I contro-movimenti neo-nazionalisti, reazionari e xenofobi fanno leva su una diffusa diffidenza verso le élites politiche al potere perché considerate ossessionate dai propri interessi e privilegi, e verso le istituzioni pubbliche percepite come costose, inefficienti, inefficaci, deviate ed autoreferenziali.
Negli ultimi tre decenni di globalizzazione neoliberista anche in Europa abbiamo vissuto una semplificazione del rapporto tra politica e società. Ovunque, hanno prevalso la “democrazia del pubblico”, la disintermediazione della rappresentanza e della comunicazione, la verticalizzazione del comando e la personalizzazione della politica e delle istituzioni. Si è cercato di semplificare la rappresentazione e la rappresentanza della complessità sociale e di rendere autoreferenziale il sistema politico e le istituzioni rappresentative seguendo il modello classico della democrazia d’investitura.
Il declino della democrazia dei partiti è ormai visibile in modo molto nitido in tutti i sistemi politici europei. I partiti politici, una volta organizzazioni in grado di integrare le masse nel sistema politico-istituzionale nazionale attraverso l’azione di ampi gruppi dirigenti locali e nazionali, si sono ritirati dalla società, dal territorio, dai quartieri e dai presidi locali, per diventare “leggeri”, “liquidi”, spesso in liquidazione, delle pure macchine elettorali, dei simulacri senza iscritti e militanti, e iper-personalizzati o addirittura personali, con una centralizzazione delle decisioni e dei poteri in un numero ristrettissimo di leader carismatici, circondati da piccoli gruppi di persone amiche o fedeli (“cerchi magici”). Un modello imposto da Silvio Berlusconi in Italia con il “partito-azienda” a partire dal 1994 e utilizzato, tra gli altri, da Emmanuel Macron, eletto presidente in Francia con il solo appoggio di un movimento – En Marche! – che portava le sue iniziali e che lui aveva fondato solo un anno prima, ma capace di raccogliere 15 milioni di euro in gran parte da donatori appartenenti all’establishment economico-finanziario francese.
I partiti hanno abbandonato qualsiasi azione pedagogica collettiva, i congressi e le assemblee sono stati sostituiti dalle convention e dai comitati elettorali personalistici, il dibattito sulle strategie dagli “annunci” e dalle “dichiarazioni”, dal presenzialismo televisivo dei leader e dalla comunicazione minimal sui social networks (Facebook, Twitter, Instagram), le ideologie dalle narrazioni (story-telling). L’elettore è ormai da tempo trattato alla stregua di un consumatore da catturare attraverso mirate strategie di marketing.
Con il prevalere della politica spettacolo, della “democrazia del pubblico”, dell’homo videns, come lo definiva Giovanni Sartori, ossia della progressiva trasformazione della comunità dei cittadini in una platea di (tele)spettatori e dei partiti politici in “partiti mediatici”, e quindi del prevalere dell’immagine sulla parola, si è verificata una riconfigurazione cognitiva che ha portato ad una vera e propria mutazione antropologico-culturale: l’analfabetismo funzionale è diventato un fenomeno di massa e si è rovesciato il meccanismo di interpretazione e comprensione del reale, per cui si è arrivati a non poter più distinguere cosa è vero da cosa è falso (la questione cosiddetta della post-verità), a non saper più costruire una propria opinione (e quindi ad essere più permeabili alle “bufale”, alle fake news, agli “alternative facts”) e a perdere consapevolezza al momento del voto. La disastrosa chiusura dei giornali locali (solo in America hanno chiuso in 2 mila negli ultimi anni) ha spento una fonte fondamentale di conoscenza per i cittadini sulla vastità e complessità del Paese in cui vivono. Twitter ha sostituito questi giornali come fonte di informazioni, ma non è giornalismo e spesso crea un’immagine fuorviante di ciò che sta realmente accadendo.
Uno dei famigerati tweet di Trump recita: “I FAKE NEWS Media […] non sono i miei nemici, sono nemici del popolo americano!” Respingendo tutte le critiche come “notizie false”, da presidente, Trump identificava la sua persona con il popolo americano e identificava ogni critica nei suoi confronti come anti-americana. La rabbia politica e il carattere autoritario di Trump hanno sostituito la ragione con l’ideologia, i fatti con l’atto, la razionalità con l’emozionalità, la verità con le bugie, la complessità con la semplicità, l’obiettività con il pregiudizio e l’odio. La combinazione di antisocialismo, nazionalismo e razzismo ha alimentato una propaganda che ha cercato di creare falsa coscienza mediante semplificazione, dissimulazione, manipolazione, diffusione di teorie cospirazioniste, diversione e bugie vere e proprie.
Hannah Arendt aveva scritto nel 1951 che il soggetto ideale di uno Stato totalitario non è il nazista o il comunista convinto, ma “persone per le quali la distinzione tra realtà e finzione (vale a dire la realtà dell’esperienza) e la distinzione tra vero e falso (cioè, gli standard di pensiero) non esistono più.”
