articoli

Afghanistan tra Nation building e World building

di Roberto
Rosso

Riassunto delle puntate precedenti

Il Cambiamento climatico, la pandemia ci mettono a confronto con una dimensione globale che ci avvolge, ci penetra e ci sovrasta. Abbiamo investigato queste dimensioni da diversi punti di vista in precedenti articoli: Grandi cose nella nostra vita che non governiamo, L’antropizzazione infinita di un mondo finito, Sull’orlo dell’abisso, nessuno si salva da solo. L’altro iperoggetto, per citare Timothy Morton, appartiene per intero agli attuali rapporti di produzione e di riproduzione, anzi ne costituisce la determinate principale vale a dire la rete, l’insieme dei processi dell’innovazione tecnologica trainata dalle tecnologie digitali. Se riscaldamento globale e pandemia appartengono comunque alla rottura di ogni equilibrio nel rapporto uomo-natura, nel quale si sono sviluppate le società umane sino all’epoca industriale -più in particolare alla grande accelerazione che parte nella seconda metà del secolo scorso- Big Tech e Big Pharma, assieme alle grandi corporations dell’AgriFood rappresentano l’utopia – o la distopia- di una formazione sociale capace di realizzarsi, mantenersi ed evolversi controllando le basi materiali, naturali e biologiche della propria riproduzione. La narrazione della pandemia per alcuni mesi ha messo in ombra le vicende del cambiamento climatico, il quadro globale della prima ha mostrato la mappa della distribuzione diseguale della distribuzione dei vaccini, della tenuta economica, sociale e sanitaria dei diversi paesi. Il cambiamento climatico negli ultimi mesi ha ripreso la scena, non che in quelli precedenti le cronache ne fossero prive, ma l’estate nell’emisfero boreale ha dato il meglio di sé compreso incendi su un fronte di 2.000 chilometri, per almeno 4 milioni di ettari di Grande Foresta del Nord in Siberia.

Da qualche decennio il confronto strategico avviene non solo tra ‘le grandi potenze’ come si usava dire al tempo della guerra fredda, ma vede un protagonismo delle multinazionali, del digitale in particolare, che entrano in conflitto con il potere di regolazione degli stati stessi, i quali reagiscono e intervengono secondo proprie caratteristiche, fortemente diversificate tra USA, Cina ed Unione Europea, cercando di porre dei vincoli al loro potere strabordante, insinuante e pervasivo.

Lo stop and go dell’economia globale, aratterizzato dalle riprese improvvise, che seguono ai fermi determinati dalla pandemia, conn la conseguente crescita della domanda globale di commodities e semilavorati, le strozzature nelle infrastrutture logistiche stanno dando origine ad importanti fenomeni inflattivi; l’enorme sviluppo dei mercati finanziari che dura da anni in regime di bassi tassi di interesse, incrementato dalle politiche  di spesa pubblica in risposta alla crisi sociale pandemica, mostrano tutte le contraddizioni delle singole formazioni sociali e di quella globale. La pandemia continua a colpire duro e basta un accenno di ripresa della pandemia, anche un singolo caso di origine interna, per ridare il via a restrizioni drastiche1 o a bloccare l’attività di snodi logistici fondamentali2. Nell’andamento delle formazioni sociali non possiamo dimenticare un indice di particolare importanza, vale a dire l’incremento demografico, fortemente influenzato nel medio periodo dalle politiche economiche e sociali o da vere e proprie restrizioni sulla riproduzione, come è accaduto in Cina, dove le restrizioni hanno messo il paese nella condizione rischiosa che deriva da un invecchiamento eccessivo della popolazione. Il rapporto è circolare, come ogni nesso sociale, l’andamento demografico agisce sulle proporzioni della struttura socio-economica e viceversa. Basta pensare alle prospettive di sviluppo demografico dell’Africa sub-sahariana, per noi nel cortile di casa.

Questo rapidissimo schizzo delle vicende globali, dipinge il contesto in cui avviene il grande gioco globale, a cui si attaglia peraltro la metafora dell’orchestra che suona nella sale del Titanic, mentre i passeggeri di prima classe ballano o si intrattengono in giochi di società.

