionamento EU: Gli stati membri devono evitare deficit di bilancio eccessivi. I deficit sono considerati eccessivi quando i debiti non risultano sostenibili con un’alta probabilità. In pratica il debito pubblico è considerato sostenibile quando il rapporto debito/pil è inferiore al 60% oppure tende a diminuire.
Inoltre bisogna attribuire un ruolo importante alla politica fiscale anticiclica. Ogni governo nazionale deve essere messo in grado di stabilire il proprio target di debito di medio periodo (5 anni). Devono essere create delle Istituzioni Fiscali Indipendenti in ogni nazione con il compito di valutare i target. I piani di politica fiscale nazionali devono poi essere approvati dall’Econfin. Il Comitato Fiscale Europeo avrà il compito di fissare la metodologia per la valutazione dei piani nazionali, controllare gli IFI e fornire pareri consultivi in materia di bilancio.
Le variazioni del rapporto debito/pil sono spiegate dalla formula Δd=(G–T)/Y+[(r–g)/(1+g)]d (con d=D/Y, D=debito pubblico, Y=prodotto interno lordo, G=spesa pubblica, T=entrate pubbliche, G–T=disavanzo primario, r=tasso d’interesse, g=tasso di crescita del pil). Se d>60%, la sostenibilità richiede Δd<0, e deve essere assicurata da bilanci primari in surplus quando la differenza tra saggio d’interesse e tasso di crescita del pil, r–g, è positiva. Questi ultimi due parametri sono specifici per ogni paese, ecco perché bisogna che gli impegni alla sostenibilità vengano determinati dai governi nazionali. I quali governi devono mirare a conseguire il target di debito di medio termine sulla base della stima di un massimo disavanzo primario e mantenendo un margine di sicurezza per far fronte alle crisi. Il target non deve essere fisso ma deve poter variare sia in funzione del rischio di un avversa differenza r–g, sia in relazione alle necessità poste dalle politiche anticicliche. Il target deve essere conseguito applicando una regola di crescita della spesa primaria. Questa è fissata sulla base del massimo disavanzo primario ammesso e dell’output potenziale, e deve essere determinata al netto degli ammortizzatori sociali e dei cambiamenti di tasse.
Infine si deve dar vita a uno strumento permanente di debito europeo per finanziare programmi d’investimento comune e programmi volti a correggere rilevanti differenze economiche tra gli stati membri. Questi sono impegnati a contribuire al bilancio comunitario in proporzione al pil. Ma si deve prevedere anche la creazione di nuove risorse proprie della Commissione. In presenza di shock che colpiscono tutti gli stati membri è necessario attivare stimoli fiscali per mezzo di un consistente bilancio comunitario.
La Commissione avrà la responsabilità di controllare le politiche fiscali nazionali e di proporre raccomandazioni al Consiglio per l’approvazione finale. Le sanzioni però non verrebbero decise dalla Commissione o dall’Ecofin, ma sarebbero sentenziate dalla Corte di Giustizia.
Trasformare il MES in un’EDA
Massimo Amato et al. (2021) propongono di trasformare il MES in una European Debt Agency. Questa si finanzierà emettendo permanentemente eurobond a scadenza finita. I fondi così raccolti verranno usati per finanziare gli stati membri concedendo crediti senza scadenza, cioè debiti rinnovabili continuamente su richiesta dei debitori. L’EDA concede crediti diretti. Non acquista titoli. Ma per un periodo di transizione prenderà in carico i debiti pubblici esistenti, che poi rifinanzierà direttamente man mano che giungono a scadenza. Si doterà di riserve, in modo da essere in grado di annullare periodicamente parte dei debiti. La sua missione è di minimizzare i costi del credito per ogni stato, mantenendo però gli stati responsabili per i cattivi comportamenti.