Questa situazione è aggravata dall’utilizzo in modo sistematico e continuativo da parte dei nuovi leader politici di quella che Noam Chomsky ha definito la “strategia della distrazione”: “L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti. La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali, nell’area della scienza, economia, psicologia, neurobiologia e cibernetica. Mantenere l’attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza vera importanza“.
D’altra parte, il terreno per questa evoluzione era stato preparato sul piano culturale dalla corrente di pensiero postmodernista che dalla seconda metà degli anni ’70 ha relativizzato la realtà, sostenendo che non esistono né grandi narrazioni né fatti oggettivi, ma solo interpretazioni ed opinioni.
Lo scetticismo postmoderno ha cancellato i confini tra vero e falso, e oggi “la gente invece ha bisogno di strumenti critici per interpretare le informazioni, per distinguere ciò che è importante da ciò che è irrilevante e soprattutto per poter inquadrare tutte le informazioni in un più ampio scenario mondiale” (Y. N. Harari, 21 lezioni per il XXI secolo, Bompiani, Milano, 2018:380). Per combattere le derive autoritarie servono cittadini informati, pensiero critico, indagine deliberativa, una cultura della ricerca, una pedagogia e un’educazione al dialogo, al dibattito, all’azione riflessiva e alla produzione culturale.
Siamo passati dai partiti di massa con ramificate organizzazioni territoriali alla moltitudine indistinta o ai potentati senza partiti. Abbiamo leader o ristrette oligarchie senza partiti o con partiti deboli e partiti senza società, senza territorio e senza popolo. Nel nome della ricerca di una “sintonia con il popolo”, tutte le forze politiche alimentano un dibattito pubblico fatto a colpi di slogan, polemiche e attacchi personali, battute ad effetto, sotterfugi dialettici, semplificazioni e distorsioni retoriche. Una evoluzione esasperata dall’emergere di “partiti digitali” o “partiti piattaforma” (P. Gerbaudo, I partiti digitali, Il Mulino, Bologna, 2020) – come il Movimento 5 Stelle, Podemos o La République en Marche prima maniera – che mimano le logiche di funzionamento di Facebook o Amazon, e hanno fondato i loro processi decisionali quasi esclusivamente sulla Rete. Partiti che cavalcano l’idea visionaria e messianica che solo la Rete consente una vera democrazia partecipata, senza intermediazioni, un’orizzontalità assoluta del potere in cui “uno vale uno”. Un’aspirazione che trova il suo limite nelle modalità top-down con cui vengono regolati il funzionamento e le scelte dei temi di consultazione e decisione offerti dalle piattaforme digitali.
La “democrazia del pubblico” ha trasformato la politica in uno spettacolo gestito dai professionisti dei media tradizionali, dei social media e del marketing, in cui domina il senso emotivo di una propaganda pseudo argomentativa che plasma i programmi politici in base a inchieste demoscopiche che aggirano l’autentica dimensione deliberativa di una pubblica formazione dell’opinione. In questo modo, la politica ha completamente abbandonato la funzione educatrice, per limitarsi ad assecondare le spinte emotive, gli umori, le paure e le “percezioni” più diffuse tra la cittadinanza.
Il cosiddetto “populismo” ha esasperato queste tendenze, presentando leader soli al comando, autoreferenziali, chiamati a decidere “in diretta”, che si rivolgono direttamente ai cittadini, senza mediazioni, in rete o attraverso i referendum popolari. La “democrazia immediata” è il trionfo dell’uomo qualunque, della “gente” comune: “io sono come te, non sono meglio di te, al mio posto potresti esserci tu, quindi faccio come faresti tu”. Muovendosi quindi in uno scenario post-ideologico in cui si afferma che non esistono più politiche di destra e di sinistra, la politica non indica più una direzione di medio-lungo periodo, di trasformazione della società, ma risponde solo al consenso permanente e istantaneo.
Da questo punto di vista, non c’è dubbio che le piattaforme digitali, aumentando il potere di disintermediazione, favoriscono il rapporto diretto fra un leader e una massa fusionale e instabile di eguali, svuotando quello che sta in mezzo, accorciando i tempi per la costruzione del consenso, determinando il dominio del “presentismo”, ossia dell’appiattimento all’oggi senza alcuna scansione di passato e di futuro, creando un habitat sfavorevole alla democrazia rappresentativa nella sua forma novecentesca, fondata sugli apparati, le “appartenenze” collettive, gli intellettuali organici, gli uffici studi delle istituzioni e delle grandi organizzazioni economiche e sociali, i partiti politici di massa, i corpi sociali intermedi e la politica come professione.