Nel grande gioco globale irrompe l’Afghanistan

Detto questo la denominazione di ‘grande gioco’ rimanda alle vicende del confronto nella regione asiatica che ha al suo centro l’Afghanistan; oggi rispetto al grande gioco globale l’Afghanistan sembrerebbe un elemento più che secondario della scena. In altri contributi di questo numero della nostra rivista on-line si trova una ricostruzione puntuale delle trasformazioni che lo stato e la società afghana hanno subito nell’ultimo secolo. In realtà le vicende ancora in evoluzione di queste ultime ore costituiscono l’esito di un processo, in diverse fasi, che viene dall’occupazione russa, la cui sconfitta è intrecciata con la crisi finale dell’Unione Sovietica e vede L’Afghanistan irrompere sulla scena mondiale come retroterra degli attentati dell’undici settembre 2001 ed il successivo intervento armato deciso dall’amministrazione Bush. Un evento che ha curvato le traiettorie della storia, benché a questa torsione si siano adeguate, cercando di trarne notevoli vantaggi, strategie di acquisizione di controllo su regioni e risorse strategiche.

In questi ultimi vent’anni abbiamo assistito a trasformazioni straordinarie, siamo entrati nella fase di crescita esponenziale delle tecnologie digitali in tutta la loro estensione e complessità, sono cambiati i rapporti di forza a livello globale con l’irruzione sulla scena della Cina, unico vero competitor degli Stati Uniti, siamo passati attraverso la più grande crisi economica e finanziaria dal 1929. Nel 2010-11 -quasi in contemporanea con il manifestarsi di quella crisi- nel bacino del mediterraneo e in medio oriente le trasformazioni sociali, culturaie e demografiche delle diverse società nazionali hanno dato origine alle cosiddette primavere arabe che hanno avuto esiti disparati e per lo più drammatici, per le contraddizioni interne alle formazioni sociali dei diversi paesi, grazie soprattutto agli interventi esterni come in Siria o in Libia o comunque prese nel gioco del confronto strategico.

Prima però nel 2003 c’ è stato l’altro grande evento ossia la seconda Guerra del Golfo con l’invasione dell’Iraq, del cui carattere pretestuoso non vale la pena discutere; essa si collega all’intervento in Afghanistan ed alle vicende successive nel Medio Oriente e nei paesi arabi del mediterraneo. La destabilizzazione dell’Iraq, la polarizzazione prodotta dalle scelte dell’amministrazione USA con la scelta di emarginare del tutto la classe ditigente sunnita dalla gestione del potere, hanno creato un contesto in cui si sono dilatati gli effetti delle vicende afghane, si sono ramificate le linee di sviluppo delle organizzazioni jihadiste. Il riflesso dei movimenti delle primavere arabe in Siria porta di allo sviluppo di una vera e propria guerra civile, per la risposta del regime di Assad; la situazione siriana si collega a quelle irachena con lo sviluppo dello Stato Islamico3.

Peace keeping e Nation  building

Tornando all’oggi, il presidente Biden per giustificare il ritiro dall’Aghanistan alla sua opinione pubblica, al suo elettorato, alla cosiddetta opinione pubblica mondiale, ha affermato che lo scopo dell’intervento in Afghanistan non era il Nation Building, ma l’azione di eradicamento delle organizzazioni, del fenomeno terroristico ribadendo che l’obiettivo è stato raggiunto, benché debba ammettere che la vittoria totale dei talebani sia stata inaspettatamente rapida. Biden evoca il termine di Nation Building, non a caso, benché per la maggior parte delle persone questo termine oggi non dica nulla, se non il significato evocato dal termine stesso, fuori però dal suo contesto storico. L’articolo di Stefano Galieni su questo numero di Transform-Italia riassume, nel contesto di una ricostruzione storica, ciò che è successo in Afghanistan dal 2001, dove si capisce come l’intervento sia stato più che altro militare -fallimentare- più che attivare una pretesa trasformazione sociale, l’obiettivo dichiarato del ‘Nation Building’ in grado di isolare , togliere l’acqua come si usava dire,  alle formazioni alle formazioni degli studentidle scuole coraniche