I costi dei debiti dei diversi stati membri si configureranno come tassi di rendimento di rendite perpetue. L’ottemperanza alle regole dell’UE sarà controllata dalla Commissione e determinerà il merito di credito di ogni stato. Il costo del debito quindi risulterà dalla somma del costo per la raccolta di fondi dell’EDA e di un costo differenziale riflettente il merito di credito nazionale. In questo modo le condizionalità del MES e le sanzioni per il rispetto delle regole fiscali saranno sostituite da valutazioni che determinano i costi del finanziamento. Gli stati meno virtuosi avranno sempre acceso al credito, ma a tassi più alti.
L’EDMA e la golden rule
Giavazzi et al. (2021) propongono una riforma che è considerata particolarmente rilevante dal punto di vista politico essendo stata in qualche modo avallata a Draghi e Macron (2021). La riforma si muove su due fronti, mirando sia ad alleggerire il peso dei debiti pubblici nazionali sia a rendere meno stringenti le regole del Patto di Stabilità.
Sul primo fronte la proposta è d’istituireun’European Debt Management Agency che avrà il compito di assumere parte dei debiti pubblici nazionali e che si finanzierà con l’emissione di titoli di debito europei. Si prevede che tali eurobond potranno essere venduti a condizioni favorevoli. Infatti, in seguito all’emissione del debito per finanziare il Recovery Fund, si è rilevata l’esistenza di un’elevata domanda di titoli europei sicuri. Perciò l’EDMA pagherà interessi piuttosto bassi.
Dovrà acquistare come minimo i debiti pubblici risultanti dalla crisi Covid e, meglio ancora, anche quelli causati dalla crisi 2008-9. Per l’Italia questi debiti sono stimati al 19% del pil e al 12,7% rispettivamente, quindi complessivamente al 31,7%.
Si prevede che nell’arco di 5 anni l’EDMA acquisti i titoli detenuti dal Sistema Europeo delle Banche Centrali. Lo farà con operazioni di swap fuori mercato, cioè li pagherà con titoli propri. In tal modo, tra l’altro, la BCE verrà messa in condizione di svolgere operazioni su un titolo di debito europeo e quindi di sganciare la politica monetaria dalle politiche fiscali nazionali. Questo aspetto della proposta evoca un’idea avanzata da Micossi (2021), e cioè d’istituire un nuovo strumento del MES che gli consenta di acquistare dal Sistema Europeo delle Banche Centrali i titoli di stato da esso detenuti, finanziando l’acquisto con l’emissione di titoli propri. Peraltro, sia Francesco Giavazzi sia Massimo Amato suggeriscono che l’Agenzia del debito potrebbe nascere da una trasformazione del MES.
Una volta raggiunto il limite massimo di detenzione di titoli nazionali, l’EDMA dovrà rinnovare gli acquisti man mano che scadono quelli detenuti. Non solo, ma dovrà espandere l’acquisto di titoli nazionali allo stesso ritmo a cui cresce il pil dell’Unione. Perciò in epoca di forte sviluppo i vari paesi vedranno aumentare la capacità di sostenere una parte della crescita con un finanziamento a fondo perduto. Infatti in pratica questo finanziamento equivarrà a debito annullato, in quanto lo stato che lo ha emesso non dovrebbe restituirlo mai. Né pagherebbe gli interessi.
Pagherebbe un contributo, C, calcolato con una formula che esprime la differenza tra gli interessi che l’Agenzia deve pagare sui propri titoli e la liquidità che riceve dal mercato emettendoli (per il corrispettivo dei titoli nazionali acquistati): C=(re–g)Dc, dove re è il tasso d’interesse sugli eurobond, g è il tasso di crescita del pil del paese considerato e Dc la parte del suo debito pubblico acquistata dall’EDMA. Per un paese come l’Italia il contributo sarebbe sicuramente inferiore agli interessi che pagherebbe sui BTP. Peraltro questo criterio di servizio del debito è un incoraggiamento a fare politiche fiscali espansive. Infatti il contributo sarebbe tanto più basso quanto più alto fosse il tasso di crescita del pil. E nel caso in cui g>re varrebbe una regola per cui il contributo sarebbe azzerato. Così il governo sarebbe indotto a fare politiche fiscali espansive anche per far crescere il pil a un saggio superiore a re in modo da non pagare contributi all’EDMA.