Inoltre, le piattaforme digitali, con i trolls e l’effetto “echo chamber” favoriscono l’integralismo, ossia una progressiva radicalizzazione delle opinioni perché non mostrano l’altra faccia della medaglia, e quindi accentuano parossisticamente la tendenza delle società moderne, ormai fortemente polarizzate dalle disuguaglianze sociali ed economiche, a dividersi in cerchie culturali separate, in clan, tribù e mondi antropologicamente diversi e segregati. Non a caso oggi in twitter, nei social media, i messaggi hanno molto successo quando sono contro qualcosa o qualcuno. Qualcosa pro invece non sfonda. La contrapposizione, l’odio e l’utilizzo del capro espiatorio sono sempre più convincenti della simpatia e oggi anche i politici spesso hanno successo quando si focalizzano su un “essere contro”: l’importante è che ci sia un nemico e riuscire a trovare il nemico giusto che faccia da capro espiatorio.
La crisi della politica e la destrutturazione sociale ed economica
Non sono solo i partiti ad essere diventati degli ectoplasmi e dei simulacri di sé stessi, ma tutta la cosiddetta “società di mezzo”. Tutti i corpi intermedi della società – le associazioni, i sindacati e le altre organizzazioni di rappresentanza, i movimenti cooperativi, i giornali e i mezzi di informazione professionale – che in una società democratica dovrebbero svolgere una funzione socialmente aggregatrice, solidaristica e di verifica collettiva, si sono indeboliti e frammentati. Sono spesso diventati dei “gusci vuoti” privi di una vera democrazia associativa e hanno perduto gran parte della loro base sociale e della fiducia dei cittadini.
Il passaggio da economie e società strutturate sul modello Fordista a quelle basate sulla digitalizzazione e sul lavoro precario, segmentato, caleidoscopico e autonomo di seconda e terza generazione ha spiazzato il sistema delle rappresentanze delle imprese e del lavoro, tuttora ancorate allo schema novecentesco: grandi imprese, commercianti, artigiani, agricoltori e sindacato dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato.
Oggi, le rappresentanze si interrogano su come rapportarsi alla nuova composizione sociale “liquida” ed intercettare imprese e lavoratori delle piattaforme digitali, del lavoro precario ed intermittente, dell’industria 4.0 e dell’economia circolare, biomediatica e dei servizi immateriali. Non c’è dubbio che i milioni di lavoratori interinali, giovani, migranti e cottimisti senza potere della gig economy avrebbero bisogno di sindacati più forti e inclusivi, capaci di rivolgersi concretamente a tutti i segmenti del lavoro che cambia e di rappresentare quindi anche loro, di battersi per allargare la loro sfera di redditi e di diritti, migliorare le loro condizioni di lavoro, oltre ad offrire servizi mutualistici e di welfare (ad esempio, l’assistenza sanitaria integrativa per i lavoratori).
In particolare, per rafforzare il potere contrattuale del lavoro nei confronti sia del capitale sia del potere politico, servirebbe un nuovo protagonismo del sindacato con un rilancio della sua capacità di fare rappresentanza, di creare una solidarietà collettiva tra i lavoratori e di riaffermare la sua funzione di tutela dei diritti. Il movimento sindacale per continuare a svolgere il suo ruolo essenziale per il bene comune dovrebbe rilanciare quelle che in un discorso ai delegati al congresso della CISL (28 giugno 2017) Papa Francesco ha definito come le sue vocazioni più vere: “la profezia” e “l’innovazione sociale”. “Il sindacato è espressione del profilo profetico della società. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero “venduto per un paio di sandali” (cfr Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”. … il movimento sindacale ha le sue grandi stagioni quando è profezia. Ma nelle nostre società capitalistiche avanzate il sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia. Questa è la profezia. … I profeti sono delle sentinelle, che vigilano nel loro posto di vedetta. Anche il sindacato deve vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.”
Nell’epoca delle galassie segmentate dei lavori c’è un grande bisogno di un soggetto collettivo che sia in grado di offrire un universo comune, mantenendo un rapporto sentimentale, empatico, con le sofferenze delle persone e rivendicando diritti e dignità. Questo vuol dire, ad esempio, anche utilizzare al meglio le tecnologie informatiche e le piattaforme digitali online per mantenere il contatto organizzativo ed assistenziale in tempo reale con i lavoratori dispersi delle “fabbriche diffuse” nei territori. I sindacati dovrebbero elaborare strategie adeguate e sviluppare modalità organizzative e di mobilitazione efficaci per affrontare le questioni centrali che negli ultimi decenni hanno limitato il ruolo delle organizzazioni dei lavoratori:
- la frammentazione ed articolazione dei lavori che porta ad una proliferazione e diluizione della rappresentanza. Se nella fase Fordista la “classe operaia” della grande fabbrica costituiva l’elemento identitario e culturale, il riferimento obbligato sotto il profilo contrattuale, oggi i lavoratori sono “fuori della classe”. Gli operai delle fabbriche ci sono ancora, ma sono diversi da quelli del passato, sono una minoranza dei lavoratori e al loro interno è presente un variegato mix di figure con una miriade di forme contrattuali. Altri mestieri e professioni sono cresciute: il lavoro si è fatto diffuso nei luoghi e nelle forme, con orari asincroni e una crescente difficoltà a distinguere quello manuale da quello intellettuale. Di conseguenza, gli interessi si moltiplicano e le organizzazioni sindacali faticano a raggiungerli, a costruire delle identità collettive e a rappresentarli;
- la rappresentanza dei lavoratori si realizza con efficacia se ci sono delle controparti, degli interlocutori imprenditoriali e governativi, questi però spesso negli ultimi decenni hanno ricercato una disintermediazione nei confronti del sindacato, delegittimandolo, aggirandolo e inseguendo una relazione diretta con i lavoratori e il mondo del lavoro;
- i cambiamenti nelle culture del lavoro caratterizzati da un crescente peso attribuito alla soggettività, alle relazioni sul lavoro, all’identificazione del lavoratore con l’impresa, all’idea di un lavoro inteso come un percorso di crescita professionale, alla valorizzazione del merito, sono divenuti maggioritari negli orientamenti dei lavoratori, ma le organizzazioni sindacali faticano a comprenderli e, soprattutto, a tradurli concretamente nelle tutele e nella contrattazione.