Il concetto di Nation Building in realtà appare profondamente radicato nella cultura politica statunitense, a partire dalle esperienze che nascono dalla volontà espressa di ricostruire ‘società democratiche’ in Giappone e Germania dopo la sconfitta dei regimi che avevano portato alla seconda guerra mondiale 4.  E’ disponibile una quantità di testi  che riepilogano il percorso tra cui ‘The Road Ahead Lessons in Nation Building from Japan, Germany, and Afghanistan for Postwar Iraq'5 che è stato inviato speciale degli USA in Afghanistan, coautore del testo ‘America’s Role in Nation-Building: From Germany to Iraq'6 con altri esperti della Rand Corporation, nota per il suo ruolo nella elaborazione delle strategie statunitensi. Vale la pena di leggere l’intervista per capire le linee guida della strategia, dove si mettono a confronto situazioni che vanno dalla Germania del secondo dopoguerra, alla Iugoslavia, all’Afghanistan ad Haiti, nel percorso di peace-keeping -termine che abbiamo imparato a conoscere- e Nation Building in quell’intreccio di uso della forza e di pretesa trasformazione sociale che non si è mai realizzata, ma fa parte della cultura politica delle classi dirigenti, delle amministrazioni USA. Oltre a ritenere necessari in goni situazione 20 peacekeepers ogni 1000 abitanti Dobbins prevede anzi auspica un impegno di lungo periodo in Iraq -consapevole quindi della  complessità della situazione da affrontare- con un passaggio ad di responsabilità ad una amministrazione internazionale, con un nuovo alto commissario e l’impegno della NATO nell’azione di Peacekeeping.

Quelli citati sono solo alcuni dei moltissimi testi che riportano il dibattito, riferito sempre a situazioni concrete storicamente definite o attuali al momento della loro stesura; la affermazione del presidente Biden nel discorso con cui motiva il ritiro dall’Afghanistan appaiono in netta contraddizione con gli obiettivi strategici che avevano al loro inizio gli interventi in Afghanistan ed in Iraq. La pretesa conclusione della missione antiterroristica è più che altro la copertura nei confronti del  fallimento dell’obiettivo di prendere il controllo del paese attraverso la ri-costruzione di una società, di istituzioni, di uno stato con caratteri ‘democratici’. D’altra parte garanzie di un cambio di rotta, rispetto al sostegno alle cosiddette strategie jihadiste, da parte dei Talebani al momento in cui l’amministrazione Biden ha preso la decisione del ritiro erano sostanzialmente nulle, così come lo erano le garanzie da parte loro di rispettare gli accordi di Doha del 29 febbraio 2020 coi quali l’amministrazione Trimp annunciava l’intezionedi ritirarsi dall’Afghanistan, fornendo alla controparte un vantaggio  strategico fondamentale oltre a quelli già acuisiti negli anni precedenti.

La scelta dell’amministrazione democraticca è la continuazione in effetti di quella trumpiana che ha portato agli accordi di Doha con i Talebani. Scelta che appare motivata e sostenuta da esigenze di politica interna più che da analisi e giudizi sulla situazione afghana e le sue conseguenze sulla situazione regionale e globale; esigenze così forti da portare l’amministrazione ad ignorare avvertimenti che venivano dal’intelligence sulla reale cpacità di tenuta delle forze armate e delle amministrazioni afghane.

In questi 20 anni sono cambiati anche i Talebani, con un lavoro di radicamento e di intelligence nella società e nella struttura istituzionale a fronte del fallimento di costruzione di nuovi assetti stabili della società da parte dei ‘liberatori’ occidentali. Senza entrare nel merito di una tattica che si evolve giorno per giorno, il percorso strategico costruito dai Talebani si accorda anche con le mutate condizioni globali, a partire dal nuovo ruolo giocato dalla Cina; deve fare i conti con i nuovi assetti sociali, economici e culturali che  nelle città, a Kabul in particolare si sono determinati, esaltando probabilmente le contraddizioni con la realtà delle valli, del resto del  territorio, come dimostrano le manifestazioni di Jalalbad, Asadabad e Kabul.