Se l’EDMA accumulerà riserve liquide, queste potranno essere usate in tre modi: 1) ridurre i contributi oppure distribuire ai vari paesi parte delle riserve stesse, 2) mantenere le riserve come un tesoretto di sicurezza, 3) assegnare le riserve al bilancio europeo in modo da finanziare la spesa pubblica comunitaria.
Un’altra facilitazione agli stati membri, che potrebbe essere collegata a questa, è stata suggerita da Giavazzi e Tabellini (2020). Consiste nella facoltà di emettere eurobond a lunga o lunghissima scadenza (50 o 100 anni) o addirittura rendita perpetua. Poi, a mo’ di attuazione della misura whatever it takes, la BCE dovrebbe essere pronta ad acquistarli per mantenere basso il rendimento. La proposta fu avanzata subito dopo l’esplosione della crisi covid, ma nulla vieta di attuarla dopo il superamento della pandemia. Anche Soros (2020) avanza la proposta di emettere una rendita perpetua europea.
Sul secondo fronte, quello riguardante le regole fiscali stabilite dal trattato di Maastricht e dal Patto di Stabilità, gli autori propongono una riforma che mira a far crescere gli investimenti e il pil favorendo al contempo la sostenibilità del debito. Riconosciuta l’impossibilità di rispettare la regola che impone agli stati di ridurre il debito entro 20 anni fino a portarlo al 60% del pil, si propone una riforma così concepita: 1) il target del 60% nel rapporto debito/pil va mantenuto, ma senza stabilire una scadenza per il suo conseguimento, 2) ogni paese può fissare un target superiore al 60% da raggiungere in 10 anni, 3) la spesa per investimenti, denominata “spesa per il futuro”, va separata dalla spesa corrente, 4) l’aggiustamento al target decennale deve essere fatto con due velocità, una bassa per la “spesa per il futuro” e una alta per la spesa corrente, 5) tra le spese con aggiustamento a bassa velocità devono essere incluse anche quelle effettuate per fronteggiare le crisi, 6) l’effettiva velocità di aggiustamento del rapporto debito/pil sarà una media delle due velocità, perciò sarà tanto più bassa quanto più alta è la quota della “spesa per il futuro” rispetto alla spesa complessiva, 7) per raggiungere il target si adotta una regola che fissa un tetto massimo per la crescita della spesa pubblica (al netto degli interessi sul debito, della spesa per il futuro, degli stabilizzatori automatici e degli ammortizzatori sociali).
In questo modo le spese per investimenti e quelle fatte in funzione anticiclica vengono incoraggiate, cosicché viene favorita la crescita del pil nel lungo periodo e la ripresa dopo una crisi. Siccome gli investimenti alimentano la crescita del pil, questo tipo di spesa pubblica genererebbe la propria sostenibilità e renderebbe più facile raggiungere il target. In appendice mostro come una riduzione del rapporto debito/pil può essere conseguita espandendo il disavanzo primario invece che riducendolo.
Si noti che la regola (7) pone un limite alla spesa, non al disavanzo. Ciò vuol dire che gli autori prevedono la possibilità di ridurre il rapporto debito/pil aumentando il disavanzo primario invece che riducendolo. Un tetto alla spesa è un vincolo alle politiche fiscali espansive, ma è meno restrittivo di un tetto al disavanzo. Non ha effetti pro-ciclici così forti come lo avrebbe un tetto al disavanzo. Infatti in una recessione le entrate fiscali tendono a diminuire e quindi la fissazione di un tetto al disavanzo imporrebbe una diminuzione di spesa maggiore di quella che verrebbe imposta da un tetto di spesa.
In sostanza viene proposta una quasi golden rule. La golden rule è un’idea di cui si parla da molto tempo. Così la definisce Ciocca (2022): si deve imporre il pareggio solo della parte corrente del bilancio, liberando gli investimenti da ogni vincolo. Le ragioni per cui viene proposta sono più di una, in quanto gli investimenti: 1) hanno un moltiplicatore elevato, 2) fanno crescere la produttività, 3) sono capaci di autofinanziarsi, 4) favoriscono la sostenibilità del debito. L’idea è stata fatta propria da molti studiosi. Secondo Aghion e Mhammedi (2021) la golden rule si deve applicare non solo agli investimenti, ma anche ad altre forme di spesa sociale che favoriscono lo sviluppo: istruzione, inclusione, sicurezza sociale, salute.
