Sembrava bisognasse attendere poche settimane. In base a quanto stabilito agli accordi di Doha, fra gli Usa e le diverse fazioni in lotta per il controllo dell’Afghanistan, entro la fine del mese di aprile, tutte le truppe statunitensi (ad oggi 2500 soldati più i 6500 di altri paesi Nato) avrebbero dovuto lasciare il Paese, ormai considerato sicuro e pronto ad un “radioso percorso di pace”. E pensare che il 7 ottobre prossimo saranno passati venti anni dai primi attacchi nel paese asiatico per stanare il responsabile dell’attentato alle Twin towers, Osama Bin Laden – peraltro trovato molti anni dopo in Pakistan – nel frattempo in una delle nazioni più povere e martoriate del pianeta è accaduto di tutto. La guerra nel vasto territorio in cui rimasero imbrigliate anche le legioni di Alessandro Magno era iniziata molto prima, con l’invasione sovietica del dicembre 1979, laddove anche Kabul era divenuta ingovernabile. I primi mujaheddin che combatterono contro i carri armati russi vennero ben presto sostituiti dal vasto mondo jahedista deciso a fare dell’Afghanistan una propria roccaforte in cui far valere la sharia con cui uniformare le diverse minoranze linguistiche ed etniche presenti. Ad imporsi furono per un certo lasso di tempo i “taliban” più noti come talebani, ovvero studenti delle scuole coraniche che governarono gran parte del territorio dal 1996 al 2001.
Un dominio mai definitivo: mentre le zone più occidentali e settentrionali non furono mai stabilmente sotto il loro controllo – i Signori della guerra spesso anche coltivatori d’oppio non ne tolleravano lo zelo – il loro governo ricevette poco riconoscimento internazionale (Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Pakistan).
Per paradosso in quella fase e poi anche in quella successiva all’invasione degli eserciti occidentali, comprese le forze italiane, ci furono migrazioni interne verso le zone controllate dai talebani perché, anche se questi impedivano ogni forma di vita sociale alle donne, praticavano abusi, volevano portare il paese indietro di centinaia di anni, garantivano quell’ordine e quella sicurezza che nelle zone di guerra non era possibile pretendere. L’occidente invase l’Afghanistan con il pretesto di “portare la democrazia”, aumentarono invece le violenze, gli scontri armati, la produzione di eroina – si realizzarono grandi raffinerie nelle zone rurali per vendere nel mondo il “prodotto finito” e non il greggio – la tossicodipendenza soprattutto minorile, la distruzione di ogni tessuto sociale.
Secondo i dati offerti dall’Unhcr relativi al febbraio 2020: l’Afghanistan conta una popolazione di 35 milioni di persone. Quasi il 25 per cento è costituito da ex rifugiati che hanno fatto ritorno alle proprie case nell’arco degli ultimi 18 anni, mentre oltre un milione sono sfollati interni.
Circa 4,6 milioni di afghani, compresi 2,7 milioni di rifugiati registrati, vivono ancora al di fuori dei confini nazionali. Circa il 90 per cento di questi è accolto da Pakistan (1,4 milioni) e Iran (1 milione). A questi si aggiungano i tanti e le tante che sono nati in territorio “straniero” e non vengono più neanche considerati afghani.
È il bilancio di oltre 40 anni di conflitti, tanto da far dire ad una delle personalità più significative, l’ex parlamentare, perennemente in clandestinità in casa propria, Malalai Joya, “L’Unione Sovietica ci ha fatto odiare il socialismo; voi italiani, insieme alle forze occidentali, ci avete fatto rinunciare ai valori della democrazia”.
Nel settembre 2020 si sono aperti fra mille difficoltà a Doha, in Qatar, i negoziati “interafghani” fra rappresentanti del governo riconosciuto e forze islamiche, per giungere alla pace ma già da prima, per alcuni paesi europei come Germania, Olanda, Danimarca, l’Afghanistan era considerato “Paese sicuro”, in cui rispedire i richiedenti asilo. Simili politiche venivano messe in atto dalla Turchia come dai paesi della “Rotta balcanica”. Sovente le persone rimpatriate avevano militato nell’esercito regolare, le loro famiglie avevano subito abusi e minacce, c’era nelle lande più estreme chi attendeva il loro rientro per consumare vendette. Molti fra i ritornati sono caduti nel vortice della tossicodipendenza o sono stati arruolati sommariamente in milizie o nell’esercito regolare. Hanno ripreso a combattere per vivere. Alcuni sono stati uccisi o si sono suicidati pur di non precipitare nel “Paese sicuro”. La guerra intanto continuava non solo contro i talebani ma anche con quanto restava di Al Qaeda e dell’Isis formatasi nel frattempo. Gli Usa di Trump sganciavano nel settembre 2017 una Gbu-43 massive ordnance air blast bomb (moab), contenente 11 tonnellate di esplosivo, il più potente ordigno convenzionale mai lanciato nella storia dell’umanità. Lo scopo distruggere tunnel utilizzati dall’Isis, il risultato, decine di morti civili e centinaia di persone divenute sorde a causa dei rumori dell’esplosione.