Uno dei riferimenti comunemente offerti per interpretare le scelte delle amministrazioni statunitensi è lo spostamento del baricentro geopolitico dall’atlantico al pacifico, con la riduzione del valore strategico del mediterraneo e del medio oriente, analisi cui si aggiunge la teoria caos più o meno guidato7, secondo cui le scelte degli ultimi anni  sarebbero guidate da una strategia il cui obiettivo sarebbe quella di destabilizzare l’area, aumentarne contraddizioni e conflitti per tenerla sotto controllo senza dovervi intervenire direttamente, senza impiegare proprie risorse. Questa teoria sembra voler attribuire una sorta di super-razionalità ad un sistema di potere che incontra contraddizioni crescenti a fronte del mutare dei rapporti di forza e dei rapporti sociali, economici e finanziari, della trasformazione sociale, politica, culturale e demografica delle società; il percorso che va dagli interventi in Iraq ed Afghanistan alle primavere arabe ha evidenziato una  tale complessità con un intreccio e stratificazione di fattori che hanno reso obsolete le strategie di intervento più tradizionali, si è dimostrata la irriducibilità di quelle realtà alla combinazione di intervento militare -peacekeeping- e riorganizzazione sociale -Nation building- e valorizzazione degli interessi economici e strategici con cui si pensava di governarle. D’altra parte se la logica di lasciare andare le situazioni porta poi alla penetrazione degli avversari sul piano globale come la Russia in Siria, la Cina In Afghanistan o potenze secondarie come la Turchia in Libia e sempre in Siria, ed oggi in Afghanistan: non sembra che la strategia dia particolari buoni frutti.  Sembra di essere di fronte ad una crisi di modello strategico che si è evidenziato nel percorso che va dall’attribuzione del premio Nobel per la pace ad Obama, passando per l’amministrazione Trump arrivando oggi al catastrofico errore di valutazione – influenzato  dal dover scegliere tra esigenze contraddittorie tra loro – della amministrazione Biden.

Sono rilevanti gli effetti del processo di globalizzazione, accelerati nel primo ventennio di questo secolo, con il mutamento dei rapporti di forza a livello globale, sulla situazione interna degli Stati Uniti. La domanda di una politica del tipo America First è figlia dell’aumento di complessità della situazione globale, di un maggior costo di ogni tipo di intervento, dell’aumento della competizione internazionale ed infine soprattutto dall’aumento delle diseguaglianze sociali in patria; la politica e la parola d’ordine affermata con veemenza dall’amministrazione Trump costituisce in realtà una linea di condotta della nuova amministrazione democratica, in via di non facile definizione costretta a rendere conto delle conseguenze di scelte che vengpono dalla precedente amministrazione e forse da più lontano.

A fronte poi di queste difficoltà di una politica imperialista di tipo tradizionale, di riaffermazione del primato americano  si afferma e si conferma  invece il ruolo di potenza globale delle società multinazionali, del settore digitale in particolare -una sorta di soft power- fondato sulla straordinaria capacità di estrarre valore dalle relazioni sociali, di prendere il controllo di un reticolo sempre più fitto di poli di produzione tecnologica e di digitalizzazione pervasiva delle formazioni sociali, con un accumulo di potere finanziario senza precedenti; una situazione inedita rispetto al rapporto tra stato imperialista  e società multinazionali che soteneva con le sue politiche ed interventi diretti, in un intreccio strettissimo  che lasciava ad ogni soggetto le proprie specifiche prerogative.

La penetrazione a livello micro e macro del reticolo tecnologico digitale oggi mette in discussione il potere di regolazione degli stati a tutti i livelli sia al proprio interno che sullo scenario globale. È una crisi di modello, del ruolo dello stato nel processo di riproduzione capitalistica, ciò non costituisce certo una novità in senso assoluto, ma gli ultimi anni hanno visto una sua accelerazione e una proliferazione delle sue manifestazioni, seguendo l’espandersi dei terreni sui si esercita l’influenza dei big tecnologici.