Per Giavazzi et al. (2021) la “spesa per il futuro” deve comprende gli investimenti per le infrastrutture, la transizione verde, la transizione digitale, la difesa, la politica industriale. I governi dei singoli paesi possono chiedere d’includere dei progetti speciali nei propri piani di “spesa per il futuro”. Oppure possono chiedere di ridurre la velocità di aggiustamento del rapporto debito/pil e aumentare il target di medio termine. In questi casi devono essere autorizzati dalla Commissione e devono accettare di sottostare a controlli più stretti e condizionalità più forti. I singoli paesi devono sottoporre alla Commissione progetti di spesa triennali basati su previsioni realistiche.
Si propone inoltre di abolire l’output potenziale come parametro su cui regolare la spesa. Come spiego in Screpanti (2021), questo parametro ha prodotto effetti perversi, specialmente in paesi come l’Italia, in cui la bassa crescita effettiva ha fatto abbassare la crescita potenziale.
La golden rule e i piani fiscali e strutturali
Giuliano Amato et al. (2021) pensano a riforme strutturali per finanziare la transizione verde, lo stato sociale e la regolazione fiscale con l’obiettivo fondamentale di rafforzare il ruolo dell’Europa nel mondo. Propongono la creazione di una permanente e consistente capacità fiscale centrale. Perciò parte del carico fiscale deve essere spostata dalle politiche nazionali a una politica centralizzata. Ritengono che tutto ciò si possa fare senza modificare i Trattati.
I parametri quantitativi sul deficit e il debito pubblico (3% e 60%) restano validi, ma va abolita la regola che impone il loro raggiungimento in 20 anni. I target vanno conseguiti con una certa flessibilità nei tempi. Va abolita anche la regola che impone di mantenere il rapporto deficit/pil al disotto dello 0,5% se il rapporto debito/pil è al di sopra del 60%, oltre a quella che vincola la spesa pubblica al tasso di crescita dell’output potenziale.
Ogni stato membro deve elaborare un Piano Fiscale e Strutturale su un orizzonte temporale decennale che deve prevedere anche un aggiustamento di lungo termine ai due parametri quantitativi. Il piano deve essere monitorato dalla Commissione e approvato dal Consiglio ogni anno. Un Semestre Europeo di nuova concezione diverrà lo strumento di coordinamento fiscale centrale. In caso di eventi negativi rilevanti i singoli paesi possono rinegoziare con la Commissione i propri Piani Fiscali e Strutturali.
Inoltre devono essere attivati dei fondi europei per finanziare gli investimenti finalizzati alla transizione verde e digitale, che devono essere sottratti dal calcolo dei deficit e dei debiti nazionali. Questa golden rule deve essere applicata anche al finanziamento d’investimentiche creano esternalità positive e che servono alla riqualificazione del lavoro. Gli autori non menzionano esplicitamente gli eurobond, ma lo fanno implicitamente quando propongono di collegare la golden rule all’istituzione d’ingenti fondi europei gestiti dalla Commissione.
Conclusioni
Come osserva Clericetti (2021) nel valutare l’intervento di Giavazzi et al., “quando si parte da un sistema disfunzionale e tecnicamente sbagliato come quello attuale, è probabile che qualsiasi variazione sia un miglioramento”. L’opinione è condivisa da gran parte degli osservatori, e può essere estesa alla valutazione di tutte le proposte che ho presentato in questa nota. Ma va accompagnata da una sana dose di scetticismo, quale può essere suscitato dall’osservazione, sempre di Clericetti, che le proposte brillano ancor più per ciò che non dicono.