Nel settembre 2020, dopo governi falliti per corruzione, continui scontri in vaste aree del paese che hanno portato ad un numero di vittime superiore a quello contate nella guerra “guerreggiata”, attentati, e ulteriore impoverimento della popolazione, crescita esponenziale della produzione di eroina, partivano in Qatar lunghi colloqui in cui si alternavano fasi di sviluppo a momenti di stallo. A febbraio sembrava essere stato raggiunto un accordo.
Il 21 marzo l’ambasciata degli Usa a Kabul ha però avvisato i cittadini statunitensi che alcune organizzazioni estremiste stanno pianificando attività dirompenti e attacchi mirati a celebrazioni e grandi raduni durante il Newroz (in pashtun Nowruz). Per tali ragioni sono state rafforzate le misure di sicurezza. Ne ha profittato per avvisare coloro che fossero intenzionati a recarsi in Afghanistan che “l’avviso di viaggio” il codice di rischio per chi si reca in una zona pericolosa, è a livello 4, ovvero si chiede di non partire a causa di criminalità, terrorismo, disordini civili, rapimenti, conflitti armati e covid 19. Nel contempo si è chiesto agli statunitensi presenti nel paese di predisporre la propria partenza. Il presidente della commissione per le relazioni estere del Senato degli Stati Uniti, Bob Menendez, ha dichiarato recentemente che la scadenza degli Stati Uniti, il 1 ° maggio, per il ritiro delle truppe dall’Afghanistan potrebbe dover essere riconsiderata poiché i talebani non stanno rispettando tutti i loro impegni nell’ambito dell’accordo di Doha. La Reuters ha riferito che Menendez ha dichiarato di ritenere che i talebani “chiaramente non rispettino” tutti gli impegni presi nell’accordo di Doha.
In una lettera ai leader afgani e ai talebani, il Segretario di Stato Usa Tony Blinken, che recentemente e a sorpresa si è recato a Kabul, ha suggerito l’istituzione di un governo di transizione.
Ma l’accordo non era di fatto totalmente raggiunto. Secondo il piano, ai talebani sarebbe stata data una rappresentanza del 50 per cento nel governo di transizione. La proposta è stata accolta da reazioni contrastanti tra i funzionari afgani. Il primo vicepresidente, Amrullah Saleh, ha dichiarato che l’Afghanistan non accetterà mai richieste che potrebbero mettere a repentaglio il diritto di voto del popolo, aggiungendo che la lettera con cui si comunicava tale accordo era da considerarsi “vergognosa”. Dal canto suo il portavoce dei talebani alle trattative, Mohammad Naeem, ha fatto sapere che se l’impegno ad abbandonare il territorio afghano da parte delle truppe straniere entro il primo maggio non sarà rispettato, le trattative saranno seriamente compromesse.
Un ginepraio complesso da sciogliere: l’amministrazione Trump aveva preso impegni in tal senso e già una prima parte delle truppe era tornata a casa, la nuova, appoggiata anche dalla Germania e dagli altri paesi europei, esita e vorrebbe modificare l’impegno come emerso nell’ultimo vertice dei ministri degli affari esteri dei paesi della Nato. Nei giorni passati la situazione sul campo è peggiorata, sono ripresi attacchi civili verso funzionari del governo in carica del presidente Ghani, ufficiali dell’esercito e attivisti. Nel mirino, ovviamente sono soprattutto le donne.
Ad agire sono i talebani ma alcuni attacchi sono stati rivendicati dall’Isis e c’è timore, in assenza di passi in avanti, di una ulteriore escalation in primavera. Sono tornati in scena, nell’incertezza dominante, signori della guerra – veri e propri criminali – come Gulbduddin Hekmatyar, “eroe” della lotta antisovietica e ora leader di un partito integralista, Hizb-i-Islami, contrario alle scelte dei talebani e che minaccia un attacco al palazzo presidenziale se il governo non libera migliaia di suoi seguaci oggi detenuti. Si tratta di una vera e propria milizia che una volta fuori, intende fermare ogni eventuale offensiva dei talebani.
Sempre a detta del portavoce talebano, gli accordi fra quello che lui definisce già “Emirato islamico” e Usa, devono prevedere la non interferenza negli affari interni del Paese almeno fino a quando non sarà definito un nuovo governo. In più si chiedeva, già a febbraio, entro 3 mesi la liberazione di tutti i talebani prigionieri e la loro rimozione dalle “blacklist” come conditio sine qua non per giungere ad un “cessate il fuoco” duraturo e ad una fine delle azioni militari. Altro elemento critico è quella della presenza in Afghanistan di forze legate ad Al Qaeda che i talebani negano ma che il governo ancora in carica conferma. Il “paese sicuro” decantato anche in sede europea, semplicemente non esiste e ci vorrà un enorme sforzo e un’azione duratura per evitare che il caos riesploda. C’è disperazione sorda soprattutto nelle province sperdute, si arruolano “bambini soldato”, altro che luogo in cui rispedire chi è fuggito e chi continua, a ragione, a fuggire.