C’è molto da fare per rafforzare la rappresentanza dei lavoratori. Oggi, in Europa si dice che la classe operaia sia finita perché sono diminuite le grandi fabbriche, come se le grandi fabbriche fossero state numerosissime quando la classe operaia è stata storicamente costruita. Si dice anche che le classi sociali non ci sono più perché oggi si lavora a giornata o a ore, come se invece un secolo fa ci fossero stati i contratti a vita; come se tutti i lavoratori europei diventati maggiorenni in pieno boom postbellico avessero avuto contratti a vita e non avessero, invece, cambiato più lavori, radicalmente diversi, dato vita a grandi migrazioni dalle campagne alle città e dalle aree periferiche del sud Europa a quelle centrali del centro-nord Europa, cambiato settore produttivo, trovato per la prima volta un lavoro con garanzie e coperture previdenziali.
E.P. Thompson ha intitolato il suo studio sulle origini della classe operaia inglese The Making of the English working class (1963) per sottolineare che “è lo studio di un processo attivo che dipende tanto da azioni consapevoli (agency) quanto da condizioni date.” Le storie delle classi lavoratrici – operaie, contadine ed artigiane – sono storie non solo di rapporti di produzione, di organizzazione del lavoro, di settori produttivi, di aziende grandi, medie e piccole, ma anche di attività condivise, di leghe, di associazioni di muto soccorso, di banche cooperative, di casse di risparmio, di camere del lavoro, di case del popolo, di sindacati, di partiti politici, di ideali, di idee.
A formare ciò che sono state le classi operaie europee non sono stati solo l’industria, la meccanizzazione dell’agricoltura e l’espansione economica postbellica. Gli operai, più in generale i lavoratori dipendenti, gli uomini e le donne che hanno costituito le classi operaie europee, non hanno solo lavorato, ma hanno anche manifestato e scioperato, si sono ribellati, hanno combattuto per la libertà durante gli anni del nazi-fascismo, si sono schierati politicamente, anche in partiti diversi – socialdemocratici, socialisti, comunisti, cattolici democratici, etc. -, si sono associati e hanno lottato per i loro diritti, si sono battuti contro le lavorazioni nocive e pericolose, per le pensioni, per lo stato sociale. In Europa, senza le idee e l’organizzazione dei sindacati e dei partiti politici di orientamento comunista, socialista, socialdemocratico e cristiano sociale non ci sarebbero state le classi operaie che abbiamo conosciuto nel dopoguerra.
Le opportunità di ricostruire un movimento sindacale e politico con un vero potere sociale sono possibili se sindacalisti e attivisti politici costruiscono strutture democratiche e di base (grass-roots) che attivano campagne e operano con i movimenti nelle strade e nei luoghi di lavoro di oggi. Sindacati e partiti rappresentano ancora gli strumenti migliori affinché coloro che non hanno potere, possano sfidare i potenti.
Oggi, in Italia e in Europa lo sviluppo di una economia on demand o app economy estranea al lavoro salariato standard è resa possibile dalle piattaforme digitali e crea la categoria degli on-demand workers, lavoratori formalmente autonomi, self-contractors, con bassi salari a cottimo e del tutto privi di tutele assicurative e altri tipi di copertura. Uno sfruttamento del lavoro scandaloso che rende urgente la costruzione di una rete protettiva per questi lavoratori precari. Gli strumenti possono essere di diverso tipo:
- l’imposizione per legge alle piattaforme digitali il pagamento di salari minimi e relativi contributi previdenziali e assicurativi per il lavoro occasionale1;
- la creazione di nuove “società di mutuo soccorso” che si fanno carico di coprire i buchi assicurativi e salariali lasciati dalle piattaforme digitali, con le quali trattano direttamente, evitando al singolo lavoratore un negoziato da una posizione di debolezza.