Ad esempio, non trattano direttamente del problema della disoccupazione e non accedono interamente all’ottica keynesiana delle politiche di piena occupazione. In particolare non propongono una riforma della BCE che le imponga di operare per il raggiungimento della piena occupazione oltre che per il controllo dell’inflazione. Non trattano delle politiche di dumping salariale praticate sistematicamente dai vari governi nazionali anche avvalendosi delle politiche fiscali restrittive che mettono in ginocchio i movimenti sindacali generando disoccupazione e precariato. Come ci si può aspettare che i governi pratichino politiche fiscali espansive se non viene disattivato questo strumento di deprezzamento reale, e se non si vara una riforma della legislazione e del mercato del lavoro che abolisca il precariato, che riduca l’orario di lavoro, che fissi dei salari minimi validi per tutta l’Unione e che sanzioni ogni forma di dumping salariale? Né le proposte affrontano il problema del dumping fiscale che alcuni stati membri praticano sistematicamente per attrarre delocalizzazioni e sottrarre investimenti e quote di mercato agli altri. Tanto meno viene affrontato il problema che gli enormi surplus commerciali tedeschi (e di altri paesi “frugali”) creano a tutte le altre economie europee. Le politiche di rubamazzo che hanno consentito alla Germania di crescere sistematicamente di più dell’Italia e della Francia, ad esempio, non potranno essere superate finché non viene varata una riforma che imponga l’applicazione di pesanti sanzioni per i paesi che mantengono un surplus commerciale eccessivo.
Insomma le riforme proposte negli articoli presentati in questa nota cercano di correggere alcune distorsioni generate dai trattati europei, ma non mirano a rimuovere le cause di fondo della rivalità tra i vari paesi né a cancellare la pregiudiziale antioperaia e antipopolare della sua “costituzione”. Questo “difetto” peraltro non sembra casuale. Le riforme proposte infatti sembrano tutte mirare a un rafforzamento del potere del capitale. Non solo, ma mirano anche ad accrescere il potere interno ed esterno dell’Unione Europea.
In particolare mirano innanzitutto a creare un quadro permanente di politiche fiscali anticicliche in modo che anche in futuro la Commissione e gli stati membri possano fronteggiare shock sistemici. Non solo, ma mirano anche a creare le condizioni finanziarie per sostenere una massiccia ristrutturazione industriale del continente, sia in forza di una golden rule che libera le spese d’investimento dal vincolo di bilancio sia in forza di una maggiore capacità della Commissione di fare politiche fiscali autonome. In sostanza le riforme mirano a spostare verso il centro un dose crescente di responsabilità fiscale. Il che deve necessariamente comportare un aumento delle condizionalità e del potere politico della Commissione nei confronti dei singoli stati.
In secondo luogo, le riforme mirano a impedire una crisi dei debiti sovrani simile a quella del 2010-12. Simile, ma oggi sarebbe più grave. Allora furono coinvolti direttamente Cipro, Italia, Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda, indirettamente tutti gli altri paesi che avevano risentito del conseguente rallentamento della domanda aggregata. Oggi c’entrerebbero direttamente anche Belgio e Francia (ma non l’Irlanda), paesi con un rapporto debito/pil superiore al 100%. La crisi potrebbe scoppiare nel momento in cui la BCE decidesse di alzare i tassi d’interesse. Ma potrebbe essere evitata se una parte dei debiti sovrani venisse mutualizzata e trasformata in eurobond. Tuttavia credo che diversi paesi (Germania e Olanda in testa) opporranno resistenza a queste riforme, con la conseguenza che sarà difficile evitare una crisi dei debiti sovrani in tempi ravvicinati. Forse solo in seguito a una tale crisi i paesi “frugali” si convinceranno della necessità delle riforme. Probabilmente l’innesco di una crisi economica europea potrebbe essere accelerato dagli effetti economici della guerra in Ucraina. Da una parte l’aumento dell’inflazione spingerebbe all’aumento dei tassi d’interesse, dall’altra la riduzione delle forniture di energia e materie prime stanno già rallentando la crescita del pil. Con r in aumento e g in diminuzione i debiti pubblici diventano meno sostenibili e si potrebbe scatenare la speculazione. Le possibili reazioni difensive sono due. La prima è quella del varo di un secondo Next Generation EU, che permetterebbe di evitare la crisi per altri due anni. La seconda è di avviare una revisione dei Trattati europei nella direzione di alcune delle proposte presentate qui. Di entrambe le cose si sta già parlando nelle alte sfere della EU.