Potremmo dire che se a cavallo del passaggio di millennio l’obiettivo appariva quello del Nation Building sotto la guida strategica degli stati, oggi il Big Tech ha come orizzonte strategico lo World Building, in questo aprendo contraddizioni profonde con le prerogative statuali; ciò non implica che queste contraddizioni siano tali da portare ad una crisi radicale degli assetti di potere semmai ad una loro evoluzione sia pure con momenti di scontro acuto e salti di qualità negli assettieconomici, sociali,  istituzionali e normativi

Insomma passando sotto la lente d’ingrandimento la situazione afghana e soprattutto il suo contesto, le scelte delle grandi potenze, le linee di forza e le connessioni che la attraversano siamo costretti ad alzare lo sguardo dalla situazione tragica ed in rapida evoluzione del paese conquistato dai talebani, pur mantenendo la nostra attennzione su du essa; quanto meno si prova a rispondere a questa necessità con gli strumenti che si hanno a disposizione, cercando di affinarli e potenziarli.

Infine tocca fare i conti con la realtà dei migranti dall’Afghanistan, realtà non nuova che ha visto negli anni muoversi milioni di persone e ci rimette  di fronte in Europa la miseria delle chiusure, delle discriminazioni nell’inutile tentativo ancora una volta di isolarsi da flussi migratori crescenti, conseguenza delle crescenti diseguaglianze sociali, delle guerre, delle crisi economiche, ecologiche, climatiche e sociali. Una realtà che rimanda alla necessità di movimenti globali, guidati da una logica solidale, contro la chiusura nei recinti nazionali rivendicando assieme l’autodeterminazione dei territori, come la sovranità alimentare, la giustizia sociale e la lotta contro il riscaldamento globale e la devastazione dei sistemi ecologici.

Ritorniamo necessariamente dallo specifico della situazione locale alla necessità di uno sguardo, di una azione globale. Fuori e contro la sintesi che i circuiti tecnologici e finanziari, gli interventi economici e miliitari impongono: dove opera l’astrazione e l’omologazione rivendichiamo le differenze e l’autodeterminazione, dove opera l’isolamento, la separazione e la contrapposizione rivendichiamo, la solidarietà, la connessione, il reciproco riconoscimento, la condivisione dell’azione e della conoscenza.

 

 

 

  1. https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Coronavirus-primo-caso-di-variante-Delta-e-Nuova-Zelanda-va-in-lockdown-9c30cc9c-1b13-46be-8c21-9f1f8b5c3441.html []
  2. https://www.bnnbloomberg.ca/china-port-congestion-worsens-as-ningbo-shuts-for-seventh-day-1.1641020 []
  3. https://www.limesonline.com/tag/stato-islamico []
  4. Post-World War II Nation-Building: Germany and Japan – https://www.jstor.org/stable/10.7249/mg716cc.10?seq=1#metadata_info_tab_content  Lessons in Nation-Building: The American Reconstruction of Germany and Japan https://www.e-ir.info/2008/10/20/lessons-in-nation-building-the-american-reconstruction-of-germany-and-japan/ []
  5. https://www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&cad=rja&uact=8&ved=2ahUKEwjT2paf97jyAhV7_7sIHfhtCMEQFnoECAIQAQ&url=https%3A%2F%2Fwww.usip.org%2Fsites%2Fdefault%2Ffiles%2Fresources%2Fpwks49.pdf&usg=AOvVaw1zAa_bUhlfk-D2DKSflRYZ)).

    Nle novembre 2003 a pochi mesi dall’invasione dell’Iraq il New York Times pubblica una intervista a James Dobbins(( https://www.nytimes.com/2003/11/21/international/middleeast/nationbuilding-in-iraq-lessons-from-the-past.html []

  6. https://www.rand.org/pubs/monograph_reports/MR1753.html []
  7. Manlio Dinucci  2019 https://ilmanifesto.it/la-strategia-del-caos-guidato/  Alberto Negri 2021 https://ilmanifesto.it/afghanistan-e-iran-la-strategia-del-caos-degli-stati-uniti/ []
Afghanistan, bambini migranti, Biden, Cina, Iraq, Talebani
Articolo precedente
Donne in Afghanistan
Articolo successivo
Gli ‘mpuniti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.