La capacità di associarsi, di organizzare le diverse domande prospettandone soluzioni di tipo solidaristico, di canalizzare risorse in senso universalistico, costituisce un bene collettivo di cui l’associazionismo degli interessi è tipicamente depositario e può essere rilanciato congiuntamente ad un rilancio degli strumenti e delle politiche di sviluppo territoriale (sviluppo locale, politiche di coesione, coalizioni territoriali, welfare territoriale e di comunità). Le rappresentanze degli interessi non possono più avere da offrire soltanto una difesa delle appartenenze, non possono più offrire soltanto servizi, fossero anche molto avanzati, ma devono saper offrire una strategia di evoluzione complessiva dei sistemi locali, nazionali ed europei e porsi, quindi, in una logica di tipo coalizionale.
La globalizzazione neoliberista ha eroso o rotto la coesione sociale sui territori e per questo c’è un’assoluta necessità di fare coalizione sociale, di fare concertazione nel quotidiano per ricostituire nuove forme di coesione che possono consentire alle società locali di uscire dalla condizione di spaesamento e spiazzamento per tornare a fare economia e società. Decenni di politiche neoliberiste di austerità hanno avuto l’effetto di frammentare i soggetti sociali in una moltitudine di persone che vivono nel disagio sociale ed economico, di poveri, disoccupati, sofferenti e abbandonati, di lavoratori precari della logistica e della galassia dei settori dei servizi. Occorre evitare che si combatta una guerra permanente tra gli ultimi (la “guerra tra poveri”), mettendo in campo politiche serie su povertà, istruzione, formazione ed esclusione e sforzandosi di trasformare i segmenti sofferenti della popolazione in popolo, in parte di una comunità politica fondata su valori di eguaglianza e di solidarietà.
Da questo punto di vista, se il territorio non ridiventa un momento strategico dello sviluppo, una opportunità, un investimento della comunità su sé stessa, rischia di diventare l’elemento della solitudine, della chiusura, della rabbia, della frustrazione e del rancore verso i migranti, la democrazia, le tasse, l’élite, lo Stato, l’Unione, l’euro e la globalizzazione.
Occorre individuare nei guasti provocati dal neoliberismo il punto su cui intervenire. Questo vuol dire impegnarsi per riaffermare la necessità di una regolazione dell’economia e del mercato, vedendo nella difesa dei redditi da lavoro e in un rilancio dei sistemi di protezione sociale e sanitaria universali dei temi unificanti, per ricostruire una comunità politica fondata su valori di eguaglianza e di solidarietà2.
La sfida per la politica: fare società
La sfida per le forze sociali organizzate è quella di sempre: riuscire a delineare strategie e politiche adeguate a colmare lo spazio intermedio tra economia e società. Impegnarsi sia ad analizzare nessi e connessioni di imprese, economie, saperi, società attraverso lo sguardo della società circolare sia a costruire reticolo sociale sui territori attraverso la rappresentanza degli interessi. Ragionare assieme, sviluppando un discorso pubblico sulla ricerca di strade che consentano di non contrapporre lo stare al passo con l’innovazione tecnologica e produttiva alla capacità di costruire un modello sociale inclusivo.
Andrebbero ricostruite, quindi, delle nuove organizzazioni – partiti politici e corpi sociali intermedi – agili e capaci di integrare tra loro le forme di democrazia rappresentativa con quelle di una genuina democrazia partecipata e diretta (valorizzando quindi le opportunità derivanti anche dalla rete – dall’open data, dall’e-government, dal civic tech -, come dai referendum consultivi ed abrogativi, dalle leggi di iniziativa popolare, e dalla democrazia deliberativa per consultare i propri iscritti su decisioni importanti da prendere), ma che garantiscano una gestione interna trasparente e democratica, abbiano anche un reale radicamento sociale e territoriale – ad esempio, attraverso la costruzione di reti di community organizers immersi nei territori e in grado di svolgere attività di animazione, sensibilizzazione, mobilitazione e costruzione di reti sociali -, e che consentano di migliorare la formazione, selezione e rappresentatività della classe politica e la qualità del dibattito pubblico.
Partiti politici che siano in grado di mediare il consenso dei cittadini, di stabilizzarlo, di indirizzarlo verso programmi di governo e di selezionare i gruppi dirigenti. Occorre riconoscere che anche nel tempo della “società liquida” la mediazione e la capacità di negoziare dei compromessi e degli aggiustamenti hanno un grande valore, perché permettono l’accordo fra interessi e posizioni ideologiche diverse, anche contrastanti, conflittuali ed alternative, sulla base di procedure che offrono alle parti coinvolte pari opportunità di far valere i propri orientamenti in base alla fondata presunzione di poter raggiungere accordi equi, mentre le forme della rappresentanza sociale sono ancora essenziali per affrontare il nodo del rapporto tra cittadini e istituzioni. Da questo punto di vista, se la “buona politica” continua ad essere caratterizzata da ponderazione, valutazione degli interessi legittimi in campo, confronto tra le diverse soluzioni, considerazione di possibili compromessi, costruzione del consenso, occorre riconoscere che si tratta di funzioni complesse che per essere svolte con qualità hanno bisogno di competenze e di tempi adeguati.