In terzo luogo, le riforme suggerite mirano a liberare la BCE dalla necessità d’intervenire nei mercati per salvare i singoli paesi da attacchi speculativi sui debiti sovrani. Oggi il tasso d’interesse di riferimento è pari allo 0%, e la Banca si trova con le mani legate, non potendo alzarlo se non vuole precipitare una crisi dei debiti sovrani. Tutte le riforme presentate sopra aumenterebbero la capacità della BCE di fare politica monetaria autonoma.
Infine quelle riforme farebbero fare un salto di potenza all’imperialismo europeo, e questo mi sembra l’obiettivo più importante. Gli eurobond andrebbero a costituire un’attività sicura in cui tutte le banche del mondo troverebbero conveniente detenere riserve di valuta internazionale. Siccome l’euro è un moneta stabile e con tendenza al rafforzamento rispetto al dollaro (in questo momento però si sta indebolendo perché la BCE, a differenza della Fed, non ha aumentato i tassi d’interesse), verrebbe domandata in misura crescente e potrebbe rapidamente scavalcare il dollaro come valuta di riserva internazionale. Non solo, ma siccome l’Europa costituisce uno dei più grossi mercati globali, man mano che aumentassero le riserve mondiali di euro un numero crescente di prodotti, risorse e attività finanziarie potrebbe essere scambiato in euro1. Così la valuta europea potrebbe gradualmente scalzare il dollaro anche nelle funzioni di mezzo di pagamento e di scambio internazionale. La funzione di banchiere mondiale, che oggi è svolta dalla Federal Reserve, in un futuro non lontano potrebbe essere rilevata, o almeno condivisa, dalla BCE. Allora l’UE arriverebbe a godere di un rilevante signoraggio globale che le consentirebbe di mantenere dei sistematici deficit commerciali. Se la Germania la smettesse con la barbarie commerciale e riducesse drasticamente il surplus delle sue partite correnti (espandendo il deficit pubblico), l’Europa potrebbe affiancare gli USA anche nella funzione di motore dell’accumulazione mondiale: trascinerebbe la crescita del pil mondiale con la crescita delle proprie importazioni.
Peraltro, come stiamo osservando in occasione delle sanzioni alla Russia, i paesi che emettono la valuta internazionale sono in grado di bloccare parte delle riserve di un paese. E questo è un potente strumento di disciplina imperiale.
Nel quadro dei contrasti inter-imperiali che si sta delineando oggi, l’UE potrebbe rapidamente scavalcare tutte le altre grandi potenze (USA, Russia, Cina, India) sul piano monetario, commerciale e produttivo. Questo mi sembra essere l’obiettivo più importante delle riforme. È inconfessato dai più, però Giuliano Amato, Franco Bassanini, Marcello Messori e Gian Luigi Tosato (2021, p. 3) sono stati espliciti sull’obiettivo principale della loro proposta di riforma: “rafforzare il ruolo dell’Europa nel mondo”.
Appendice: Come ridurre il rapporto debito/pil aumentando il disavanzo primario
Riprendiamo la formula delle variazioni del rapporto debito/pil: Δd=(G–T)/Y+[(r–g)/(1+g)]d. Si vede subito che non è necessario avere un avanzo primario, cioè G–T<0, per ottenere Δd<0. Dipende da cosa accade alla differenza r–g. E anzi potrebbe accadere che sia proprio un disavanzo primario a far diminuire il rapporto debito/pil.