Nelle odierne società democratiche complesse, non basta vincere le elezioni ed essere al governo per poter esercitare il comando. Per essere realmente efficaci occorre essere in grado di accompagnare i processi di trasformazione. Ma, governare accompagnando richiede sofisticate capacità di lettura dei fenomeni politico-culturali e socio-economici in corso, nonché capacità di ascolto e dialogo con il tessuto intermedio della società. Dopo oltre 30 anni di società civile, imprenditori, manager, tecnici, professori e supplenti prestati alla politica, di “dilettanti allo sbaraglio” scelti da ristretti gruppi di interesse o dal “popolo della rete”, è forse tempo di tornare ad un po’ di sano professionismo anche nella rappresentanza sociale e nella politica.
Se il cosiddetto “populismo” è un sintomo dei fallimenti e delle patologie del sistema democratico rappresentativo (corruzione, clientelismo, incapacità di dare risposte ai problemi complessi e ai bisogni delle persone, crescente divario tra i rappresentanti politici e i loro elettorati), perché si fa interprete della rivendicazione da parte di cittadini che ritengono che sia stata negata loro l’uguaglianza davanti alla legge, che i loro diritti fondamentali in quanto cittadini democratici e lavoratori sono stati violati da un’élite egoista e corrotta che non è solo autoreferenziale e sorda alle loro preoccupazioni, sofferenze e rimostranze, ma che sta lavorando consapevolmente contro di loro, queste istanze non dovrebbero essere respinte come anti-sistemiche (e quindi classificate come fenomeni della “anti-politica”), ma prese sul serio al fine di realizzare le riforme volte a migliorare la qualità della democrazia e della rappresentanza. Qualsiasi discussione sulla “sfida populista” per l’Europa odierna e le democrazie occidentali in generale non può essere produttiva se non si tiene conto seriamente dei suoi specifici contenuti e messaggi. Pensare semplicemente di demonizzare i “diavoli” o “nuovi barbari” populisti come fanno abitualmente le forze politiche e i media mainstream, vuol dire demonizzare “il popolo” stesso, le sue preoccupazioni, frustrazioni e contestazioni. Denunciando qualsiasi opposizione alle posizioni mainstream e respingendo ogni critica delle forze “moderate” come “pericoloso populismo”, la politica mainstream sta di fatto alimentando movimenti e leader anti-establishment che assumono posizioni sempre più reazionarie ed estreme che finiscono per condizionare fortemente i governi sul piano delle politiche, soprattutto in materia di immigrazione e sicurezza.
I partiti tradizionali dovrebbero prendere seriamente in considerazione le varie questioni che i “populisti” sollevano, dalla democrazia partecipativa alla trasparenza, dalla disuguaglianza, redistribuzione della ricchezza e protezione sociale alla capacità di rendere conto delle cose fatte. Inoltre, dovrebbero anche rispondere con proposte politiche concrete e con discorsi che possono ispirare positività e speranza tra i cittadini che stanno cercando di sopravvivere in condizioni generalizzate di arretramento sociale e di stagnazione economica. Dopo tutto, questo è il motivo principale per cui i “populisti” hanno avuto e hanno successo: rappresentano certi problemi economici, sociali e culturali salienti sui quali i partiti mainstream non hanno risposto o si sono addirittura dimostrati ostili a prenderli in considerazione.
Occorre ricostruire l’interesse pubblico all’interno dei contesti popolari e promuovere nuove visioni del mondo incentrate sull’identità sociale, tenendo conto che nelle società europee non vi sono unicamente disuguaglianze sociali ed economiche più gravi che in passato. In esse convivono a fatica interessi, opinioni, valori molto eterogenei. Il compito della politica sarebbe quello di ricomporli e ricomporre mosaici di domande sociali differenziate è difficile, soprattutto in fasi di crisi. Confrontarsi con orientamenti mutevoli è complicato, soprattutto quando non si possiedono paradigmi interpretativi consolidati e si è sottoposti a continue tensioni delegittimanti. Ma non c’è altra strada se non quella della ricostruzione della capacità di dare rappresentanza ai tanti soggetti e interessi che innervano il tessuto sociale ed economico attraverso il radicamento nei luoghi materiali (i territori) e virtuali (le reti sociali) dove essi si manifestano.
La politica e la democrazia hanno un costo
Al tempo stesso, occorre essere consapevoli che la politica e la democrazia hanno un costo. Se nei regimi democratici non ci sono partiti organizzati e corpi sociali intermedi, come le grandi associazioni sindacali e di categoria, e se non esiste il finanziamento pubblico (diretto e/o indiretto) alla politica, allora tutto il meccanismo politico-elettorale non può che essere dominato dalla grande ricchezza privata, dai cosiddetti “poteri forti”, dalle “donazioni” (alla luce del sole e/o sottobanco) dei singoli ricchi e delle grandi corporations finanziarie ed industriali.
È evidente che se i politici al potere in uno Stato democratico sono quelli sostenuti economicamente dai grandi capitalisti nazionali ed internazionali, è assai improbabile che possano prendere decisioni che vanno contro questi interessi. Cercheranno di promuovere politiche che aumentino la probabilità di rimanere ricchi e potenti: tasse più basse sui redditi più elevati, maggiori deduzioni fiscali, tagli alla tassazione degli utili d’impresa, tagli alla tassazione ereditaria e alle donazioni patrimoniali, minori regolamentazioni, e così via.
Ma, la maggioranza degli elettori/cittadini non sono ricchi e per prendere decisioni e provvedimenti che essi oggi reclamano – dal rafforzamento del welfare a politiche redistributive tese a ridurre disuguaglianze e povertà – la politica deve necessariamente prelevare risorse economiche da chi le ha, dai redditi e dai patrimoni dei ricchi e dagli utili delle imprese. Pertanto, è solo attraverso l’introduzione di nuove regole che limitino il potere condizionante della ricchezza nella selezione della classe politica, prevedendo adeguate e trasparenti forme di finanziamento pubblico della politica, che i partiti possono tornare a conquistare quella necessaria autonomia dagli interessi del mondo economico che rappresenta la pre-condizione per poter riacquistare la fiducia e il consenso della maggioranza degli elettori/cittadini e per tornare a cogliere, promuovere ed accompagnare i cambiamenti, i soggetti e gli interessi che si coagulano e maturano nella società e nei territori.
Soprattutto, la politica può tornare ad essere un “servizio” condotto con un forte senso di umiltà, sobrietà ed austerità (morale, umana e nel modo di vivere) a beneficio dell’interesse generale, del “bene comune”. Perseguendo le tre virtù cardinali del vero politico identificate da Max Weber – passione, senso di responsabilità e lungimiranza – la politica può tornare ad avere il coraggio di cessare di essere subalterna ai grandi interessi economici e di farsi corrompere. Può inventare una narrazione che non sia solo la difesa dello status quo e tornare a “mettersi in mezzo” tra economia e società, tra capitale e lavoro, spostando l’equilibrio del potere per ricucire i frammenti di una società ormai largamente andata in pezzi, garantendo il buon funzionamento delle istituzioni e dei servizi (riducendo sprechi, inefficienze, corruzione, evasione ed elusione fiscale).
Le istituzioni pubbliche e la capacitazione dei cittadini
Anche le istituzioni pubbliche attraversano una profonda crisi, investite da potenti processi di disintermediazione politica e comunicativa e dalla “spaccatura a mela” di società sempre più attraversate da interessi divaricanti e disuguaglianze. Stanno funzionando senza saper analizzare correttamente la realtà sociale (e quindi senza saperne risolvere i problemi), anzi la respingono come un fattore di disturbo, cercando di sopperire con “narrazioni” agli esiti disastrosi delle politiche e delle “modernizzazioni” neoliberiste che hanno cercato e cercano di imporre.
Pertanto, le istituzioni pubbliche non riescono più a svolgere con efficacia la loro tradizionale funzione di cerniera tra dinamica politica e dinamica sociale che consente ai cittadini di affrontare la vita quotidiana con “spirito di fiducia” e “senso di comunità”. Non a caso, hanno perso molta della loro legittimazione agli occhi sia dei politici (che, infatti, le vogliono “riformare”, semplificare e mettere sotto il loro diretto controllo) sia dei cittadini. Secondo l’istituto di ricerche demoscopiche Ipsos, in Italia solo il 20-24% delle persone esprime fiducia nei sindacati, solo l’11% nel Parlamento e solo il 5% nei partiti politici, mentre fra le istituzioni, mantengono un buon grado di credibilità solo Papa Francesco, le forze dell’ordine, la scuola e il presidente della Repubblica. Sintomi e segni della diffusa domanda di sicurezza e di fiducia in qualcuno e nel futuro.
C’è una forte domanda di adeguamento della macchina amministrativa e burocratica della pubblica amministrazione che sia funzionale al passaggio da uno Stato che da Stato-soggetto autoreferenziale diventi sempre più uno Stato-funzione “capacitatore”, esercitando la funzione di promuovere l’empowerment dei cittadini, di metterli assieme, di concertare e definire insieme delle politiche e degli interventi, valorizzando passioni e competenze della cittadinanza attiva. Un modello che utilizza l’approccio della “capacitazione” (capability approach) pensato dal premio Nobel Anartya Sen e da Martha Nussbaum3.
Senza la sponda attiva delle istituzioni, la dialettica sociale si inceppa: potere politico e società non comunicano, ma coltivano le proprie autoreferenzialità, si delegittimano reciprocamente avvitandosi in una spirale di accuse mediatiche sempre più rancorose. Senza la sponda attiva dei corpi sociali intermedi non esistono più istanze collettive, ma solo rivendicazioni individuali che si traducono in un attacco perenne a tutto quello che non viene fatto. Inevitabilmente, il livello del dibattito pubblico si abbassa, perché lo scontro si polarizza, i toni diventano più accesi e le argomentazioni più scadenti.