Ecco un esempio. Se g=0,06, r=0,01, d=1,5, G/Y=0,45 e T/Y=0,40, sarà [(r–g)/(1+g)]d=–0,07 e G/Y–T/Y=0,05. Quindi Δd=–0,02. Con un pil che cresce al 6%, un tasso d’interesse dell’1%, una pressione fiscale del 40% e un rapporto debito/pil del 150%, la spesa pubblica e il disavanzo primario possono essere portati a livelli tali che il rapporto debito/pil diminuisce di due punti percentuali. Il fatto più interessante da notare è che le variabili che compaiono nella formula non sono tra loro indipendenti. In particolare, g è una funzione crescente di ΔG, cosicché una politica fiscale espansiva fa aumentare il reddito e il suo tasso di crescita e per questa via può far diminuire il rapporto debito/pil.
L’argomento si capisce facilmente assumendo che il bilancio sia in pareggio. In tal caso vale un teorema che stabilisce ΔY=ΔG=ΔT. Più aumenta la spesa pubblica (e le tasse) e più alto sarà g=ΔY/Y. Per evitare un eccessivo aumento della pressione fiscale, si può mantenere un bilancio primario in disavanzo. Allora la politica fiscale sarà ancora più efficace, perché il moltiplicatore della spesa pubblica è più alto di quello delle tasse e maggiore di 1, cosicché ΔY>ΔG>ΔT. E più bassa è la pressione fiscale, più alta sarà la differenza ΔY–ΔG. Se le autorità monetarie lavorano per mantenere basso r, gli aumenti di spese e tasse possono essere calibrati in modo da ottenere Δd<0. Una politica fiscale espansiva ben ponderata fa diminuire il rapporto debito/pil semplicemente perché fa aumentare la domanda aggregata. Può farlo diminuire di più se espande gli investimenti pubblici accrescendo il pil potenziale; e ancora di più se l’aumento della domanda aggregata fa crescere molto gli investimenti privati.
Inoltre, non solo g, ma neanche r è una variabile indipendente. Trattandosi del tasso di rendimento medio sui titoli di stato, dipende dal rischio di default e quindi è una funzione crescente di d. Più alto è il rapporto debito/pil più alto sarà lo spread e il rendimento medio dei titoli di stato. Ovviamente r è ancorato ai tassi d’interesse determinati dalla Banca Centrale. Ma c’è una certa variabilità, quale è osservabile nella dispersione degli spread dei vari paesi europei. Ne consegue che, se d diminuisce, e quindi il rischio di default tende a decrescere, anche r diminuirà. Il fenomeno è particolarmente interessante per un’economia come quella italiana, dove sono alti sia il rapporto debito/pil sia lo spread. Ebbene, in una situazione in cui la Banca Centrale riesce a mantenere un basso tasso d’interesse di riferimento, una politica fiscale espansiva può innescare un circolo virtuoso del seguente tipo: aumenta la spesa pubblica e il disavanzo primario, quindi aumenta il tasso di crescita del pil; se g>r e l’aumento della spesa è ben calibrato, il rapporto debito/pil diminuirà; quindi diminuirà anche lo spread ed r, il che darà un’ulteriore spinta alla diminuzione del rapporto debito/pil. Se, nell’esempio di cui sopra, il tasso d’interesse scendesse dall’1% allo 0,4%, il rapporto debito/pil diminuirebbe di circa 3 punti percentuali invece che di 2.
Un’ultima osservazione. In un paese che fa parte di un’area economica fortemente integrata non tutta la crescita di domanda aggregata generata da un aumento della spesa pubblica si risolve in crescita della produzione nazionale. Una parte consistente si risolve in un aumento delle importazioni e quindi in una crescita della produzione dei paesi concorrenti. Questo fenomeno indebolirebbe gli effetti che una politica fiscale espansiva può avere sulla riduzione del rapporto debito/pil. Perciò è importante che le politiche fiscali espansive siano fatte da tutti i paesi dell’area e/o da un’autorità federale.
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https://www.astrid-online.it/rassegna/2022/07-01-2022-n-348.html.
Ernesto Screpanti
- Una valuta deve assolvere alle tre funzioni di strumento di riserva, mezzo di pagamento e mezzo di scambio. Nel 2021 il dollaro copriva il 58,81% delle riserve internazionali, il 40,51% dei pagamenti internazionali e il 40% delle fatturazioni internazionali; l’euro il 20,64%, il 36,65% e il 40% rispettivamente.[↩]