Alessandro Scassellati
- Ad esempio, la Procura di Milano, a seguito di un’inchiesta durata un anno e mezzo, ha imposto alle piattaforme digitali Glovo, Uber Eats, Just Eat e Deliveroo 733 milioni di euro di ammenda e l’obbligo di assumere almeno 60 mila ciclofattorini entro 90 giorni, dai primi di febbraio 2021, con un contratto di “prestazione coordinata e continuativa”. Nel marzo 2021, il governo spagnolo e le parti sociali hanno raggiunto un accordo per introdurre nel codice del lavoro una “presunzione di lavoro salariato” per i rider che consegnano pasti a domicilio. Queste persone “ora sono dipendenti e potranno beneficiare di tutte le tutele” derivanti da questo status, ha annunciato il ministro del Lavoro Yolanda Diaz.[↩]
- Parte rilevante della ricchezza generata da una nuova più equilibrata regolazione dell’economia e del mercato e da un’integrazione e globalizzazione economica realizzata in base a nuove regole, deve essere utilizzata per nuove politiche industriali, per la difesa dei redditi da lavoro, per un rilancio dei sistemi universali educativi, di protezione sociale e sanitari, per sostenere i “perdenti”, riducendo le disuguaglianze di reddito e ricchezza, creando un welfare adatto al XXI secolo. Vanno pensate nuove politiche per l’inclusione e coesione sociale e nuovi programmi di social welfare per le persone in stato di indigenza, per i giovani e per coloro che decidono di avere dei figli, con misure universalistiche sia di sostegno al reddito (universal basic income o reddito di inclusione o minimo garantito o di cittadinanza) sia di fornitura di una serie di servizi alla persona finalizzati al suo reinserimento sociale e/o lavorativo.[↩]
- È forse il caso che politica ed istituzioni comincino a pensare anche alla promozione di nuovi corpi sociali intermedi che possono sorgere “dal basso”, attraverso forme di auto-organizzazione territoriale e sociale che facciano perno sul tessuto intermedio associativo e siano capaci di adattare, con flessibilità, i servizi sociali ai bisogni degli utenti cittadini e di coinvolgere una molteplicità di portatori di interessi (stakeholders) presenti sul territorio. È essenziale costruire un sentiero che renda sostenibile un welfare più ampio e allo stesso tempo meno burocratico, cioè un welfare comunitario territoriale che faccia leva su ambiti istituzionali non burocratizzati come la famiglia, il quartiere, la parrocchia, le associazioni private, il volontariato, i centri sociali che sia in grado di dare alle persone (ai giovani, ai “capitalisti personali”, ai lavoratori precari, ai disabili, etc.) coperture che vincano l’incertezza diffusa che colpisce ambiti sensibili, dalla salute al futuro dei figli alla propria vecchiaia. Occorre promuovere e valorizzare quel pezzo di società che si esprime nel terzo settore e nel volontariato e che comprende persone che ancora si spendono per gli altri, lavorano per ricomporre una società sempre più sfrangiata e conservano una visione comunitaria. Pensare ad iniziative che “dal basso” ripropongano in chiave moderna forme di mutualismo come strumenti di solidarietà, condivisione e sussidiarietà autogestita del benessere fuori dalle forme caritatevoli private e pubbliche, che siano capaci di produrre beni pubblici sottratti al monopolio della statualità senza per questo essere ceduti alle logiche della mercatizzazione. Beni pubblici (un museo, una biblioteca, un ospedale, un parco cittadino, etc.) che vanno intesi come beni relazionali e/o condivisi che hanno senso e si valorizzano in quanto riferibili ad una comunità (un territorio, una associazione, un’impresa, etc.), e intorno ai quali si possano riorganizzare i legami sociali. Riaffermare strategie di trasformazione del welfare che pongano al centro gli ideali del “pubblico” e dell’autonomia delle pratiche sociali, la coesione sociale, la produzione di beni relazionali e capitale sociale e l’infrastrutturazione culturale e sociale per alimentare la crescita della comunità, vale a dire i valori di riferimento del mutualismo di un tempo (la dimensione della cura, intesa come pratica di reciprocità che rimanda al tema di una comunità in cui ci si prende carico di qualcuno prendendosi carico di sé stessi) e dell’impresa e della finanza sociale, così come è andata prendendo forma nel corso degli ultimi decenni. Sul piano dell’efficienza e dell’efficacia questo tipo di processi ha un potenziale virtuoso, consentendo di adattare le forme concrete del welfare in base alle specificità delle situazioni di vita sui territori. Sono mature le condizioni per un’espansione dei modelli di solidarietà territorializzate, costruite attorno alle comunità locali e sostenute anche dalle risorse simboliche, finanziarie, di scambio di esperienze o di altra natura offerte dall’UE.[↩]